Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La normativa vigente produce sempre più clandestinità

Il dibattito sulla conversione in legge del decreto legge 241 del 2004, è terminato al Senato e si è trasferito alla Camera dei deputati. Naturalmente vedremo – e non mancheremo di dare notizia – se in tale sede si creeranno maggiori spazi per integrare il disegno di legge di conversione e, in particolare, anche per affrontare aspetti diversi rispetto alle politiche repressive e alla sola espulsione, apportando eventuali ritocchi alla c.d. legge Bossi Fini (l. 30 luglio 2002, n. 189). Penso in particolare alla proposta – che è già stata accantonata al Senato e che forse potrà essere ripresentata alla Camera – relativa alla possibilità di conversione del permesso di soggiorno turistico in normale permesso di soggiorno.

A questo riguardo sappiamo che la normativa ancora vigente non consente, in quasi nessun caso, la conversione del permesso di soggiorno, continuando, quindi, a produrre clandestinità.
Una persona che entra regolarmente (con visto turistico) nel territorio italiano e che poi, facendosi conoscere ed intessendo relazioni, riesce ad ottenere una proposta di lavoro regolare, ad oggi non ha la possibilità di farlo regolarmente perché tutto è rimesso alla cosiddetta politica dei flussi migratori e al sistema delle quote. Si tratta di un sistema che – al di là della quantità rarefatta o per così dire omeopatica delle quote rispetto al fabbisogno reale del mercato del lavoro – instaura una sorta di competizione, ovvero una gara a chi arriva prima, che tutti sanno venire utilizzato da persone già presenti irregolarmente sul territorio italiano.

Su questo tema rispondo ad una domanda di carattere generale – che vuol essere più una provocazione al dibattito – che ci viene da un consulente legale di aziende che, riconoscendo e sottolineando il carattere assurdo e perverso di questo sistema normativo che produce clandestinità, si chiede se ciò non significhi creare le condizioni per una prossima sanatoria.

Non possiamo che essere d’accordo con le osservazioni di questo utente del sito Melting Pot, perché una legislazione che produce clandestinità non fa altro che creare le condizioni per una prossima sanatoria; si precisa però che questo non è un problema solo italiano, bensì di tutta la c.d. fortezza Europa.

Tutti i Paesi europei, infatti, sono ricorsi, in un modo o nell’altro, ad una sistematica politica di sanatorie o regolarizzazioni. Al riguardo esistono anche delle ricerche che ci forniscono dei dati precisi cui riferirsi. In particolare cito una interessante ricerca del prof. Philip De Bruiker – coordinatore del network interuniversitario europeo “Odisseus” (appositamente dedicato all’immigrazione) -, giurista e consulente della Commissione europea, che ha curato una ricerca molto minuziosa sulle regolarizzazioni in Europa nell’ultimo decennio, evidenziando che molti paesi come Portogallo, Spagna, Belgio, Francia, Italia, Grecia hanno utilizzato sistematicamente le regolarizzazioni.
Altri paesi, come la Germania e la Gran Bretagna, invece, ufficialmente negano l’esistenza di sanatorie o regolarizzazioni, ma di fatto, hanno utilizzato altri strumenti per così dire striscianti di regolarizzazione, sia pure sotto forma di protezione umanitaria, protezione temporanea o altro…

I numeri parlano chiaro!
Tutti i paesi dell’Unione europea hanno in sostanza avuto bisogno di cicliche politiche di regolarizzazione, perché la normativa dei singoli paesi membri e la stessa politica dell’Unione in materia di governo dei flussi migratori, attualmente continuano ad essere concepite per produrre la clandestinità e per non consentire l’incontro effettivo tra la domanda e l’offerta di lavoro. Anche volendo limitare la trattazione dell’argomento immigrazione fino a ridurlo ad una sola questione di mercato di lavoro, si deve evidenziare che le esigenze delle imprese non trovano soddisfazione proprio perché si continua a pretendere, con questa forma di ipocrisia politica, che il contatto ovvero l’accordo tra un’impresa e il lavoratore avvenga a distanza e che, quindi, l’ingresso dall’estero avvenga previa richiesta dell’impresa stessa; ciò laddove è evidente che nessuno assume una persona – salvo casi molto particolari – che non ha mai visto o conosciuto e che ancora si trova all’estero.
Rispondiamo quindi alla domanda prospettataci dal consulente di cui sopra, facendo presente che conveniamo sul fatto che questo sistema non può far altro che alimentare e creare le condizioni per una politica repressiva e che dall’altra parte il bisogno delle imprese viene soddisfatto ricorrendo periodicamente alle regolarizzazioni.

Non possiamo che sperare che anche il dibattito parlamentare in corso possa risollevare la questione di una normativa che produce clandestinità e che crea le condizioni per criminalizzare molte persone, anche in termini di real politic – quindi di puro buon senso -, perché è chiaro che le politiche repressive, per quanto ben congegnate e ben finanziate, non possono nemmeno avere la vaga speranza di sortire un effetto pratico e tangibile, se poi il fenomeno da affrontare in termini repressivi è così massiccio per cui non ci saranno mai sufficienti mezzi per fronteggiarlo.
Alla fine ci troviamo di fronte ad una sorta di lotteria, ove i più sfortunati vengono periodicamente estratti per essere espulsi, se ci sono gli aerei disponibili, i posti nei CPT e se provengono dai paesi con i quali ci sono rapporti di cooperazione per attuare i provvedimenti di espulsione.
In poche parole si tratta di un sistema di perdurante iniquità che è sotto gli occhi di tutti e che perfino i datori di lavoro e i loro consulenti, giustamente, denunciano.
Non possiamo di certo nutrire grandissime speranze sulle prospettive di questo dibattito parlamentare che si presenta, come già abbiamo potuto vedere al Senato, abbastanza blindato, ma naturalmente sta anche a chi si occupa di questi problemi far sentire la sua voce e tentare fino all’ultimo di creare gli spazi per una discussione effettiva e per costringere i politici a spostarsi da una politica di immagine ad una politica di governo concreto dei fenomeni migratori.