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La garanzia di un alloggio

Si tratta di una questione che ha dato luogo a molti dubbi e a molte domande da parte dei diretti interessati. Molto spesso, infatti, il datore di lavoro è preoccupato di dover offrire in proprio, sempre e comunque, un alloggio al lavoratore, perché nel momento in cui compila il modulo di regolarizzazione non comprende bene che cosa significhi l’impegno a garantire un alloggio al lavoratore. Accade infatti di frequente che il lavoratore abbia già un alloggio per conto proprio e quindi il datore di lavoro non comprende se quell’alloggio potrà continuare ad essere utilizzato dal lavoratore o se debba lui stesso procurarne uno nuovo.

Questi dubbi sono infondati perché, anche se l’espressione della modulistica è piuttosto ambigua e si presta ad erronee interpretazioni, dobbiamo ritenere che la dichiarazione per la garanzia di un alloggio da parte del datore di lavoro altro non significhi se non che il datore di lavoro dichiara sotto la propria responsabilità che il lavoratore dispone di un alloggio.
Dunque, se il lavoratore si è già procurato un alloggio per conto proprio ciò non significa che, con la fase della regolarizzazione, il datore di lavoro debba procurarne uno nuovo, essendo evidente che il semplice scopo della legge è che ogni persona che regolarizza la propria posizione di soggiorno e di lavoro abbia comunque un alloggio.

Se da un lato l’alloggio non deve essere procurato in ogni caso dal datore di lavoro, è importante notare che se anche fosse procurato dal datore di lavoro non deve essere pagato dal datore in aggiunta al normale costo del lavoro, vale a dire la retribuzione contrattuale, i contributi assicurativi previdenziali e le ritenute fiscali; se così fosse, infatti, avremmo un trattamento discriminatorio, ma questa volta nei confronti dei lavoratori italiani. Solo nel settore del lavoro domestico (non fa differenza se si tratta di normali colf o di “badanti”) l’alloggio ed anche il vitto sono da ritenersi dovuti in aggiunta alla retribuzione quando si tratta di lavoratori “conviventi”, ma ciò è dovuto ad una specifica previsione del contratto collettivo nazionale per il lavoro domestico, un’eccezione che conferma la regola.
A maggior ragione, dunque, poiché l’alloggio non deve essere pagato dal datore di lavoro, il lavoratore immigrato può cercarlo autonomamente -come avviene realmente nella quasi totalità dei casi – e cambiarlo altrettanto liberamente.

Non ha importanza se il diretto interessato dimostra la disponibilità di un alloggio con un atto di proprietà o con un contratto di affitto a suo nome, poiché può essere ospitato nell’alloggio di un connazionale, di un parente o può abitare a casa della fidanzata. Può trattarsi persino di un centro di accoglienza (il cui regolamento consenta tuttavia un soggiorno di durata apprezzabile).
In tutte queste ipotesi l’importante è dimostrare che esiste un alloggio e che il lavoratore immigrato ne ha la legittima disponibilità e vi abita effettivamente.

Non è richiesto che si tratti di un alloggio idoneo cioè un alloggio per il quale esiste un certificato di idoneità appositamente rilasciato dal competente Ufficio Comunale o dall’Azienda Sanitaria Locale competente per territorio.
Il certificato di idoneità dell’alloggio viene richiesto solo in casi specificamente previsti dalla legge:

1- nel caso in cui si tratti di una procedura per ricongiunzione familiare, cioè quando deve essere ancora autorizzato l’ingresso dall’estero dei familiari del lavoratore immigrato
2 – quando viene richiesta la carta di soggiorno da parte del lavoratore immigrato per sé stesso e anche per i familiari a carico.
In questi casi non solo si deve dimostrare la disponibilità di un alloggio, ma si deve certificare che l’alloggio sia idoneo, in base ad una verifica che gli uffici competenti effettuano per stabilire la corretta proporzione tra la superficie e il numero massimo di occupanti, in relazione alle condizioni dell’alloggio.

Nel caso della regolarizzazione nessuna norma richiede che questo alloggio debba essere certificato come alloggio idoneo. L’importante è che esista un alloggio e che non sia occupato illegalmente dal lavoratore immigrato. E’ irrilevante ai fini della domanda di regolarizzazione se l’alloggio sia stato procurato o venga pagato dal datore di lavoro.

Il pagamento dell’alloggio

È comunque piuttosto frequente il caso in cui è il datore di lavoro a garantire, dal punto di vista anche più strettamente giuridico, la disponibilità di un alloggio, perché magari è egli stesso che va a stipulare il contratto di affitto di un appartamento, con la specifica dichiarazione di utilizzo da parte dei propri dipendenti dell’appartamento intestato all’azienda. Anche in questo caso l’alloggio non lo deve pagare il datore di lavoro in aggiunta allo stipendio ma lo pagherà chi lo utilizza effettivamente.
Il decreto legge convertito in legge prevede (modificando quindi la legge 189 a questo riguardo) che “… i datori di lavoro, in esecuzione della garanzia prevista nel contratto di soggiorno per lavoro subordinato, abbiano sostenuto le spese per fornire un alloggio rispondente ai requisiti di legge, possono a titolo di rivalsa e per la durata della prestazione, trattenere mensilmente dalla retribuzione del dipendente una somma massima pari ad un terzo dell’importo complessivo mensile”.
Naturalmente, questa norma riguarda solo i casi in cui effettivamente è stato il datore di lavoro a procurare l’alloggio ed ad assumere direttamente i costi relativi al pagamento dell’affitto ed eventualmente anche al pagamento delle spese relative al consumo di energia elettrica, riscaldamento, acqua, spese condominiali ecc…
Bisogna però far attenzione a non leggere questa norma così com’è, senza interpretarla, perché si può trattenere fino ad un terzo della retribuzione mensile ma questo deve corrispondere al costo effettivamente sostenuto fino a quella cifra massima. Se il costo sostenuto dal datore di lavoro è inferiore, è chiaro che la trattenuta potrà essere effettuata in proporzione e non certo fino alla quota massima prevista.
Esempio pratico: Se un’impresa ha affittato un appartamento a proprio nome per farci alloggiare quattro dipendenti e paga 400 euro mensili di affitto, potrà trattenere dalla busta paga di ciascuno di questi quattro dipendenti 100 euro mensili.
Il lavoratore immigrato che fosse alloggiato presso un appartamento procurato dal datore di lavoro in base ad un contratto di locazione ad egli intestato, avrà il diritto di ricevere un rendiconto, di poter quindi verificare quali sono le spese effettivamente sostenute dal datore di lavoro e di pagare la propria quota solo in base alle spese effettivamente sostenute dal datore di lavoro; tale trattenuta non può dunque costituire un’ulteriore forma di sfruttamento a danno del lavoratore poiché se fosse richiesto un “sovraprezzo” si verificherebbe una forma di usura palesemente illecita.

Contratto di affitto ad uso foresteria

Precisiamo che in molti casi il datore di lavoro stipula un contratto di locazione utilizzando la forma giuridica del contratto ad uso foresteria.
Dobbiamo anche in questo caso fare alcune precisazioni: infatti, il contratto di locazione ad uso foresteria è per definizione un contratto destinato a soddisfare esigenze abitative di tipo transitorio, quindi può essere validamente utilizzato nel caso di persone che non hanno un rapporto lavorativo di tipo stabile.
Esempio pratico: Si possono stipulare contratti di locazione ad uso foresteria nel caso in cui si debba alloggiare temporaneamente lavoratori distaccati da un’altra impresa o da una società collegata che ha sede altrove, perché è previsto che questi lavoratori debbano trattenersi magari solo un paio di mesi presso l’azienda per un corso di aggiornamento.

Diversamente, non è lecito l’utilizzo del contratto ad uso foresteria quando si tratta di alloggiare persone che hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato e quindi utilizzano quell’alloggio per soddisfare ad un’esigenza abitativa a carattere tendenzialmente stabile.
In questo caso il lavoratore avrà la possibilità di invocare la corretta applicazione della legge e quindi rivendicare l’applicazione dei parametri riferiti al c.d. “equo-canone”; potrà richiedere quindi un’applicazione delle regole che stabiliscono i criteri di calcolo del massimo importo possibile del canone di locazione da pagare e soprattutto avrà diritto di far valere la legge nella parte in cui prevede una durata minima del contratto di locazione ad uso abitativo.
Infatti, un contratto di locazione ad uso abitativo, per un’abitazione stabile del lavoratore e dei suoi familiari, ha la durata minima legale di quattro anni. Molto spesso invece questi contratti ad uso foresteria sono contratti di durata annuale. Nella misura in cui non si tratta realmente di un utilizzo transitorio dell’abitazione, la clausola che prevede una durata annuale è nulla perché contraria alla legge che garantisce a chi utilizza una casa per abitarci stabilmente una durata minima di quattro anni.

Contratto di affitto e contratto di lavoro

Anche se il contratto di locazione è intestato direttamente al titolare dell’impresa e poi l’appartamento è utilizzato stabilmente dai lavoratori, dobbiamo ritenere che comunque si tratta di un contratto che vive autonomamente rispetto al contratto di lavoro vero e proprio.
La risoluzione del rapporto di lavoro per licenziamento o per qualsiasi altra causa non può comportare automaticamente anche la fine del contratto di affitto, a meno che non sia previsto espressamente nel contratto di locazione.
Questo perché la funzione tipica del contratto di locazione è quella di fornire un’abitazione alla persona, non di garantire una prestazione lavorativa.

Se invece il datore di lavoro vuole legare strettamente lo svolgimento della prestazione lavorativa all’utilizzo di un alloggio da lui procurato, deve essere stabilito specificamente con apposito contratto o con un accordo che integra il contratto di lavoro.
Esempio pratico: Può essere un accordo valido quello per cui un datore di lavoro concede al lavoratore un alloggio e quindi pattuisce che la retribuzione -ad es. di 1000 euro mensili – non sia corrisposta tutta in denaro liquido ma anche “in natura”. La busta paga, in questo caso, indicherà comunque una retribuzione di 1.000 euro, di cui 200 euro in natura, sotto forma di godimento dell’alloggio, e i rimanenti 800 in denaro. La fruizione dell’alloggio è una forma di retribuzione, un benefit, ed è assoggettato ai contributi come una normale retribuzione.
Naturalmente, poiché il canone si paga mensilmente, la tredicesima mensilità di stipendio (e la quattordicesima, nei casi in cui è prevista) dovrà vedere comunque la corresponsione dell’intero importo della retribuzione in denaro liquido.
Allo stesso modo la liquidazione, il trattamento di fine rapporto del lavoratore dovrà essere sempre calcolata sulla base di una retribuzione mensile, non potendosi computare nel calcolo della liquidazione anche il godimento dell’alloggio.
L’accordo è valido nella misura in cui sia espressamente pattuito in questi termini, rendendo evidente la volontà di entrambe le parti di vincolare l’uso dell’alloggio al mantenimento in atto del rapporto di lavoro; in caso contrario, quando si stipula un contratto di affitto separatamente rispetto al contratto di lavoro, la cessazione del rapporto di lavoro non può comportare l’automatica risoluzione del contratto di locazione.

La variazione di alloggio

Molti si sono chiesti se l’alloggio che viene indicato nella domanda di regolarizzazione potrà essere cambiato nel corso del tempo e se l’eventuale cambiamento dell’alloggio potrà comportare qualche problema per il perfezionamento della pratica di regolarizzazione.
Non ci può essere nessun problema a questo riguardo. E’ normale che una persona possa cambiare l’alloggio,ad esempio perché può diventare inabitabile a seguito di qualsiasi evento (incendio, ecc..), o può esserci uno sfratto o il venir meno dell’ospitalità garantita gratuitamente da parte di un’altra persona, ecc..
E’ importante che sia comunicata formalmente la variazione di alloggio anche durante il tempo di attesa di convocazione presso lo sportello dell’Ufficio Territoriale del Governo (Prefettura).

A prescindere dagli obblighi del datore di lavoro, chi ospita a qualsiasi titolo un cittadino immigrato, sia in base a un contratto vero e proprio, ovvero in base a un canone di pagamento dell’abitazione che è stato pattuito tra le parti, sia gratuitamente, deve sempre e comunque denunciare entro 48 ore all’autorità locale di pubblica sicurezza (questura) l’inizio del rapporto di ospitalità.
Se questo non avviene si può incorrere in sanzioni amministrative piuttosto pesanti dal punto di vista economico.

Se l’alloggio è stato procurato dal datore di lavoro sarà lui a dover denunciare l’inizio dell’ospitalità alla questura, indipendentemente dall’inoltro della domanda di regolarizzazione.
Nel caso in cui l’alloggio sia stato procurato da un soggetto estraneo al rapporto di lavoro, sarà questo soggetto a doverlo fare.
L’obbligo di denuncia di ospitalità è completamente indipendente rispetto a tutti gli altri adempimenti del datore di lavoro e riguarda anche i soggetti estranei al rapporto di lavoro.

Nel modulo per la regolarizzazione viene chiesta solo l’indicazione dell’alloggio di cui dispone al momento dell’inoltro della domanda il lavoratore interessato. Quando ci sarà la convocazione preso lo sportello della Prefettura dovrà essere documentato adeguatamente anche lo specifico rapporto che consente l’uso dell’alloggio ed inoltre che l’ospitalità dello straniero è stata regolarmente denunciata all’autorità locale di pubblica sicurezza, come pure le eventuali variazioni di alloggio intervenute nel corso del tempo.

Dichiarazione di ospitalità

È una dichiarazione in cui si afferma di ospitare a casa propria un cittadino immigrato extracomunitario. Deve essere fatta dalla persona titolare del contratto di affitto, accompagnando la dichiarazione con una fotocopia della regolare denuncia di ospitalità e la fotocopia del documento di identità del dichiarante.
Sarà necessario fornire anche la fotocopia del contratto di locazione registrato, intestato alla persona che produce la dichiarazione di ospitalità.
Tutti questi adempimenti dovranno essere ripetuti nel caso in cui l’alloggio cambi.

Quando si tratta di migranti senza permesso di soggiorno molto spesso la persona che li ospita -pur avendone l’obbligo legale– omette di presentare denuncia di ospitalità per evitare di esporre il proprio ospite al rischio di un provvedimento di espulsione.
Nel decreto legge convertito in legge è stata prevista una sorta di mini-sanatoria anche di coloro che finora non hanno rispettato questo obbligo. Nel comma 9 bis dell’articolo 1 si prevede che: “..per i soggetti diversi dal datore di lavoro l’obbligo relativo alla comunicazione dell’alloggio, come previsto dall’art.7 del Testo Unico, può essere adempiuto fino alla data dell’11 novembre 2002”
Quindi se entro l’11 novembre 2002 verrà presentata la dichiarazione di ospitalità, anche se essa è iniziata da molto tempo e comunque non è stata denunciata entro le 48 ore, l’ospitante non può incorrere in nessuna sanzione.