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La diserzione dei migranti nel modello globale di società-esercito

Intervista a Luca Mondo, ass. Ya Basta!

E’ una relazione di tipo militare perché le elite di potere hanno codificato queste relazioni con norme militari in cui la risposta dei poteri alle pratiche di rivendicazione dei diritti viene definita legalmente e prevede l’applicazione di sanzioni nuove, giustificate dalla lotta al terrore condotta dall’occidente.
La ribellione dei migranti che aspirano a condizioni di vita diverse è una minaccia forte per un potere che deve mantenere i propri privilegi e governare ogni trasformazione dell’assetto mondiale a proprio vantaggio.
La reazione sempre più smisurata contro i migranti in diverse parti d’Europa, dove si arriva a imprigionare, disprezzare e uccidere, è diventata una pratica legittima, contenuta in “codici” nazionali e transnazionali che interpretano l’estraneo e il non conforme come nemico. I migranti sono assunti come nemici e quindi come prigionieri di guerra, in Europa e ai suoi confni sorgono carceri militari per nemici in tempo di guerra.
A questa logica di società-esercito non sono estranei i partiti del centro-sinistra, che difendono la detenzione amministrativa per migranti, giustificano la presenza dei militari in Afghanistan, governano le contraddizioni delle città con strumenti di repressione militare.
Qualsiasi opposizione ad un modello militare di governo diventa gioco forza diserzione e tutti i comportamenti che confliggono con il paradigma amico-nemico sono considerati disertivi e quindi punibili con pene severissime, che contemplano anche l’alzo zero, il fuoco.
Tuttavia la diserzione è una pratica necessaria, l’unica opzione possibile in una società di guerra. Smontare i CPT così come violare le zone rosse delle frontiere e dei confini assaltando le reti o attraversando il mare significa sottrarsi alla logica dell’arruolamento e quindi disertare ed insubordinare.
Nel modello militare della società la riduzione del migrante a nemico favorisce uno sfruttamento economico straordinario del lavoro da lui prodotto, al punto che è possibile scivolare senza contraccolpi verso rapporti di lavoro in cui è applicata la relazione schiavo-padrone.