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Lettera al Prof. Zagrebelsky su asilo e lavoro volontario

Gent.mo prof. Gustavo Zagrebelsky,

Mi pregio di scriverLe per sottoporLe un mio dubbio.
Sono un avvocato del Foro di Perugia. Mi occupo da anni di diritto dell’immigrazione e di asilo: una difficile lotta per l’affermazione dell’art. 10 comma 3 Cost.
Lotta in cui, a volte, è quasi d’obbligo fermarsi un attimo e riflettere. Su tante cose.
E di recente mi sono appunto fermato un attimo.
E mi sono chiesto: l’art. 10 comma 3 Cost., il diritto d’asilo, chiede forse qualcosa in cambio?
Da più parti sento infatti affermare che sia giusto che i richiedenti asilo ringrazino per l’accoglienza ricevuta in Italia con (non ben definite) prestazioni di lavoro volontario gratuito.

A seguito anche di mia diretta cognizione, posso affermare che questo in parte avviene. Ma non si tratta certo di prestazioni imposte. Bensì di iniziative finalizzate all’integrazione, alla conoscenza ed all’incontro tra neo arrivati ed italiani. Iniziative che possono anche avere una componente di umano ringraziamento. Ma che rimane confinato alla sfera dei sentimenti e giammai imposizione per via normativa.

Accade però che, da qualche giorno, queste proposte di “lavoro gratuito” sono state, in certo qual modo, inserite in un testo normativo: decreto legge n. 13 del 17 febbraio 2017 (“Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale“).

L’art. 8 introduce l’art. 22 bis (rubricato “Partecipazione dei richiedenti protezione internazionale ad attività di utilità sociale“) al d.lgs 142/2015.

La nuova norma prevede che i Prefetti promuovano “l’implementazione dell’impiego di richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali“.

È una delle tante novità introdotte dal cd. “decreto Minniti Orlando” (d.l. n. 13/2017) in materia di immigrazione.

Le nuove norme costituiscono un vero vulnus al diritto d’asilo ed alla relativa tutela giurisdizionale. Sulle stesse sono già state avanzate critiche da autorevoli associazioni (ASGI, ANM, MD) nonché dal Primo Presidente della Corte di Cassazione.

Attualmente non è dato sapere se il decreto sarà convertito in legge o se vi saranno modifiche. Né è per questo che Le scrivo.

Quello che personalmente so è che la nuova norma che ho citato (art. 22 bis d.lgs 142/2015) ha aumentato il mio iniziale dubbio. E cioè: l’art. 10 comma 3 Cost. chiede forse qualcosa in cambio?

Come si fa ad affermare che i richiedenti asilo debbano ringraziare per l’accoglienza ricevuta? Come si fa ad applicare il concetto di “gratitudine” ai diritti costituzionali?
Il diritto d’asilo è forse un sinallagma? È forse una sorta di liberalità?

Ho cercato la risposta a tali dubbi riprendendo alcuni dei Suoi saggi. Il primo da me letto fu “Il diritto mite” (era di testo alla cattedra di diritto costituzionale all’Università di Messina: parliamo di più di venti anni fa). Poi via via tutti gli altri: l’ultimo è “Interpretare“.

Ne “La virtù del dubbio“, Lei scrive che tante cause delle migrazioni (guerre, sfruttamento, povertà, trasformazioni climatiche) verso il ricco Occidente sono dovute a comportamenti tenuti da noi stessi ed all’aggressività delle società che abbiamo costruito.

Quindi, negli arrivi di migranti forzati possiamo perfino “riconoscere una giustizia, un contrappasso o una domanda di risarcimento”.

È il ricco Occidente che ha depredato un continente ricco come l’Africa, che ha esportato armi nei teatri di guerra, che ha causato il global warming (da cui i disastri ambientali).

È il ricco Occidente che ha creato gli arrivi di richiedenti asilo. Per poi non accoglierli e pretendere di respingerli o espellerli.

Che altro fate, di grazia? Prima create dei ladri per poi punirli voi stessi?” (Tommaso Moro, Utopia). Creiamo dei profughi per poi respingerli.

Come si fa, quindi, a parlare di richiesta di ringraziamento tramite “attività di utilità sociale in favore delle collettività locali” (così recita il d.l. n. 13/2017), quando siamo stati noi la causa della fuga dei richiedenti asilo dai loro Paesi?

Ma, anche prescindendo da tale dato di fatto, come si fa a richiedere un ringraziamento per l’esercizio di un diritto fondamentale? A meno di regredire a contesti in cui si doveva manifestare forme di reverenza verso il sovrano.

La Costituzione non richiede nulla in cambio se non la Costituzione stessa.

Nel saggio “Simboli al potere“, Lei argomenta sul bisogno di una società di nutrirsi di simboli: abbiamo bisogno di gesti, eventi, discorsi simbolici. Sono qualcosa cui aggrapparci.

Desidero raccontarLe uno di questi simboli.

Mi trovavo a tenere degli incontri di informazione legale ai richiedenti asilo in accoglienza a Perugia. Ero stato incaricato da una onlus di fornire informazioni sui diritti e sui doveri in merito al mondo del lavoro, al welfare, alla vita sociale in genere.

Ho pensato di distribuire loro (quasi tutti provenienti da Paesi africani) la Costituzione italiana tradotta in tante lingue. Traduzione e stampa avvenute su iniziativa della Regione Umbria.

Consegnare una copia della Costituzione ad un richiedente asilo è un gesto altamente simbolico. Almeno questa è stata la mia percezione. È come dire ad un ragazzo fuggito da guerre, violenze e persecuzioni: “Stai tranquillo. Sei salvo. Ora ci pensa la nostra Costituzione a proteggerti. A garantire i tuoi diritti“.
E la Costituzione per tutto ciò non chiede niente in cambio, se non la Costituzione stessa.
Così come “l’amore non si vanta” (Corinzi, 1, 13), la Costituzione non richiede ringraziamenti.

C’è un’altro elemento che mi preme esternarLe.

Nel Suo dialogo con il Cardinale Carlo Maria Martini dal titolo “La domanda di giustizia“, Lei parla del “benessere di cui popoli interi godono al costo delle inaccettabili condizioni di vita di altre popolazioni“. E si domanda se tale nostro benessere sia incolpevole. Hanno responsabilità dell’ingiustizia altrui anche coloro che non l’hanno provocata ma se ne giovano comunque?

Io non sono direttamente responsabile per l’inquinamento petrolifero che c’è nel delta del fiume Niger, causa di “rifugiati ambientali” (“ecoprofughi”, secondo altra definizione). Ma utilizzo quotidianamente la benzina per la mia auto, che probabilmente giunge da quegli impianti estrattivi.

Non sono responsabile dell’ingiustizia, ma mi giovo della stessa.
E la consapevolezza di ciò genera in me una sorta di senso di colpa. Un pó come l’uomo che riesce a liberarsi dalle catene nella caverna del mito di Platone.
Per ragioni di assistenza legale, parlo spesso, tramite i mediatori culturali, con i richiedenti asilo. C’è una cosa particolare in loro: lo sguardo. A volte spento, a volte fisso nel vuoto. Ma sempre basso. A volte però il mio sguardo si incrocia con il loro.
Non riesco mai a reggere a lungo tale fissarsi negli occhi. Ritengo sia a causa di quel senso di colpa.

Ed allora continuo a chiedermi come si possa parlare di richiedere ai migranti forzati un ringraziamento. Quasi stessimo a fare loro un regalo.

Anzi, a dirla tutta, il “grazie” non è da chiedersi nemmeno per un dono. Vale il monito di Alessandro Manzoni ne “La Pentecoste“: “Cui fu donato in copia, / Doni con volto amico,/ Con quel tacer pudico, / Che accetto il don ti fa.

Concludo ringraziandoLa per tutto quello che ha dato e darà a questo Paese (quindi anche a me) con la Sua immensa attività.

Cordialmente
Francesco Di Pietro