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La non accoglienza in Friuli Venezia Giulia: un quadro drammatico

Aumentano gli arrivi di migranti nella regione di frontiera, in particolare afghani e pachistani respinti da Germania ed Austria. E la rotta dei Balcani non è distante

Intro

Nelle ultime settimane, complice il solito tam-tam mediatico che urla all’invasione, il Friuli Venezia Giulia si è riscoperto regione di frontiera. La costante modifica della rotta balcanica, arrivata da qualche settimana anche in Slovenia, fa crescere il timore che questa possa in qualche modo interessare anche la regione, le cui Istituzioni continuano a dichiararsi “pronte” a fronteggiare il peggio.
Sembra però essere sfuggito loro il fatto che il Friuli Venezia Giulia è già in qualche modo posizionato sulla rotta balcanica, specie per coloro che non godono dei favori di Germania e Austria, che si dicono pronte a rimandarli ai loro “pacificati” paesi di provenienza: si tratta dei migranti provenienti da Afghanistan e Pakistan, che da anni (e non da quest’estate) attraversano i paesi balcanici per raggiungere il Nord Europa ma anche l’Italia. Proponiamo di seguito una breve panoramica della situazione in Regione, dove l’unica risposta pronta ai costanti arrivi di questi mesi continua a essere solo quella del volontariato.

E’ passato quasi un mese da quando, per un attimo, la situazione dei richiedenti asilo a Gorizia ha nuovamente bucato la coltre di silenzio in cui è staticamente avvolta da oltre un anno.
Il prevedibile innalzamento del livello del fiume Isonzo e il conseguente allagamento degli accampamenti nella “jungle” di Gorizia hanno visto da più parti, anche a livello nazionale, crescere il consenso sul fatto che bisogna trovare una soluzione al più presto. 

Tralasciamo, per amor di sintesi, la riflessione che andrebbe fatta sulle tempistiche di quelle forze, politiche e non, che scoprono la situazione dei richiedenti asilo a Gorizia dopo che da più di un anno le associazioni locali denunciano ripetutamente la passività della Prefettura e le politiche respingenti del Sindaco Ettore Romoli. Va però notato come questa assenza di attenzione per un territorio che solo recentemente è diventato visibile agli occhi del resto del paese come ‘altra frontiera italiana’, sia stata la ragione per cui diverse vesti si sono stracciate al grido di “Il CIE di Gradisca e’ stato riaperto!“, come se questa fosse una novità di ottobre.
Questa infatti la brillante soluzione “temporanea” proposta dalla Prefettura di Gorizia in seguito allo sgombero naturale messo in atto dalle acque del fiume Isonzo il 14 Ottobre scorso. Il CIE di Gradisca tuttavia funziona come “CARA provvisorio” dal 10 gennaio scorso, quando di fronte ad un’altra emergenza l’allora Prefetto Zappalorto decise di aprire i cancelli del “mostro” (dormiente dal Novembre 2013) per garantire temporanea accoglienza a una quarantina di richiedenti asilo che altrimenti sarebbero rimasti al freddo. A mezzo stampa, il Prefetto chiarì che si trattava di una situazione temporanea, e che entro “una settimana” il CIE sarebbe stato svuotato. Da allora invece, il CIE è sempre rimasto in funzione come CARA improvvisato. “Temporaneo“, “emergenza“, parole ricorrenti che rivelano non solo una preoccupante assenza di pianificazione nell’operato della Prefettura, ma anche il sistematico ricorso a soluzioni che vanno costantemente a ledere i diritti fondamentali dei richiedenti asilo, i quali arrivano a gioire per la sistemazione ricevuta in quell’angosciante spazio fatto di sbarre e vetri antisommossa, perchè “è pur sempre meglio che vivere in mezzo al fango della jungle“. 

Cie di Gradisca d'Isonzo
Cie di Gradisca d’Isonzo

Poco importa se per almeno una settimana a circa un centinaio di richiedenti asilo spostati al CIE sono mancati i materassi. Poco importa se la popolazione totale della struttura CIE/CARA di Gradisca è salita a 400 persone e se l’accoglienza diffusa nella Provincia di Gorizia continua ad essere una proposta zoppicante e limitata, nonostante lo stesso Ministero dell’Interno continui a parlare di “superamento dei CARA“. Poco importa se ancora non sia chiara la modalità di convenzione esistente tra l’ente gestore (la Cooperativa Minerva) e la Prefettura di Gorizia (l’istanza di accesso agli atti presentata da Tenda per la Pace e i Diritti, Cittadinanzattiva e LasciateCIEntrare a marzo 2015 non ha mai meritato una risposta). 
Non è tuttavia utilizzando gli spazi del CIE come CARA, che si è risolta la “questione richiedenti asilo” a Gorizia.
Dal 15 Ottobre il volontariato ha continuato tenacemente a lavorare per garantire un pasto caldo ed un tetto (per quanto improvvisato) sopra alla testa delle decine di richiedenti asilo che continuano ad arrivare a Gorizia. Al momento, sono almeno 250 i richiedenti asilo che vivono a Gorizia fuori dal sistema ufficiale dell’accoglienza: a loro pensa il volontariato, una pluralità di soggetti che instancabilmente raccoglie coperte, chili di riso e vestiti. I richiedenti asilo vengono sistemati dove è possibile: le parrocchie offrono i propri spazi, Caritas fa altrettanto. Qualche giorno fa una cinquantina di persone sono state trasferite al CARA: sembrava che questo spostamento potesse dare un attimo di respiro al sistema dell’accoglienza “parallela“, ma così non è stato: negli ultimi giorni gli arrivi hanno superato le 80 persone e la sfida di fornire un tetto a tutti continua. 
Medici senza Frontiere, presente sul territorio goriziano da oltre un mese, è impegnata in una apparentemente difficile trattavia con la Prefettura di Gorizia, cui l’ONG ha proposto “un intervento per migliorare l’accoglienza dei richiedenti asilo“. Non sembra tuttavia che la Prefettura sia entusiasta di questo intervento esterno, come non lo è stata nel recente passato di fronte alle numerose proposte della Provincia di Gorizia che ha ripetutamente offerto degli spazi da utilizzare per la prima accoglienza.
A Gorizia arrivano giornalisti, televisioni, ONG internazionali e occasionalmente dei parlamentari. Tutto sembra cambiare, ma nella pratica nulla cambia.

AGGIORNAMENTO:

Il 13 Novembre i pullman hanno trasferito un centinaio di “ospiti” del CARA verso la nota tendopoli CRI di Bresso, altro simbolo di non accoglienza già precedentemente utilizzato dalla Prefettura di Gorizia (ansiosa di soddisfare il Sindaco Romoli, che non vuole “stranieri” sul suo territorio) come “soluzione” lampo. Da oggi saranno quindi “solo” 120 i richiedenti asilo fuori accoglienza: un centinaio è già stato inviato al CARA per sfruttare il vuoto lasciato da coloro in viaggio verso Milano. Gli arrivi però continueranno e non si vedono reali risposte all’orizzonte.
Sullo sfondo resta un’amministrazione comunale che ha fatto del no ai migranti la sua bandiera, rifiutando qualsiasi forma di dialogo istituzionale che non sia finalizzata a rimuovere quelle fastidiose presenze dal suo territorio e una Prefettura che, nonostante il recente cambio di dirigenza, sembra incapace di avviare un modello di accoglienza che non sia basato su provvedimenti emergenziali che mirano solo a “tamponare” le situazioni critiche. 

Udine

Dall’agosto del 2014 non è passato un giorno senza che a Udine i richiedenti asilo non fossero costretti a vivere all’addiaccio. Per più di un anno i media e le istituzioni si sono prodigati nel tentativo di trovare i colpevoli di questa situazione, additando ora le associazioni di volontariato ora il passaparola tra i richiedenti asilo. A loro dire le condizioni dell’accoglienza erano tanto favorevoli da spingere delle persone a percorrere migliaia di chilometri, a sopportare le durissime condizioni del viaggio ed a lasciare i loro cari. Nessuna critica è giunta sul fatto che questa falla del sistema di accoglienza era prevedibile vista la scarsa, se non inesistente, pianificazione sul lungo periodo. Molto spesso si è invece utilizzata la parola “emergenza“: vogliamo davvero sostenere che 10 persone in arrivo al giorno sono un’emergenza? 
La vera emergenza riguarda l’assenza di progetti di vita delle persone che accogliamo, perché dopo la lunga attesa di una sistemazione si trovano spesso parcheggiate in una tendopoli che non offre loro alcuna possibilità di crescita e di integrazione. Relegati alle porte della città, i richiedenti asilo sono costretti ad una vita sospesa, scandita dai pasti e da quel poco che viene offerto al di fuori della caserma.
La sensazione che si ha è quasi di stupore di fronte all’incremento dei flussi, come se si trattasse di un fenomeno estemporaneo che prima o poi si stancherà di questa regione, alimentando in tal modo un non sistema che si fa sistema. In questo caotica situazione l’arbitrarietà regna sovrana: non importa quando arrivi o quando riesci a chiedere asilo (perché non diamo per scontato che questo passaggio avvenga fluidamente), ciò che è fondamentale è che tu sia nel momento giusto al posto giusto. Quando le persone fuori accoglienza diventano tante, visibili e quindi questione di ordine pubblico, vengono forzatamente caricate verso una destinazione ignota: se sei fortunato vieni destinato ad un centro “buono“, se sei sfortunato finisci in qualche in un maxi centro di accoglienza o peggio, come coloro che da Udine sono stati trasferiti a Paestum, dove gli “operatori” ritenevano consono minacciare i richiedenti asilo con la pistola
Nell’ultimo anno, in un gioco al ribasso tra Questura e Prefettura, il problema ora riguardava l’appuntamento per la formalizzazione della domanda d’asilo, ora la dichiarazione di indigenza (metodo originale di Udine per lasciare le persone in strada), ora la mancanza di posti per gli inserimenti.
Tutto questo accadeva anche quando le temperature sfioravano i -7 e l’unica soluzione che è stata trovata ha riguardato l’apertura straordinaria di una palestra in città, per altro grazie alle pressioni delle associazioni di volontariato sul Comune. 
La politica, che sia nazionale o locale, non racconta la realtà che vivono coloro che sono a stretto contatto con i richiedenti asilo. In queste sedi si stilano delle linee guida vuote di pragmaticità, in ritardo rispetto al contesto in cui versano i richiedenti asilo nelle nostre città. 
Udine in questi giorni è interessata da un fenomeno nuovo: le persone in transito. Fino a due mesi fa, quando la rotta balcanica non prevedeva dei percorsi obbligati, le persone che giungevano a Udine chiedevano asilo direttamente alla Polizia di frontiera di Tarvisio, oggi invece arrivano direttamente dall’Austria. Ci sono circa 15 nuove persone che presentano la domanda in città ed altrettante che partono verso altre mete italiane.
Sta di fatto che ad oggi circa 150 persone vivono tra il sottopassaggio ferroviario, i parchi e la tettoia di fronte al cimitero. Per ora ringraziamo questo mite novembre, ma quando le temperature scenderanno, cosa faremo? Parleremo di emergenza freddo o capiremo che l’accoglienza non è stagionale, ma un diritto che deve essere tutelato anche, e soprattutto, dalle istituzioni?!

Trieste

L’immagine che il comune di Trieste vuole dare di sè è di una città che si pone come modello di accoglienza diffusa in tutta Italia. Di fatto l’ICS ( Consorzio Italiano di Solidarietà), soggetto attuatore, accoglie ad oggi circa 900 persone, divise tra accoglienza SPRAR (un centinaio di soggetti) ed extra-SPRAR (più di 800 soggetti). Il lavoro svolto da quest’associazione si sviluppa prevalentemente tramite l’accoglienza diffusa, un modello basato su appartamenti dislocati nel territorio cittadino che supera le logiche dominanti di concentrazione e segregazione in grandi strutture. Grazie a questa modalità d’intervento non si sono registrate in città particolari situazioni di tensione né radicali proteste alimentate da odio ed intolleranza nei confronti dei migranti.
Inoltre negli ultimi giorni è stato presentato il progetto di accoglienza diffusa anche all’interno di nuclei familiari, che a fronte dell’ospitalità offerta dovrebbero percepire una somma di denaro a copertura delle spese di vitto e alloggio.

Dopo la “chiusura tecnica” da parte di Germania ed Austria nei confronti di afghani e pachistani, nel capoluogo regionale continuano a moltiplicarsi gli arrivi, e la città di fronte al continuo flusso migratorio risponde con sempre maggior difficoltà in termini di accoglienza. In realtà, per quanto il modello triestino sia stato ripreso a livello nazionale per la sua positivà, c’è all’interno della città un altro luogo che “accoglie” i nuovi arrivi: il Silos. Questa è una struttura abbandonata da decenni che sorge a fianco della stazione ferroviaria, un luogo invisibile alla cittadinanza dove trovano sistemazione coloro che restano esclusi dal programma di accoglienza e che, ad oggi, risultano essere un centinaio di persone. Questo spazio da due anni ospita migranti, per la maggioranza richiedenti asilo provenienti prevalentemente da Siria, Afghanistan e Pakistan.

Il
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A causa dell’insostenibilità e dell’estremo disagio all’interno del Silos, vi sono stati già due sgomberi nel corso del 2015 e per i migranti sono state garantite situazioni di appoggio con caratteristiche spesso discutibili: un recente esempio riguarda l’allontanamento dal centro cittadino ed uno spostamento verso una zona periferica della città, ottendendo un effetto di ulteriore marginalizzazione ed esclusione dai circuiti sociali quasi forzata, che ha prodotto solo qualche notizia rarefatta sui giornali.
In questi giorni, tramite canali istituzionali, filtrano notizie non chiare né precise riguardanti nuovi trasferimenti per gli attuali abitanti del Silos. Stante la difficoltà di avere notizie più dettagliate e certe in merito non possiamo fare altro che constatare la discrasia tra gli annunci dei soggetti preposti all’accoglienza e ciò che ci viene riferito dagli stessi migranti riguardo i loro tempi di permanenza nel suddetto sito. L’ICS afferma che i tempi medi di attesa dei migranti fuori accoglienza sono di due settimane, ma non c’è nessun dato certo su questo ed anzi gli stessi migranti spesso ci raccontano di essere presenti al Silos da tempi ben più lunghi, perlomeno uno o due mesi.
A fronte dei continui arrivi risulta evidente come l’intero sistema non sia capace di assorbire al suo interno ulteriori arrivi e prova evidente è la stessa esistenza di luoghi come il Silos. Anche se il numero dei soggetti fuori accoglienza è stabile ( si aggira tra le 100 e le 150 persone da circa un anno) il Comune di Trieste non riesce ad integrare nei piani anche gli occupanti del Silos, che continua a riempirsi ogni qual volta viene svuotato. All’orizzonte sembra profilarsi l’ipotesi che i richiedenti asilo vengano trasferiti anche in altre regioni, su richiesta del Comune e della Prefettura che si dichiarano incapaci di predisporre ulteriori strutture d’accoglienza, cosi come già avviene a Gorizia.
E’ inoltre importante sottolineare che la settimana scorsa è stata diffusa a mezzo stampa la notizia di un container proveniente dal porto di Istanbul e arrivato al porto di Trieste in cui erano stipati una ventina di migranti provenienti da Siria e Iraq. I porti dell’Adriatico sono noti per essere luoghi spesso opachi in cui si sono registrati numerosi casi di respingimenti di migranti verso la Grecia, ma il caso della scorsa settimana sembra rappresentare una novità per il porto di Trieste.
Considerando tuttavia la già citata opacità di questi luoghi e l’assenza (per ora) di enti che dall’interno monitorano eventuali arrivi, non vi è la certezza che il container scoperto la scorsa settimana rappresenti un caso isolato e urge pertanto avviare attivita’ independenti di monitoraggio il prima possibile.

Rete regionale “Refugees Welcome to Italy FVG