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La storia del mostro di Gradisca e di chi lo ha combattuto

di Genni Fabrizio, Tenda per la Pace e i Diritti

Il CIE di Gradisca è chiuso. Ed ora i movimenti e le istituzioni locali chiedono che non riapra mai più.

Nel territorio isontino sembra quasi che il nastro della storia si sia riavvolto riportandoci alla cronaca che, prima del 2006, quando fu aperto l’allora Cpt di Gradisca, era densa di battaglie perché quella struttura non entrasse in funzione.
Di diverso oggi ci sono però sette anni di esperienza diretta di detenzione amministrativa ed una serie di rivolte ed incendi che lo hanno reso inagibile.
Se allora i movimenti osteggiavano il CIE guardando a quanto già si sapeva della realtà degli altri centri esistenti in altre regioni, oggi invece non si possono cancellare le contraddizioni ed i drammi che hanno investito il territorio isontino.

La costruzione del CIE iniziò di nascosto nel 2003. Poi l’allora ministro Pisanu ne garantì l’interruzione per dar vita ad confronto con gli enti locali coinvolti. In realtà i lavori non si fermarono mai. A svelarlo fu un’azione di disobbedienza civile che ne rallentò il corso. Per tentare di frenare il crescente movimento di opposizione si crearono accuse grottesche, come quella di “divulgazione di segreto di Stato” mossa contro numerosi attivisti dopo la diffusione delle planimetrie del Cpt. Il processo, che coinvolse anche il Sindaco di Gradisca, si risolse con il proscioglimento degli imputati.
Di secretato infatti non c’era nulla, piuttosto c’era la volontà di tenere all’oscuro, di dividere, di tagliare il territorio in due: fuori e dentro il muro.

Per sette lunghi anni sapere cosa accadeva nel CIE è stato possibile solo grazie alle telefonate clandestine con i migranti privati del diritto di comunicare, ai contatti con gli ex-operatori, alle poche visite concesse ad esponenti politici ed ai giornalisti, alle corse notturne per arrivare davanti a al muro di via Udine o all’ospedale di Gorizia. Sette anni avvolti in una spirale di violenza generata dall’essenza stessa di quella struttura.

Nel 2007, quando per la prima volta le presenze all’interno del Cpt raggiunsero le 200 persone, iniziò la stagione delle rivolte. Ad essere detenuti erano gli egiziani dell’allora “democraticissimo” Mubarak, quasi tutti richiedenti asilo approdati a Lampedusa, finiti nel CIE perchè la geopolitica di allora non permetteva di riconoscere l’esistenza delle dittature nord africane. I loro tentativi di fuga sono stati fermati a suon di manganellate e lacrimogeni. Quegli stessi gas che, nel settembre dello stesso anno, hanno riempito i polmoni di Betania, bambina eritrea di 9 mesi, ospite con la madre nello spazio che poi fu adibito a Centro per richiedenti asilo, in un’improponibile ed ingiustificabile commistione con il CIE. E’ lì che, nel 2008, fu impedito ad una donna ghanese di rientrare nella struttura perché arrivata dopo le 20.00. All’ora del cambio turno un operatore del centro, dopo averla sentita piangere, l’aveva portata a Gorizia dove era stata accolta, a spese di Caritas, in un albergo. Durante la notte la donna perse il figlio. A causare l’aborto furono lo stress e lo schoc subiti.

Dal 2010 il trattamento riservato agli egiziani toccò anche ai tunisini che iniziavano a fuggire dalla dittatura di Ben Ali. Ancora detenzione ed ancora rivolte fino a quelle del 2011 quando, dopo le cosiddette “primavere arabe”, gli incendi resero inagibile gran parte del centro portando la sua capienza da 248 a 68 posti.
In questi sette anni quelle mura hanno celato le vicende umane di ciascun recluso, in un percorso di spersonalizzazione che ha visto mutare anche l’architettura del CIE. Un un gioco di sottrazione degli spazi, di controllo della psiche, anche attraverso la somministrazione di psicofarmaci, di violenze e brutalità. E’ stato per fuggire a tutto questo che si sono vissuti i drammi più grandi. Quel muro di via Udine ha ferito chi ha cercato di oltrepassarlo. Alcuni porteranno a vita i segni di quella battaglia per la libertà, come Majid, la cui vita è ancora sospesa: coma irreversibile.

La chiusura del mostro di Gradisca, invocata da molti, e praticata dai reclusi ci offre oggi una nuova possibilità. “Hanno fatto quello che avremmo dovuto fare noi” ha affermato recentemente un consigliere regionale. Pare che l’Italia ci abbia proprio preso gusto a delegare ai migranti i “lavori sporchi”. Al CIE di Gradisca, oggi, di immigrati non ce ne sono più e se davvero vogliamo che non riapra, non è tempo di demandare a qualcun altro questa sfida.

Nella giornata di mobilitazione contro le grandi opere, inizierà questa nuova battaglia, con un corteo che partirà dal centro di Gradisca alle 14.30 per raggiungere il muro di via Udine. Lo dobbiamo a chi è in carcere per aver reso possibile la chiusura del mostro.