Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 24 marzo 2007

Le rivoluzionarie del caffè Babele

Storie. Tra le «badanti» immigrate di Reggio Emilia

Un esperimento inedito nella ricca provincia emiliana: un centro sociale aperto che facilita la vita delle donne immigrate. Fra lotte, mercati e stazione di posta
Cinzia Gubbini
inviata a Reggio Emilia

Tavolini all’aperto, tè e caffè gratuiti, il pranzo messo insieme portando ognuno qualcosa. Vanno alla grande le insalate di verza e i salami arrivati dall’Ucraina: una domenica qualunque al centro sociale Aq16 di Reggio Emilia.
Sui muri graffiti e striscioni. In giardino l’età è sui cinquant’anni: seduti ai tavoli, donne e uomini, prevalentemente dell’est Europa e del Maghreb. Chi beve alcolici pasteggia con qualche bicchiere di vodka, si intonano canzoni russe. Oggi, si festeggia pure un compleanno.
E’ il «caffè Babele», un progetto nato a Reggio Emilia tre anni fa. E già un piccolo caso. Perché con la semplice idea di aprire le porte del centro sociale nel giorno libero dei lavoratori stranieri, l’«okkupazione» emiliana è diventata uno dei punti di riferimento per il vasto e variegato mondo degli immigrati che vivono nella provincia. Da qui nascono a getto continuo iniziative e proposte politiche, ma anche progetti culturali. «Qui sono tutte un po’ su con l’età perché le ragazze giovani magari hanno un fidanzato che le porta a spasso nel giorno libero – spiega Aleksya – invece le donne più mature un po’ non hanno voglia, un po’ non hanno partner. Allora vengono a passare tre o quattro ore qui. E per fortuna che esiste questo posto: prima non c’era niente e d’inverno per incontrarci dovevamo andare nei bar. Dove però non puoi mica occupare il tavolo per quattro ore».
Aleksya è ucraina e fa la badante in un paese vicino a Reggio. E’ giovane, 35 anni. Ma passa tutte le sue domeniche pomeriggio qui. Apre e chiude, mette in ordine, ultimamente si è inventata il progetto della biblioteca: ognuno porta un libro e ne prende uno in prestito. «In Italia è difficile trovare romanzi in russo, allora ce li scambiamo».

Mercato autorganizzato
Il luogo ha un po’ aiutato a ispirare il progetto. Proprio fuori dal centro sociale c’è un parcheggio dove da anni si svolge un mercato autorganizzato. Nel parcheggio si piazzano decine di furgoni bianchi. I proprietari sono soprattutto famiglie dell’est – ucraine e moldave – ma anche marocchini che espongono tappeti e trapunte. Dall’ex Urss, invece, arriva di tutto: cetrioli sottaceto (ogurzy) che, spiegano gli acquirenti, «non sono uguali a quelli dei supermercati italiani»: sono grandi il doppio. Poi c’è il chornij khleb, pane nero. Pesce secco o affumicato. Vodka in pregiate confezioni. E ancora, libri in russo e giornali tra cui è ricercatissima la Komsomolskaja Pravda, il più diffuso quotidiano già ai tempi dell’Urss.
Ma il mercato è soprattutto il punto di concentramento degli scambi tra gli emigranti e i paesi d’origine. Quasi tutti i pulmini espongono striscioni in cui vengono indicate le fermate che verranno effettuate nel viaggio verso est: alcuni sono molto elaborati, con tanto vedute di cittadine turistiche moldave o ucraine. I pulmini infatti oltre a vendere merce sono soprattutto corriere: gli stranieri che vivono in Italia arrivano nel parcheggio carichi di pacchi, borse, scatoloni. Su ognuno si mette un numero: corrisponde alla famiglia che all’arrivo ritirerà il pacco. Si spediscono regali, ma anche i generi alimentari che fanno famosa l’Emilia nel mondo: parmigiano, vino, salumi. Il costo per l’invio di un pacco è 1,50 euro al chilo, più o meno. Se si invia denaro, si pagano tre euro ogni 100.
Sotto furgoni come questi è anche accaduto che qualcuno si sia infilato per entrare in Italia. Ma ora il problema è uscire: perché quando sei «clandestino» rischi sempre che ti venga chiesto il documento. E a quel punto è una tragedia: il timbro di espulsione significa non poter più entrare nei paesi Schengen per dieci anni. Cosa dovrebbero fare, allora, le centinaia di ricercate e coccolate (a parole) «badanti» che proprio in questi giorni stanno aspettando la «chiamata» per i flussi? E’ una mitica lettera, inviata dalla Prefettura, con cui si comunica al datore di lavoro e al suo lavoratore extracomunitario che sono tra i fortunati e che rientrano nei posti messi in palio quest’anno per un ingresso non clandestino in Italia. Ma siccome la legge prevede che il lavoratore straniero si trovi all’estero, è lì che deve ottenere un visto per entrare in Italia. Peccato che, i lavoratori che hanno partecipato ai flussi vivano e lavorino (al nero) già qui. E ora in tanti sono nel panico perché non sanno come rientrare.

Fra un tè e un caffè
E’ l’argomento principe sotto il primo sole al caffè Babele. Tra un tè e un caffè ci sono volantini e brochure che spiegano le leggi italiane, ci sono i ragazzi del centro sociale formati dal progetto Meltingpot (www.meltingpot.org) che organizzano uno sportello legale. Ma non solo. Quando ti trovi di fronte problemi che possono sembrare assurdi, se non cerchi di organizzare un’azione di protesta la gente torna a chiudersi in casa. Con la questione del «rientro illegale», ad esempio, hanno fatto proprio così: «Ci siamo trovati un pomeriggio qui – racconta Federica Zambelli, una delle pioniere di Caffè Babele – con tutte le donne che ne parlavano preoccupate e ci chiedevano cosa dovevano fare. Discutendo insieme è uscita la proposta: scriviamo una lettera al Comune! E così abbiamo fatto». Il sindaco li ha anche ricevuti. Loro hanno spiegato il problema, lui ha detto che effettivamente avevano ragione e che avrebbe riflettuto sulla possibilità di firmare un appello al governo. La risposta non è mai arrivata: ma intanto, al Caffè Babele, tutti sanno che è un’ingiustizia e hanno provato a risolverla.
Con la prossima battaglia potrebbe andare meglio. Questa volta i protagonisti sono perlopiù uomini. Anche loro quasi tutti dell’est Europa. Sono gli invisibili: quelli dei cantieri edili. Quelli che subiscono il maggior numero di infortuni, e sembra che si facciano male sempre il primo giorno di lavoro. Perché è solo se ti fai male che il padrone ti registra. Tutte queste cose le racconta, sempre seduto a un tavolino di caffè Babele, Dmitrij – moldavo, clandestino, di mestiere muratore. Indossa la maglietta «no cpt» preparata per la manifestazione del 3 marzo a Bologna. Qualcuno gli ha consigliato di non metterla così spesso, potrebbe far innervosire chi lo incontra. Ma lui, che alla manifestazione ha partecipato, ha risposto: «Io mi vesto come mi pare». A parte questo, Dmitrij è il capofila del tentativo di metter su un’azione legale un po’ particolare: «Qui succede questo – racconta. Siccome siamo senza permesso di soggiorno e i padroni dei cantieri hanno capito come funziona, ormai ci pagano i primi due, tre mesi. Poi cominciano a fare storie: dicono che stavolta lo stipendio ritarda, di aspettare un attimo. Tu aspetti e lavori. Poi capisci l’antifona: non ti pagano più. Tanto possiamo anche andare a denunciare, ma rischiamo l’espulsione». Possibile? «Come no – dice Dmitrij – è successo proprio l’altro giorno a un mio amico: è andato dalla Guardia di Finanza a denunciare il capocantiere che non lo pagava da mesi.
Quelli gli hanno detto grazie e poi l’hanno accompagnato in questura per l’espulsione». Un bel problema. Se ne è parlato per ore ai tavolini del caffè Babele. Solita domanda: «Che facciamo?». Il problema dovrebbe essere risolto, in parte, dalla legge che modifica l’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione: quella che estenderà il permesso di soggiorno per protezione sociale anche agli «schiavi» del lavoro. Ma dopo tanto parlare, il governo ha deciso di varare un disegno di legge, che quindi dovrà essere approvato dal parlamento. Chissà quando.
Intanto, i lavoratori clandestini vengono espulsi.
Con le lettere, si è capito che non si va tanto lontano.
Quindi stavolta si ragiona su un’azione più complessa: mettere di mezzo un avvocato, organizzare un’azione legale coordinata contro grossi cantieri edili, così da avere un certo risalto sulla stampa che – si spera – metterà al riparo chi decide di esporsi. Proprio domani sono stati invitati i giornalisti al centro sociale, per presentare il neonato «Comitato lavoratori irregolari».

Si accende una lampadina
Ma il caffè Babele non è soltanto un punto d’incontro in cui si parla dei problemi legati ai diritti. Figurarsi, a pranzo si chiacchiera di tutto: la vita, le amicizie, la famiglia lasciata a casa, i figli. E’ proprio nel mezzo di queste pigre conversazioni che a Federica Zambelli – di mestiere attrice teatrale – si è come accesa una lampadina: «Mi sono accorta che sì, conoscevo tutto sulla Bossi-Fini, sui regolamenti, le norme e su che cosa voglia dire essere immigrato in Italia. Ma non sapevo un bel niente dell’immaginario di queste donne, del loro passato, nonostante avessi fatto tante battaglie con loro». Per esempio, ha scoperto Chernobyl.
«Sì, si può dire che l’ho scoperto. Certo, sapevo quello che era accaduto, me lo ricordavo bene, ero una ragazzina quando è successo: mi sembrava di sapere l’essenziale. E invece no. Qui, tutti hanno un parente più o meno vicino che è stato coinvolto in quella tragedia. Malattie con cui si combatte ancora oggi, persone care che morirono all’epoca». Federica, oltre a prendere una cartina e rendersi conto di dove si trovi Chernobyl, visto che non ne aveva idea, ha iniziato ad ascoltare e appuntare le storie delle donne di caffè Babele, a fare domande, a leggere libri. Ne è nato uno spettacolo, «Grido silenzioso», liberamente tratto dal libro «Preghiera per Chernobyl» di Svetlana Aleksievic e, ovviamente, dalle storie delle donne di Caffè Babele.
Lo spettacolo ha fatto il giro dei centri sociali. La «prima», naturalmente, si è svolta all’Aq16. Federica sul palco si trasforma in una perfetta donna ucraina, che arriva in una stazione ferroviaria italiana e ha già il contatto per lavorare come badante. Aspettando il treno – e mangiando ogurzy – ricorda quella notte a Chernobyl, quando suo marito, pompiere, intervenne nell’incendio. E poi i misteri e i segreti, la sua insistenza per curare quel marito gonfio che cambiava colore, nascondendo di essere incinta. «Chi sapeva, come potevamo sapere?», è la frase che ripete Federica. Che abbia colto nel segno lo si capisce dai singhiozzi in sala: veri e propri pianti a dirotto da parte delle donne ucraine che assistono allo spettacolo. Quando si riaccendono le luci, è un’ovazione. E il complimento più bello per l’interprete-autrice: «Sembra proprio che ci sia stata anche tu». Invece Federica è solo un’assidua frequentatrice dei tavoli di legno del caffè Babele.