Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 23 maggio 2004

Lecce – Don Cesare apre le porte del cpt. Per un film-spot

Documentario sul centro sotto inchiesta per violenze agli immigrati prodotto dal suo direttore Lodeserto

di Giovanna Broursier

E’ come se dovesse arrivare una star. Invece è un prete quello che il pubblico aspetta per la proiezione del documentario «Un’incerta grazia», di Claudio Camarca, realizzato in gran parte dentro il centro di permanenza temporanea di Lecce «Regina Pacis» e prodotto dall’omonima Fondazione, che il centro lo gestisce. Il prete è il direttore, don Cesare Lodeserto, che arriva insieme all’arcivescovo, monsignor Ruppi, scortati da guardie del corpo e poliziotti che poi piantonano il cinema tanto che chi decide di andarsene in anticipo deve farlo da un’uscita laterale. Prete, arcivescovo e regista si infilano in sala seguiti da un codazzo di suore, religiosi e pubblico che monsignor Ruppi, introducendo la proiezione, ringrazia. Poi, dopo aver detto che c’è anche il senatore Maritati dei Ds – «non c’è colore politico sul tema dell’immigrazione, non possiamo fare altro che cercare di capire e pregare» – ringrazia «soprattutto la Provvidenza, perché l’immigrazione è una risorsa che prima non conoscevo». Quindi parte la proiezione. Cinquanta minuti girati a partire proprio dal centro, luogo normalmente inaccessibile alle telecamere (per ordine del ministro dell’interno) che però per Camarca si è magicamente aperto. Tanto che ci ha trascorso dentro un anno: «Coordinavo la struttura per le ragazze costrette alla prostituzione e ho deciso di narrare per immagini questo percorso».

Così di fronte alla telecamera si alternano i migranti e i luoghi nei quali sono costretti a vivere e soprattutto don Cesare, filo conduttore del documentario, che non lesina riflessioni su di sé e il suo lavoro: «Tutto è cominciato nel 1997, con i grandi sbarchi degli albanesi. Allora mi venne chiesto di creare una struttura di accoglienza, una “cattedrale della carità”. Gli sbarchi sono stati una scuola di vita e l’Italia deve dire grazie all’immigrazione». Forse anche perché lui, appoggiato dalla diocesi, da allora di strutture ne ha organizzate tante, non solo in Italia ma anche in Grecia, Ucraina e Moldavia. Ed è qui che si spostano le telecamere, «dove si capisce – continua Lodeserto – che bisogna investire sulla sofferenza e sulla povertà». Quella che costringe i bambini a vivere nel sottosuolo di Kisinau, tra i tubi dell’acqua calda, o le donne a venire in Italia a prostituirsi. Le ragazze ospitate nella struttura per le donne in protezione, contigua al cpt, lo raccontano al regista, che le inquadra in primo piano, senza alcuna tutela della privacy (quella che invece il ministro Pisanu invoca per negare l’accesso ai giornalisti), riuscendo comunque a restituirci il dramma di queste vite. Dopo le umiliazioni subite la nuova vita appare loro un miracolo, come anche allo scafista albanese che oggi lavora per il centro e porta da mangiare agli italiani poveri. Perché, spiega Lodeserto, «clandestini non si nasce. Si diventa. E le donne sono meravigliose, capaci di amare, lavare i panni e essere madri». Così, benvolute dalla chiesa e da Nostro Signore, possono anche innamorarsi e procreare «permettendoci – continua Lodeserto – di gustare la paternità. Non nel senso fisico, ma come atto di coraggio e libertà». Parole che alcuni in sala definiscono «sante», ma che fanno riflettere su questi luoghi, sui bambini che nascono dietro le sbarre. Ma, si intuisce nel breve backstage finale, a parlare sono evidentemente quelli che il direttore ha scelto, forse con l’aiuto della provvidenza, che lo ispira in tutto il suo agire. Del resto, come dice in conclusione, «possono anche esserci delle critiche. Ma l’unica parola che resta è quella di Dio».

Un delirio, ma in sintonia con questa specie di agiografia di Lodeserto, senza spazio per le contraddizioni che invece i cpt esprimono. Tanto che è lo stesso prelato a dire che non dovrebbero esistere. Però continua a gestirli, parlandone come centri di accoglienza. E produce un documentario dove nemmeno si accenna all’inchiesta in corso proprio sul cpt di Lecce: Lodeserto, 10 carabinieri, 6 operatori e 2 medici rinviati a giudizio per pestaggi contro gli immigrati. Almeno ci fosse modo di fare qualche domanda. Invece, terminata la proiezione, buffet e benedizione per tutti.