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“La notte non riuscivo a dormire. Li ho rispediti a casa verso la morte?” – Un ex funzionario dell’Ufficio immigrazione inglese ci rivela tutto

BBC, gennaio 2017

Illustrazione: Mihoko Takata

Ho lavorato per l’UK Border Agency (l’Agenzia governativa inglese che si occupa di gestire il traffico di persone lungo i confini amministrativi della Gran Bretagna, ndt) per dieci anni, tre dei quali li ho trascorsi analizzando i moduli per le richieste di asilo.

Il mio compito consisteva nello studiare i casi delle persone che arrivavano in Gran Bretagna per sfuggire alla morte, e stabilire se stessero dicendo la verità o meno.

Ci sono moltissime ragioni per le quali le persone mentono pur di ottenere l’asilo.
Magari per cercare di costruirsi una vita migliore, o semplicemente per ricongiungersi alla loro famiglia. Molti pensano che non gli verrà mai accordato il permesso di soggiorno, oppure non possono permettersi di pagarne uno, così cercano di convincerci che hanno bisogno di essere protetti da persecuzioni di ogni genere.

Il mio compito consisteva nel distinguere questi ultimi da quelli le cui vite dipendevano dal fatto che io gli credessi.

Ho sentito storie che non riuscirò mai a dimenticare.

C’era una signora che era stata catturata durante la seconda guerra russo-cecena (1999-2009). È stata tenuta prigioniera ed è stata suprata ripetutamente per 18 mesi. Mi ha raccontato di aver abortito diverse volte, aiutata dalle sue compagne di cella. Quando le ho chiesto come si potesse abortire in una cella, mi ha detto “Prendi una molla dal materasso e la usi.”
Illustrazione: Mihoko Takata

Solitamente i colloqui si svolgono così: fai sedere la persona in una stanza e fondamentalmente le dici “Mi racconti la cosa peggiore che le sia mai capitata, in ogni particolare, e io cercherò di dimostrare che mi sta mentendo”.

Questa signora è dovuta rimanere seduta per quattro ore in quella stanza mentre due uomini, l’interprete e io, le facevano le domande più intime e spaventose, cercando di smentire la sua storia.

Quando abbiamo finito, mi sentivo totalmente a pezzi.

Comunque, ci sono storie che ti rimangono impresse per altre ragioni.

Secondo la Convenzione Europea per i Diritti Umani è vietato rimpatriare un individuo che corra il rischio di venire condannato a morte nel proprio Paese. Quindi, quando un riconosciuto terrorista è giunto qui dall’India, non gli abbiamo concesso l’asilo, ma comunque non l’abbiamo potuto mandare indietro.

Ora fa il tassista, vive da qualche parte in Inghilterra.

Ho passato tre anni giudicando casi come questi, intervistavo cinque o sei persone a settimana. Ci sono persone che ora vivono in Gran Bretagna perché io sono stato qualche ora in una stanza con loro e ho sostenuto il loro caso.

Allo stesso modo, sono certo che ci sono persone che sono state erroneamente rimpatriate per colpa mia, e solo Dio sa cosa gli è capitato. Il peso della responsabilità può essere davvero insostenibile.

Ho sempre cercato di immaginare cosa potesse portarti a sconvolgere la tua vita, a lasciare la tua casa e il tuo Paese, ad abbandonare tutte le persone e tutte le cose che conosci, e a compiere un viaggio lungo mezzo mondo verso un posto sconosciuto. Cosa ti spinge veramente a fare una cosa simile?

Ciononostante, alcuni miei colleghi sembravano convinti che il loro lavoro consistesse nel respingere i candidati alla prima occasione buona. Mi ricordo di una collega che si lamentava del fatto che il suo paesino fosse “Pieno di pakis (termine dispregiativo con cui si indicano i pakistani, ndt)”. Le ho chiesto se pensasse che quello fosse il lavoro giusto per lei e mi ha risposto “Sì, perché ora ho l’occasione di non farne arrivare altri.” Trovo tutto questo estremamente inquietante.
Illustrazione: Mihoko Takata
In certi casi, mi è stato detto di respingere una persona perché non aveva i requisiti adatti. Tornavo a casa e pensavo “Ho appena avviato l’iter che rispedirà qualcuno indietro a morire?

Quelle notti non riuscivo a dormire.

Alla fine ho abbandonato i colloqui per l’asilo e ho iniziato a lavorare su quelli che chiamiamo “gli arretrati”: persone che hanno fatto domanda per un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, i cui casi sono andati in sordina.

Alcuni candidati hanno aspettato una risposta per nove o dieci anni. Molti hanno già lasciato il Paese, o sono morti.

Di conseguenza, ricevevamo molta pressione per smistare i casi il più velocemente possibile, e mi sono accorto che la mia capacità di giudizio era compromessa.

Quando le informazioni che hai a disposizione non sono corrette, dovresti scrivere ai candidati per risolvere il problema. Ma nel momento in cui una domanda ha dieci anni, le possibilità che quelle persone vivano nello stesso luogo indicato nei documenti sono poche. Quindi gli avrei scritto, non mi avrebbero risposto, e siccome non saremmo riusciti a ottenere le informazioni necessarie, le loro domande sarebbero state respinte.

Teoricamente avrebbero ancora avuto il diritto di contestare il respingimento. Ma spesso non facevano in tempo ed erano costretti a tornare nel loro Paese prima di iniziare le procedure necessarie.
Ho lasciato l’UKBA nel 2011, quando la tassa per richiedere il permesso di soggiorno a tempo indeterminato era di 950£. Oggi, si paga più di 1875£ (.pdf).

Poco tempo fa ho parlato con una persona scappata dallo Zimbabwe e che sta aspettando una risposta alla sua richiesta di permesso a tempo indeterminato. Mentre la sua richiesta è sotto esame, non può lavorare o richiedere benefit. Fintanto che esaminano il suo caso, il suo passaporto è in mano al Governo e su di esso sarà impresso il timbro “nessun accesso ai fondi pubblici”, quindi sta vivendo grazie alle carte di credito e all’aiuto degli amici.

La sua storia non è insolita.
Illustrazione: Mihoko Takata

Siccome mentre la tua richiesta è sotto esame sei senza passaporto, ovviamente non puoi viaggiare. Solitamente questa misura viene decisa caso per caso. Ho incontrato una donna la cui madre era gravemente malata, ma non poteva tornare a casa per andare a trovarla, perché i suoi documenti erano in mano all’Ufficio affari interni.

Ho fatto questo lavoro per dieci anni. Sono innumerevoli le volte che mi sono seduto in una stanza e ho sentito qualcuno che mi raccontava le cose più tremende, o che mi mentiva spudoratamente. Arrivi a un punto in cui pensi “Ok, non ne posso più”.

Adesso lavoro per un’organizzazione benefica, in cui aiuto le persone a far fronte ai propri debiti. Non mi sono mai guardato indietro.

– James, impiegato del UK Border Agency (2001-2011)

Un portavoce dell’Ufficio affari interni ha dichiarato:
L’UKBA e stata sciolta e ricostituita nel 2013 per migliorarne l’efficienza e in questo momento abbiamo largamente soddisfatto gli standard di servizio. L’impegno e la correttezza dei nostri funzionari nel momento in cui analizzano le richieste di asilo è stato sottolineato dall’Ispettore Capo dei Confini e dell’Immigrazione.”

Questa storia è stata raccolta da Catriona White