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Los Angeles – Oaxaca, viaggio senza ritorno

A Silvia. Storia della ragazza ispanica che ha pagato con la vita una visita a casa, morendo di stenti nel tentativo di tornare in Usa dove viveva da 12 anni.

Silvia veniva da Ejutla, poco lontano da Oaxaca, da uno stato che è tra i maggiori esportatori di emigranti verso il grande Norte. Vengono dalle campagne aride solcate dalla povertà, dall’altopiano polveroso di una bellezza struggente e dalle sierras che scendono scoscese verso il pacifico, punteggiate da piccoli villaggi, ejidos dove la gente a malapena parla spagnolo. Così anche l’accento di Silvia era venato dalla cantilena indigena del suo nativo dialetto mixteco.

Non ricordo neanche dove l’avessimo incontrata la prima volta, era venuta a casa nostra a fare lavori domestici e con noi era restata, ogni martedì per più di dieci anni.
Aveva visto nascere i nostri bambini e li aveva visti finire le elementari, insegnando loro le poche parole che sanno di spagnolo, seconda lingua ufficiale di questa città.
Nei periodi in cui venivamo in Europa per l’estate, Silvia rimaneva a casa nostra prendendosi cura dei gatti e delle piante e al nostro ritorno ce la faceva trovare sempre in ghingheri, decorata con strenne colorate e ghirlande che ci portavano a casa un po’ degli incomparabili colori del suo paese.

Silvia abitava a Los Angeles da 12 anni dividendo una stanza minuscola con sua sorella Ana e sua nipote. Oltre la messa della domenica e qualche festa di quartiere fra connazionali, la sua vita era dedicata al lavoro, i suoi patrones – come li chiamava – erano i suoi clienti, fonte di impiego ma anche, come per decine di donne ispaniche venute a lavorare oltre confine, di un’indipendenza economica sconosciuta nella povertà patriarcale del villaggio.

Lo scorso autunno Silvia è partita. Improvvisamente. Neanche il tempo di salutare; sua sorella, venuta ad usare il fax per inviare certi documenti che servivano, ci ha spiegato che la mamma stava molto male, in ospedale. I tre fratelli e le tre sorelle di Silvia erano tutti in America ed è toccato a lei tornare al capezzale di sua madre.
Dalla cartolina di Oaxaca arrivata per natale non abbiamo più avuto notizie di lei, anche se spesso guardando le sue scarpe, i suoi vestiti da lavoro rimasti a casa nostra, ci siamo domandati se e quando sarebbe ritornata.

La risposta è arrivata quest’estate, sotto la forma di una cartolina di partecipazione funebre infilata sotto la porta da Ana, recando solo il nome di Silvia e la sua data di nascita e di morte. A 42 anni Silvia è diventata l’ultimo successo delle mastodontiche difese erette sulla frontiera meridionale degli Usa, è stata “neutralizzata”, come migliaia di altri periti nel tentativo di venire a lavare piatti e panni sporchi americani, non sarà più un pericolo per gli Stati Uniti.
E’ stata trovata dalla pattuglia di frontiera vicino a Yuma, in Arizona, morta di sete e di stenti, dove era stata abbandonata dal coyote fra la sterpaglia cosparsa di rifiuti nel deserto infuocato che a causa delle fortificazioni anti-clandestini è diventato passaggio obbligato per entrare negli Stati Uniti: 30, 40, 50 km da percorrere a piedi o di corsa, braccati dalle pattuglie.
Amici e familiari l’avevano implorata di aspettare, di evitare le settimane più calde, ma Silvia voleva tornare alla sua vita al suo lavoro. Invece è tornata al suo paese, in uno dei voli cargo che partono regolarmente alla volta del Messico, si tratta solo di aspettare – come ha spiegato un funzionario al fratello di Silvia – che si riempia la stiva ma si fa presto.

Quest’anno, come l’anno scorso e quello prima, le vittime del deserto sono state più di trecento. Come mi ha detto un pastore protestante che nei pressi di Tucson organizza le pattuglie umanitarie dei samaritans cercando di portare acqua e medicinali ai traversanti, “ciò che diciamo loro è voi siete e sempre dovrete restare clandestini, ma se riuscite ad attraversare questa prova del fuoco, allora vi daremo un lavoro”. Questa somma ipocrisia fa sì che una società che si regge in gran parte su un lavoro nero di un popolo invisibile di più di 10 milioni di persone, si codifichino in legge odio e pregiudizi che garantiscono che gli invisibili rimangano tali.
Ipocrisia e xenofobia che ora sono esasperate e strumentalizzate; ci sono le elezioni e il congresso repubblicano è pronto a votare misure sempre più repressive per cavalcare l’odio benpensante di una maggioranza silenziosa che assicuri una vittoria ai seggi. Così mentre gli agricoltori lanciano appelli perchè manca la manodopera e i raccolti si seccano nei campi vengono stanziati miliardi per costruire muri, acquistare veicoli robotici e sensori infrarossi. E sotto gli elicotteri e il filo spinato, sacrificati come l’agnello sull’altare di una politica meschina, uomini, donne, bambini, perones come Silvia abitano e lavorano in questo paese ma anche dopo 10-20 anni di residenza devono essere pronti a pagare con la vita una visita a casa.

tratto da “Il Manifesto” di mercoledì 20 settembre 2006

Approfitto di quest’articolo per segnalarvi anche un blog-diario di due ragazzi che si autodefiniscono “nomadi” in viaggio da quattro mesi per il continente latinoamericano e che proprio in questi giorni sono in Messico. Leggetelo perchè è veramente interessante e perchè con la loro esperienza possono dare un contributo per conoscere meglio la realtà sudamericana, soprattutto per chi non l’ha mai vissuta con i suoi occhi.

Ecco il link: www.pmoroni.it “un viaggio nomade lungo le americhe…”