Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Lo strano caso delle 65 nigeriane nel Cie: evitato il rimpatrio in extremis

Giacomo Zandonini, Redattore sociale del 14 agosto 2015

14 agosto 2015
6a570980d0269590b0a372245e9a1c79-060.jpg

Roma – “Dell’Italia non so nulla: com’è fatta, com’è la gente, dove siamo esattamente”. L’unica certezza di Briget (il nome è di fantasia) è che “abbiamo rischiato la vita a casa nostra, in Libia, nel mare e quando siamo arrivate a Lampedusa ci siamo sentite al sicuro per la prima volta”. Una sensazione durata troppo poco, per lei come per altre 65 donne nigeriane.

Sbarcate a Lampedusa e, pare, ad Augusta fra il 17 e il 22 luglio scorsi, le donne, quasi tutte giovanissime, sono state infatti condotte nel Centro di Identificazione e Espulsione di Ponte Galeria, alle porte di Roma. Ad attenderle in piena notte, superate le sbarre del Cie, hanno trovato un funzionario del consolato della Nigeria. Segno evidente della volontà di identificarle in fretta e furia, per poi procedere a un rimpatrio.

L’operazione è stata però sventata, “dalle associazioni ma anche da noi dell’ente gestore”, tiene a sottolineare il direttore della struttura Enzo Lattuga, “che abbiamo dato informazioni legali alle donne la notte stessa dell’arrivo”, e le donne hanno potuto presentare una richiesta d’asilo. Redattore sociale è entrato nel Cie grazie alla campagna LasciateCIEntrare, incontrando le donne e raccogliendo testimonianze durissime, che gettano nuove ombre sul trattenimento e sul rischio, tuttora concreto, che siano rimandate in un inferno da cui sono fuggite per miracolo.

Violenze indicibili

Progress ha lo sguardo insolente e un fisico esile di un’adolescente, ma dice di avere 22 anni. “Vivevo nel Delta State, nel sud della Nigeria, e da quando i miei genitori sono morti stavo sotto un ponte, insieme a altre persone senza dimora; lì sei in balìa di tutti, e così sono partita”. In Libia racconta di essere stata “usata come una schiava”.

Patience si avvicina invece con discrezione e parla con gli occhi bassi, trattenendo le lacrime. “Un giorno in Nigeria – dice – è come cento anni all’inferno, e vivere in Libia è come fare l’esperienza di perdere tutto quello che si ha, e quello che si è”.
Le sue non sono figure retoriche, ma segni drammaticamente concreti, impressi con violenza nella carne e nella memoria. “Ognuna di noi ha una storia diversa alle spalle – spiega con una lucidità sorprendente – ma se fossimo rimandate in Nigeria in molte rischieremmo di subire ancora quello che già abbiamo vissuto, cioè stupri e violenze sessuali continue, rituali vudù in cui puoi anche morire, rapimenti”. Sarebbero, forse, costrette a ripercorrere la strada della Libia, “dove degli uomini mi hanno picchiata e violentata in gruppo, puntandomi la pistola alla testa”.

Esperienze atroci, che le hanno marchiate a vita, tanto che alcune di loro mostrano cicatrici da taglio, ustioni estese su gambe, addome e braccia, e riportano di soffrire d’insonnia, di non riuscire a mangiare e di temere di aver contratto malattie, “però qui dentro non lo saprò, tutto quello che fa il medico è darmi un bicchiere di sciroppo e dirmi di bere molta acqua”.

Non siamo prostitute

Non siamo qui per prostituirci, metteteci alla prova e vedrete che siamo qui per lavorare, per darci da fare”. Il ritornello passa di bocca in bocca durante la visita. Ci tengono, le donne, a specificare che non intendono mettere in vendita il proprio corpo, comportamento che in Nigeria è reato penale. Non sospettano, forse, della ramificazione e della persuasività delle organizzazioni che sfruttano la prostituzione.

Gruppi criminali capaci di intercettare le donne una volta arrivate in Europa, anche dopo anni, mantenendo contatti con loro tramite presunti benefattori e imponendo il pagamento di debiti esagerati, per viaggi che le donne, in diversi casi, dicono di aver fatto gratuitamente, grazie a dei “buoni samaritani” incontrati in Nigeria o in Libia.
Ini parla ad esempio di un “uomo gentile, che ha pagato per farmi imbarcare”. In Libia ha perso tutto: prima il fratello, ucciso con due colpi di kalashnikov mentre camminava per strada, poi il marito, rapito due mesi fa da uomini armati e di cui non sa più nulla, anche perché, dice, “qui non possiamo fare nemmeno una telefonata”. In Italia ha perso poi l’unica cosa che le rimaneva: “dopo lo sbarco, appena arrivata qui, per lo stress ho avuto un aborto spontaneo, e così il figlio, a cui io e mio marito volevamo dare un futuro migliore, non c’è più”.

Fuga dalle discriminazioni

Mercy rimane in disparte, lontana dalle ragazze, quasi tutte giovanissime. “Ho più di quarant’anni”, racconta a voce bassa, “e non credo di rischiare di essere sfruttata, anche perché ho una buona educazione alle spalle”. La sua è stata una vera e propria odissea: “nel 2012 mio marito mi ha ripudiata, perché dopo il primo figlio non potevo averne altri, e una donna ripudiata in Nigeria è una reietta, una vergogna per la comunità”. Soprattutto per la sua famiglia, quella di un capo villaggio temuto e rispettato. Che, però, non ha potuto difendere la figlia ed è anzi stato ucciso davanti ai suoi occhi, seguito poi dalla madre, in una terribile guerra fra clan. Quello che Mercy, insegnante di scuola elementare nel villaggio, chiede, è “una nuova opportunità, per poter ricostruire qualcosa” e di “uscire da qui, perché questo sembra un carcere libico e fra queste sbarre la paura che ci ha accompagnato negli ultimi anni è rinnovata ogni giorno, fino a farci impazzire”.

Il caso anomalo

Lo stesso Enzo Lattuga, direttore del Cie per l’associazione Acuarinto, sottolinea come si tratti di un “caso anomalo”. Da dicembre a metà luglio le donne trattenute nel centro erano infatti 20-25 in media, per una capienza totale della struttura di 250 posti, e mai si erano viste donne appena sbarcate, che dovrebbero “andare in un centro per richiedenti asilo”.
Alle donne, spiega poi la funzionaria dell’ufficio Immigrazione della Questura, è stato consegnato un decreto di respingimento nei luoghi di sbarco. Nessuna di loro pare però avere una copia del documento né, tantomeno, una prima documentazione della richiesta di asilo, depositata nei giorni immediatamente successivi all’arrivo, con il supporto dell’associazione A Buon Diritto e della cooperativa Be Free, che nel Cie tengono uno sportello di consulenza settimanale. Eppure alcune dicono di avere già, nelle prossime settimane, l’intervista con la Commissione Territoriale per l’Asilo.

Per Gabriella Guido, coordinatrice di LasciateCIEntrare, si tratta di elementi preoccupanti, che “amplificano la violenza quotidiana di un luogo come il Cie, dove il diritto è assente”. “I segni di sevizie terribili sui corpi di queste giovani – spiega Guido al termine della visita – ci dicono che invece di dare protezione a chi fugge, a persone che potrebbero essere nostre sorelle e figlie, le teniamo in una situazione di continuo rischio, di paura e ricatto, inaccettabile per un paese democratico”.

A preoccupare LasciateCIEntrare è anche l’incertezza totale sul futuro di queste donne. “Se anche si vedranno riconoscere una protezione, dove andranno? Non hanno nessuno in Europa, tranne, forse, trafficanti e sfruttatori… saremo in grado di offrirle un’alternativa?”. Un interrogativo che pesa sul futuro di donne che chiedono solo una libertà che, forse, non hanno mai conosciuto.