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La questione della complicità dell’Italia nei respingimenti libici

Paolo Biondi, News Deeply - 24 novembre 2017

Photo credit: Mahmud Turkia/AFP/Getty Images

Quando un carico di migranti salpa dalla Libia verso l’Italia, spesso i trafficanti dicono loro di arrivare in acque internazionali prima di lanciare l’allarme. I migranti sperano, dunque, di essere recuperati dalle imbarcazioni di soccorso gestite dalle ONG umanitarie e portati in Italia, dove possono fare domanda d’asilo politico. L’alternativa è essere intercettati dalla guardia costiera Libica e riportati in Libia.

Diverse convenzioni internazionali vietano ai governi di applicare il refoulement – il respingimento forzato di persone verso luoghi in cui la loro vita o libertà sarebbero minacciate o dove potrebbero essere esposte al rischio di tortura.

Se un’imbarcazione viene recuperata dalla guardia costiera libica, che coopera con la Marina militare Italiana, i migranti sarebbero quasi sicuramente riportati in Libia, dove l’evidenza suggerisce che molti affronterebbero la prigione in condizioni deplorevoli e possibili torture. La Libia non ha alcuna legge o procedura in materia di protezione internazionale e non fa distinzione tra rifugiati, richiedenti asilo o altri migranti.

Se da un lato l’Italia non può esplicitamente mostrarsi favorevole a ricacciare i migranti verso le coste della Libia, in realtà ha periodicamente collaborato con le autorità locali aiutando il rafforzamento della guardia costiera libica, anche rifornendola di imbarcazioni, equipaggiamento, addestramento e supporto tecnico. Durante questa estate, i due paesi hanno congiuntamente creato un’area di ricerca e soccorso in acque internazionali, nell’area tra Italia e Libia, dove le ONG predisposte a tale compito hanno avuto difficoltà ad operare, se non firmando un codice di condotta.

I gruppi per i diritti umani hanno fortemente criticato la decisione, evidenziando le conseguenze di questa scelta: limitare, infatti, l’accesso dei migranti all’assistenza umanitaria metterà in serio pericolo le loro vite. Alcune ONG hanno continuato ad operare nell’area nonostante il timore di poter essere ostracizzate dall’Italia o minacciate dalla guardia costiera libica.

Bisogna tenere in considerazione il fatto che il supporto navale dell’Italia alla guardia costiera libica potrebbe comportare una violazione degli obblighi di non-refoulement.

Nel 2012 si è verificato un importante precedente giudiziario, quando una nave italiana aveva intercettato migranti Somali ed Eritrei in viaggio dalla Libia, respingendoli. L’Italia è stata accusata di aver violato l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). Il caso rappresenta una pietra miliare poiché ha stabilito l’applicabilità della CEDU in alto mare, lontano dall’immediata giurisdizione del territorio nazionale. Ha infatti evidenziato come i governi non abbiano il diritto di respingere le persone verso un paese nel quale potrebbero essere sottoposte a trattamenti inumani e degradanti.

A cinque anni di distanza la situazione è ben diversa: l’Italia non ha più alcun contatto diretto con i migranti respinti in Libia. Il coordinamento italiano delle forze libiche confonde la questione della responsabilità legale dell’Italia e ci impedisce di trovare un precedente chiaro. Ma c’è un numero sempre crescente di esperti legali che concordano sul conferire all’Italia una certa dose di responsabilità internazionale per le azioni di intercettazione e rimpatrio eseguite dai libici.

Un altro recente giudizio espresso dalla CEDU potrebbe essere pertinente. Si tratta del caso che ha visto protagonisti N.D. e N.T. – rispettivamente del Mali e della Costa d’Avorio – sorpresi mentre cercavano di entrare illegalmente in territorio Spagnolo arrampicandosi sulle barriere che circondano l’enclave di Melilla, sulla costa nordafricana. La Corte ha fatto notare che i due sono stati respinti e rimandati in Marocco contro la loro volontà e in assenza di una preventiva decisione amministrativa o giudiziaria. La Corte ha sottolineato che impedire ai migranti l’attraversamento dei confini nazionali, così come condurli in un altro paese, ha costituito un esercizio di giurisdizione.

Dunque, tutti gli atti che costituiscono un esercizio di giurisdizione richiedono l’applicazione obbligatoria dei diritti umani e dei rifugiati internazionalmente riconosciuti. Ciò nonostante, mentre l’esercizio dell’autorità e il controllo sembrano richiedere un contatto diretto, alcune recenti attività “senza contatto” dell’Italia possono de facto rappresentare forme di controllo, esercizio di autorità o custodia, che possono costituire un esercizio di giurisdizione ai sensi della CEDU.

Ciò potrebbe significare che, laddove i migranti fossero prelevati in acque internazionali e pur non avendo un contatto diretto con gli Italiani, l’Italia potrebbe essere obbligata a smettere di supportare le autorità libiche nel riportare i migranti in Libia.

L’Italia ha fornito alla Libia navi, supporto tecnico e addestramento; così facendo, ha contribuito alle azioni illecite della Libia. Prima che ciò avvenisse, la guardia costiera libica non era né interessata, né capace di riportare indietro grandi quantità di imbarcazioni. La responsabilità [italiana, n.d.t.] potrebbe emergere dalle prevedibili conseguenze negative causate dalla fornitura di supporto tecnico ed equipaggiamenti, anche al di fuori della diretta giurisdizione dell’Italia.

Ne è un esempio quanto accaduto in data 10 maggio 2017, quando il Maritime Rescue Coordination Centre (MRCC) di Roma informò la guardia costiera libica sulla posizione di un’imbarcazione da intercettare in acque internazionali, ordinandole di assumere il comando diretto dell’operazione.

In quell’occasione, la barca fu intercettata e riportata in Libia, piuttosto che essere assistita dall’organizzazione tedesca Sea-Watch, anch’essa presente in loco.

Sebbene le modalità impiegate furono diverse da quelle del classico “respingimento”, il MRCC stabilì dove i migranti intercettati dovessero essere trasportati. Se si fosse saputo che qualcuna, tra le 500 persone riportate in Libia quel giorno, fosse stata vittima di maltrattamento o refoulement forzato nel paese d’origine, la responsabilità dell’Italia sarebbe stata chiamata in causa.

Un incidente simile è recentemente avvenuto in acque internazionali il 31 ottobre 2017. Circa 300 persone sono state riportate in Libia a conclusione di un esercizio di coordinamento tra la nave militare italiana “A. Doria” e la guardia costiera libica, malgrado la prima fosse stata molto vicina ai migranti e avrebbe potuto caricarli a bordo. Anche in questo caso la stessa nave da guerra italiana ha fornito la posizione dell’imbarcazione ai libici, evitando qualsiasi contatto, ma esponendo un grande striscione che suggeriva ai migranti di “tenersi a distanza”.

Mentre queste attività sono, appunto, portate avanti senza un contatto diretto, l’Italia contribuisce nell’intercettare e riportare i migranti verso le coste libiche in condizioni inaccettabili, anche se ‘utilizzando’ le mani di un altro Stato.

Ciò non coincide alla lettera con la definizione classica di refoulement, ma il risultato è comunque chiaro e prevedibile. Queste azioni facilitano il refoulement illecito, qualcosa che l’Italia si trova obbligata ad evitare. Il principio di non-refoulement della Convenzione sui Rifugiati del 1951 non riguarda una negazione, ma si occupa di garantire che tali respingimenti non avvengano “in alcun modo”, in quanto il refoulement è un atto definito dalle conseguenze.