Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Libri – Senza distinzioni: 4 anni di contrasto alle discriminazioni istituzionali nel Nord Italia

un volume a cura dell'Avv. Alberto Guariso

Ecco una pubblicazione che nessuna persona dotata di un po’ di senso civico vorrebbe dare alle stampe.
Una rassegna ragionata di decisioni giudiziarie in
tema di discriminazione (promosse ASGI e APN
prevalentemente contro la discriminazione dello straniero, con qualche incursione in altri settori) è
infatti prima di tutto un campanello di allarme, un
segnale che la discriminazione c’è, che il
cammino verso l’uguaglianza e il rispetto del “diverso” (sia esso straniero, disabile o quant’altro) è
ancora lunghissimo. Se poi il numero di queste decisioni subisce un’impennata improvvisa nell’arco
di pochi anni, allora c’è da essere ancora piu’ preoccupati, specie se si considera la coincidenza di
questo incremento con il consolidarsi di quella grande operazione politico-mediatica “anti-stranieri”
che ha afflitto l’Italia (e parte dell’Europa) negli ultimi anni: insomma più interventi dei giudici,
uguale più razzismo.
Naturalmente di una rassegna così corposa si può dare anche una lettura diametralmente opposta e
più ottimista: il gran numero di decisioni può cioè
significare che la Giustizia funziona (e in
particolare la tanto vituperata giustizia civile, perché esclusivamente di questa trattiamo in questa
sede), che il discriminato non si arrende, che trova la forza e il sostegno per denunciare e che trova
nelle norme di legge uno strumento di difesa adeguato per porre rimedio alla lesione subita.

Difficile decidere se debba prevalere la lettura ottimista o pessimista : chiunque si voglia
appassionare al tema, ha strumenti per farsi un’idea in proposito.
Un dato sembra sicuro: nel momento in cui il tema dell’uguaglianza tocca il punto più basso di
popolarità e sparisce quasi completamente dal discorso politico, il divieto di discriminazione – che
del principio di uguaglianza è il figlio primogenito – dà prova di una inaspettata vitalità e si afferma
come uno strumento fondamentale di tutela dei gruppi sociali a rischio di esclusione.

Forse, paradossalmente, si afferma prima nei Tribunali che nella coscienza sociale.In questo campo
infatti (e succede raramente) il diritto sembra essere più avanti della opinione comune: se il lettore
troverà qui solo provvedimenti favorevoli al discriminato non è perché la selezione è stata faziosa,
ma perché la percentuale reale di accoglimento dei
ricorsi in questa materia, quantomeno nelle
vicende cui il testo si riferisce, non è lontana dal 99% (con la significativa esclusione, e non è un
caso, delle decisioni riguardanti la discriminazione dei rom, che – almeno a Milano – in alcune
occasioni sono state negative ): una percentuale che non corrisponde a un uguale, massiccio rifiuto
della discriminazione nel comune sentire.

Di questo apparente contrasto tra legge e coscienza
sociale non c’è da meravigliarsi, se pensiamo al groviglio di spinte contraddittorie che si accavallano in questi anni: da un lato il bisogno di
uguaglianza, dall’altro il bisogno di identità, che
è sempre anche una richiesta di riconoscere e
valorizzare le differenze; da un lato le paure di chi si sente assediato nella “fortezza Europa” dalla
pressione delle ondate migratorie, dall’altro le modifiche apportate a Lisbona al patto fondamentale
della nuova Europa che abbandona definitivamente il
taglio economicista per aprirsi
all’affermazione dei diritti fondamentali della persona, sia essa “autoctona” o migrante, anche in
campo sociale (e da qui la definitiva accettazione,
all’interno del Trattato, della CEDU e della Carta
dei diritti fondamentali).
Proprio perchè l’impennata del contenzioso cade in
una fase così contraddittoria, abbiamo ritenuto
importante offrire un contributo affinché le decisioni dei Tribunali vengano conosciute da vicino: in primo luogo dagli operatori del diritto che troppo
spesso sembrano trattare questa materia con
distacco o non conoscerne gli sviluppi, sicchè il volume potrà rappresentare per loro un utile
strumento per aver sempre a portata di mano un’ampia rassegna di precedenti e affrontare così con
maggiore competenza i nuovi casi; in secondo luogo
dagli operatori sociali, militanti o semplici
“cittadini consapevoli” per i quali sarà l’occasione di conoscere più da vicino vicende processuali
talvolta riferite un po’ sommariamente dalla stampa.

Certo la lettura integrale sarà noiosa persino per
l’azzeccagarbugli di professione, immaginiamo per
gli altri. Ma lo è meno se si pensa che dietro ad ogni contenzioso ci sono persone: i discriminati innanzitutto, quelli che si sono visti negare una prestazione assistenziale riconosciuta al vicino di
casa magari più ricco, ma che, in quanto cittadino,
poteva vantare di essere “a casa propria”; quelli
estromessi da un concorso per un posto di lavoro pubblico sul quale magari lavorano con contratto a
termine da 10 anni; quelli, insomma, irrazionalmente sbattuti in un angolo nella loro condizione di
“diversi” che comporta, prima di tutto, l’amarezza
di una incomprensibile esclusione.
E poi il discriminatore, talvolta protagonista e ta
lvolta vittima del grande abbaglio politico-mediatico di cui abbiamo detto, talvolta fautore di
un pregiudizio ideologico, tal’altra
semplicemente adagiato nella convinzione che “cosi
fan tutti” e dunque non si vede perché la
questione debba essere approfondita.

E infine c’è la persona-giudice chiamata a dar fondo alle proprie competenze per i continui e
indispensabili rinvii al diritto internazionale e al diritto comunitario; a maneggiare nozioni molto
flessibili e quindi delicate (quando una differenza
può dirsi “ragionevolmente giustificata” ?) e dunque stretto tra il timore di dover attingere eccessivamente a nozioni e valutazioni sociologiche o
politiche e la certezza che senza attingere a quelle fonti, il problema dell’uguaglianza non potrà mai
trovare una effettiva soluzione.

Lette come l’esito di un incontro tra tre persone in carne ed ossa alla ricerca della regola di un
conflitto, che alla fine tale regola trovano, anche
le sentenze acquistano una dimensione di umanità
e meritano lo sforzo di una lettura.

Non c’è qui lo spazio per enunciare i mille problemi che questi primi anni di contenzioso lasciano
aperti: alcuni molto tecnici, altri più culturali e
politici. Tentiamo quindi solo un bilancio per titoli o
poco più.

Per prima cosa va detto che le pronunce in materia
– a dispetto della loro scarsa notorietà nel circolo
dei giuristi – individuano ormai linee interpretati
ve consolidate tali da prospettare un vero e proprio
sotto-sistema giuridico autonomo, dotato di principi suoi propri. Non è quindi più necessario
attingere a nozioni giuridiche prese a prestito dal
diritto civile (il motivo illecito, l’obbligo di buona
fede o altro) essendo invece sufficiente prendere a
tto che l’ordinamento – con insindacabile
decisione politica – ha scelto che l’esercizio di qualsiasi potere pubblico o privato debba essere
depurato dalla incidenza di alcuni fattori tassativamente indicati (razza, etnia, nazionalità, disabilità
ecc.: ma l’elenco è sempre in divenire, se è vero che anche il recente Dlgs 150/11 lo ha inaspettatamente allungato introducendo il fattore
“provenienza geografica”); ove ciò non avvenga,
il giudice deve adottare ogni utile provvedimento per garantire il ripristino della situazione di fatto
che si sarebbe verificata in assenza di discriminazione. Da ciò ulteriori principi ormai assolutamente
consolidati come l’irrilevanza della “colpa” in senso soggettivo (si ha discriminazione per la sola
esistenza di uno svantaggio correlato a un fattore
vietato, indipendentemente dalla intenzionalità del
discriminatore);l’ammissibilità di pronunce di mero
accertamento (comunque idonee a ripristinare
la dignità del discriminato e vincolare il discrimiatore nei comportamenti futuri); la “titolarità
diffusa” in forza della quale ogni soggetto discriminato è in qualche modo portatore dell’interesse
generale alla rimozione della discriminazione stessa. E così via.
Venendo poi ad una analisi un po’ piu di dettaglio,
balza subito all’occhio che, come si vedrà dalla
lettura, la particolare procedura dell’azione antidiscriminatoria ha funzionato bene, è efficace,
conduce (di solito) a una pronuncia nel giro di qualche settimana; e le pronunce (non sempre)
ottengono esecuzione e dunque rispetto. Alcuni dubbi
procedurali rimasti aperti – dei quali si troverà
traccia nei testi – sono stati ora risolti dall’entrata in vigore (a partire dal 6.10.11) di una nuova
riforma del processo civile che riconduce anche l’azione antidiscriminatoria nell’ambito del
giudizio sommario di cognizione (cfr.il Dlgs 150/11); con il vantaggio di chiarire definitivamente i predetti dubbi procedurali, ma con il timore – visto che il nuovo rito sarà applicato anche a molte
altre materie – di perdere quella “specialità” che
aveva sino ad ora garantito una corsia preferenziale
e quindi tempi rapidi.

Nozioni e procedura hanno dato anche buona prova di
flessibilità e hanno potuto essere applicati sia
ai casi più tradizionali di discriminazione (intesa
come esclusione da un bene o un servizio garantito
a tutti gli altri: si vedano tutti i casi di “bonus
bebe”, “bonus disoccupazione”, “bonus affitto” ecc
.) .

sia a casi più sofisticati e complessi ove il divie
to di discriminazione è servito a garantire il diri
tto
alla identità di gruppo (ad es. il diritto di parla
re la propria lingua: si veda il caso di Trenzano);
o a garantire l’uguaglianza dei punti di partenza (si v
eda il caso della riduzione delle ore di sostegno
scolastico per i disabili); o ancora a garantire l’
accesso ad una condizione di parità conseguente alla
qualifica di lavoratore regolare (come nel caso degli impedimenti frapposti dal Governo alla
emersione del lavoro irregolare); o infine a garantire la neutralità della sfera pubblica, impedendo
che venga invaso dalla presenza prepotente di un unico “pensiero dominante” (è il caso dei simboli
leghisti nella scuola di Adro).
Il recente utilizzo, nella vicenda della Fiat di Pomigliano, dell’azione civile contro la
discriminazione e dei medesimi principi elaborati,
tra l’altro, proprio nelle pronunce bresciane,
dimostra quanto siamo ampie le potenzialità dello strumento di cui qui trattiamo.

Anche l’anomalia più spinosa del nostro ordinamento
(quella di aver separato la discriminazione
“dello straniero” dalla discriminazione “per razza
e origine etnica” prevedendo solo per
quest’ultima la possibilità delle associazioni di a
gire direttamente in giudizio senza la presenza
dell’interessato) si è rivelata un problema superabile posto che quasi tutti i giudici hanno sin qui
dato una lettura coordinata e collegata delle due discipline (gli artt.43-44 del TU Immigr.e il dlgs
215/03) ammettendo l’azione delle associazioni anche per la discriminazione “dello straniero”.

La totalità delle pronunce qui pubblicate riguarda contenziosi con la Pubblica Amministrazione, cioè la cosiddetta “discriminazione istituzionale”.

Il resto, per quanto se ne sa, è poca cosa e questa
sproporzione solleva almeno tre problemi.

In primo luogo segnala la difficoltà di intercettare la discriminazione tra privati (persino quella sul
lavoro, per contrastare la quale tradizionalmente il divieto di discriminazione è sorto) dove la libertà
contrattuale del singolo individuo contende
il campo al principio di uguaglianza, ammantandosi
di una veste di ragionevolezza (perché
impedirmi di “affittare preferibilmente a italiani”
o di “cercare baby sitter inglese”…?).

In secondo luogo segnala che la ventata ideologica
che ha investito in questi anni la sfera pubblica –
proprio quella che più di ogni altra dovrebbe esser
e assoggettata al rispetto della legge e dunque
anche delle norme sul divieto di discriminazione –
è stata davvero di una gravità assoluta ed è
tuttora in atto, anche se la crisi della Lega Nord – che di tale politica è stata notoriamente paladina – e le continue batoste giudiziarie, attenueranno pro
babilmente la spinta verso provvedimenti troppo
irrazionali e ideologici.

Infine segnala il persistente conflitto non tanto tra la politica (una certa politica) e la magistratura, ma paradossalmente tra la politica e il diritto: co
me si legge nelle ordinanze, in non pochi casi i
Giudici hanno ritenuto discriminatorie decisioni che provenivano non dalla giunta comunale, ma dal
consiglio comunale democraticamente eletto, o addirittura sancite con leggi regionali, con ciò
ricordando ancora una volta – e ognuno sa quanto il
tema sia vivo nella politica nazionale – che il
consenso può anche essere
contra legem e non sottrae chi di esso gode all’obbligo di rispe
ttare la
norma, tanto più quando si tratta di norme poste a
tutela di diritti fondamentali della persona, come
nel nostro caso.

Da questo punto di vista il diritto antidiscriminatorio conferma dunque la sua vocazione di “diritto
delle minoranze”, cioè di strumento correttivo del
principio democratico tradizionale, capace di
impedire che il potere della maggioranza porti alla
progressiva emarginazione di gruppi sociali
minoritari.

Una delle domande più delicate che restano aperte è
certamente se il diritto antidiscriminatorio sia
in grado di garantire effettivamente una diversa di
stribuzione dei beni (inclusiva anche dei predetti
gruppi minoritari) o possa soltanto garantire una a
stratta parità di opportunità.Il problema emerge
con forza nei casi di pronunce “estensive”, laddove
ad esempio il Giudice ordina a un Comune di
estendere una provvidenza sociale anche agli strani
eri e questo reagisce eliminandola per tutti o
riducendo l’importo originariamente previsto per gl
i italiani : naturalmente una concezione
formalistica del principio di uguaglianza potrebbe
accontentarsi anche di questo secondo esito (tutti
restano “poveri”, ma almeno poveri e uguali) ma per
una conclusione così formalistica sarebbe stata forse sufficiente l’
egalitè
della Rivoluzione Francese, senza che prima i nostri padri costituenti e poi il diritto comunitario si affaticassero così tanto
sulla costruzione di una nozione di uguaglianza
tendenzialmente inclusiva e sostanziale.

Nella vicenda del bonus bebè bresciano il “grimaldello” per garantire una uguaglianza “al rialzo” e
non “al ribasso” è stato quello di applicare, per l
a prima volta, la norma sul divieto di ritorsione
(dopo che il Giudice ordina l’estensione, il Comune
revoca per tutti, ma il Giudice ordina di
ripristinare per tutti) ma la questione riecheggia
più o meno in tutte le altre pronunce e si intreccia
con l’altra questione (solo apparentemente tecnica)
della natura della posizione del privato.

Si tratta cioè di decidere se allorchè si abbia a che fare con la Pubblica Amministrazione il diritto
alla parità risulti attenuato (“affievolito” secondo la dizione tecnica) a fronte del potere
dell’amministrazione di perseguire il pubblico interesse con le modalità che meglio crede e dunque,
per tornare al caso bresciano, anche revocando completamente una decisione di spesa risultata poi
discriminatoria.

Sotto quest’ultimo punto di vista, il problema che
viene in rilievo è prima di tutto quello della qualificazione del diritto alla non-discriminazione
come mero interesse legittimo (il che sposterebbe
tutto questo contenzioso avanti al giudice amministrativo) o diritto soggettivo.Due delle vicende cui
si riferiscono le ordinanze qui pubblicate (quella del bonus bebe di Brescia e quella dell’Ospedale
San Paolo di Milano) sono giunte sino alla Corte di
Cassazione alla quale le amministrazioni –
profondendo nella battaglia energie e risorse che forse sarebbe stato meglio orientare su qualche
obiettivo di maggiore utilità per i cittadini – hanno voluto sottoporre il problema.

La risposta, specie nella seconda pronuncia (relativa all’Ospedale San Paolo) è molto netta: il diritto
alla non discriminazione è un diritto assoluto; ad
esso la PA si deve attenere e, se non lo fa, il
Giudice dispone di poteri particolari, volti a gara
ntire il ripristino della parità: il che sembra deporre
per la preferibiltà di provvedimenti “estensivi” ch
e garantiscano una uguaglianza “al rialzo”.

Infine, un accenno a parte meritano due temi cui abbiamo scelto di riservare uno spazio, pur consapevoli che il loro esame sarebbe stato del tutto incompleto.
Il primo è quello dell’accesso degli extracomunitari al pubblico impiego.

Il lettore troverà qui soltanto gli esiti dei giudi
zi nei quali le associazioni promotrici sono state
direttamente o indirettamente coinvolte tramite i rispettivi legali, ma la giurisprudenza in materia è
ovviamente molto più vasta. Pur nella impossibilità
di una rassegna completa in questa sede, non
potevamo non segnalare la questione perché si tratta di uno dei casi più clamorosi di inamovibile
irrazionalità normativa: nessuna persona ragionevole potrebbe infatti sostenere che lo status di
cittadino italiano (il cui significato di vincolo a
d un insieme di valori è già molto attenuato)
garantisce che un portinaio del Comune o un infermiere dell’ASL possano svolgere il loro lavoro perseguendo l’interesse pubblico meglio di quanto faccia un non-cittadino che ha superato le
medesime verifiche tecniche e disciplinari; tanto più se poi il non-cittadino opera comunque nelle medesime funzioni (come accade per la gran parte de
l personale para-medico o di assistenza) con contratto a termine o contratto di lavoro somministrato o tramite un appaltatore. Anzi, le più
elementari regole della efficienza economica suggeriscono che, eliminando quelle barriere che
prescindono completamente da una valutazione di capacità ed efficienza – come appunto quella
della cittadinanza – si hanno maggiori possibilità
di pervenire alla scelta migliore: sicchè da questo
punto di vista il principio di non-discriminazione
appare addirittura non come vincolo autoritativo
alla libertà contrattuale, ma come garanzia di efficienza in una società liberale.

Nonostante l’evidenza di tutto ciò, nessuno si vuol far carico della semplicissima soluzione del problema che consisterebbe nell’estendere agli extracomunitari i soli vincoli che oggi esistono per i
comunitari (art.38 Dlgs 165/01) ammettendo cioè anche i primi a tutti i posti di lavoro che non
comportano l’esercizio di pubbliche funzioni: esattamente ciò che la stragrande maggioranza dei
giudici fa mediante una lettura “costituzionalmente
orientata” del quadro normativo esistente.

Per quanto numerose, tali pronunce possono scalfire
solo marginalmente una situazione illogica e
paradossale dove l’infermiere sudamericano accede o
meno a un concorso pubblico a seconda del
suo grado di combattività, del sostegno che ottiene
da parte del sindacato (talvolta timido su queste questioni), della competenza dell’avvocato, della decisione del Giudice: con buona pace di un
diritto alla non discriminazione che dovrebbe essere assoluto, generale e intangibile.

Una specifica segnalazione merita poi il “comparto”
delle vicende friulane che hanno avuto il
merito di porre due questioni ulteriori.

Innanzitutto quella delle categorie di stranieri tutelate dal diritto comunitario (i comunitari
innanzitutto, ma anche i lungo soggiornanti, i titolari di protezione internazionale e ora anche i titolari di carta blu, tutti protetti da apposite d
irettive) e dunque della “forza” che è in grado di esprimere il diritto comunitario nel suo rapporto con i diritti nazionali: il fatto che nel Friuli le discriminazioni siano state introdotte non con atti
amministrativi (come in Lombardia) ma con leggi
regionali, imponeva infatti l’individuazione di una
fonte sovra-legale che consentisse al giudice la
disapplicazione della norma di legge senza necessità di rimessione alla Corte Costituzionale; e tale
fonte non poteva che essere quella comunitaria.

L’esito del confronto, come si vedrà nelle decisioni, è nettamente a favore del diritto comunitario, il
che può costituire, anche per il non specialista, occasione di riflessione sullo stato attuale del
percorso verso un minimo comun denominatore (giuridico, ma non solo) che unisca gli abitanti del
vecchio continente.

La seconda questione posta con forza dall’estremo e
st della penisola è quella delle discriminazioni
indirette: mentre infatti in Lombardia l’esclusione
è avvenuta prevalentemente con metodi più
“rozzi” (quali appunto l’esclusione dei non cittadini) là la strada scelta è stata fin dall’inizio quella
di introdurre requisiti di lungo-residenza, idonei
a pervenire più o meno allo stesso risultato di esclusione degli stranieri, ma senza utilizzo diretto del criterio vietato. E su questo punto il successo, dopo una serie di pronunce favorevoli dei
Giudici di merito riferiti a singole provvidenze
assistenziali, è culminato con la decisione della Corte Costituzionale n. 40 del 2011 che ha bollato
di incostituzionalità la pretesa della Regione di condizionare tutte le prestazioni assistenziali a un
requisito di lungo residenza (3 anni nella Regione)
del tutto incoerente con la funzione propria
dell’intervento assistenziale (assistere i poveri in quanto tali e non quelli che stanno lì da più o
meno tempo).

Una volta intrapresa questa strada, è stato inevitabile porsi il problema della c.d.“discriminazione
alla rovescia” : eliminato cioè per l’extracomunitario il requisito degli anni di residenza in quanto
indirettamente discriminatorio, è stato giocoforza rilevare che detto requisito non poteva restare in
vita neppure per gli “autoctoni”, chè altrimenti gli italiani si sarebbero trovati – per effetto della
affermazione di un principio di parità – in una condizione deteriore rispetto agli stranieri. Così, proprio nel difficile contesto Friulano, il diritto antidiscriminatorio ha dato il via a una inattesa
e
proficua rincorsa tra gruppi sociali verso una parità sostanziale tutta al rialzo, con buona pace di
quanti temono invece che l’utilizzo dell’armamentario antidiscriminatorio possa solo portare a stiracchiamenti di una coperta troppo corta in una
infinita guerra tra poveri.

Insomma il cantiere della non discriminazione è aperto e ricco di grandi stimoli per la costruzione di
una società più solidale: attorno ad esso operano ovviamente non solo le associazioni che hanno
curato questa pubblicazione, ma soprattutto coloro
che guardano e contrastano la discriminazione
sul versante – che è probabilmente il piu importante – culturale, politico, delle relazioni
interpersonali. Noi nel nostro piccolo, un po’ per
passione un po’ per competenze professionali,
abbiamo scelto il versante giudiziario, cioè quello
dell’affermazione del diritto: non perché siamo
azzeccagarbugli per vocazione, ma perché siamo convinti che solo dalla individuazione della
“regola” ad opera di una autorità riconosciuta, possa nascere la costruzione di un nuovo consenso.

La pubblicazione è stata possibile solo grazie al prezioso lavoro della dott.ssa Venera Protopapa.
La redazione delle massime è opera anche del lavoro
di Anna Baracchi, Ilaria Traina, Manuela
Brienza, Giulia Floris, Serena Giordano, Angelo Vaccaro.
Un sentito ringraziamento anche a quanti hanno contribuito con il sostegno economico alla realizzazione del lavoro: UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), Università di Brescia – Istituto di Diritto del Lavoro, CGIL di Brescia, Fondazione Guido Piccini per i diritti
dell’uomo, Fondazione Charlemagne ONLUS.

E un ringraziamento ancora più sentito a quanti vorranno utilizzare la pubblicazione per capire, per discutere e per riaffermare in ogni sede quel principio di uguaglianza al quale le associazioni promotrici hanno dedicato in questi anni gran parte delle loro energie.