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Mediterraneo: una politica di morte

Associazione Diritti e Frontiere - ADIF, 26 marzo 2017

Photo Credits: Anthony Jean /SOS MEDITERRANEE

Tutto il Mediterraneo è un mare di morte.

Anziché inviare missioni internazionali di soccorso, di garantire vie d’accesso legali e sicure e di operare per la pace e il miglioramento delle condizioni di vita nei paesi di partenza, si alimentano le guerre e si indaga sui soccorritori umanitari.

Si vogliono sgomberare le acque a nord della costa libica da testimoni scomodi che potrebbero documentare l’assenza di soccorsi in acque internazionali. Ancora oggi però il ritiro delle navi delle missioni europee dalle acque internazionali più vicine alla costa libica sta scaricando sulle organizzazioni non governative quelle responsabilità di ricerca e soccorso che fino allo scorso anno erano assunte dalle unità di Frontex.

In questo modo, i vertici di Frontex non rischieranno di essere denunciati per la violazione del Regolamento europeo 656/2014 e per la violazione delle norme di diritto internazionale del mare, che impongono lo sbarco delle persone soccorse non nel porto più vicino, come sostiene erroneamente, tra gli altri, la Procura di Catania, ma nel porto più sicuro, che viene scelto dall’autorità responsabile della zona SAR (ricerca e salvataggio) – dunque esclusivamente dalla Guardia Costiera italiana, di concerto con il ministero dell’Interno. A quanto pare, paradossalmente, ormai la Guardia costiera coordina solo le “navi umanitarie.

La campagna diffamatoria contro le Ong si spiega con l’esigenza di Frontex e della missione EunavforMed di sottrarsi alla giurisdizione della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che già nel 2012 ha condannato l’Italia nel caso Hirsi, dopo i “respingimenti in mare” a Tripoli ordinati nel 2009 da Maroni alla Guardia di finanza. L’impegno dell’Agenzia si sta concentrando adesso sui soccorsi operati dalle ONG perché si vuole anche imporre la collaborazione degli operatori umanitari nelle attività di identificazione e in quelle di ricerca dei presunti scafisti, sempre più spesso migranti tra altri migranti, anche minori, di fatto forzati a condurre i gommoni fino a quando questi rimangono a galla.

Ma le agenzie europee e le missioni spesso tanto decantate come dimostrazione di coesione europea sono solo gli esecutori di un progetto che ha ben altri mandanti.

Il mandante è la Commissione Europea, che ha scelto la linea dura, irresponsabile e destinata al fallimento, dell’esternalizzazione delle frontiere e dei respingimenti di massa. Questa politica di morte viene spacciata come garanzia di maggiore sicurezza per i cittadini europei, con il richiamo ormai rituale al controllo delle frontiere esterne. Come se sino ad oggi quelle frontiere non fossero già state sbarrate, come se non vi fossero mai morte tante persone (oltre 4500 accertate soltanto nel 2016).

I complici, magari inconsapevoli, degli attacchi diffamatori contro le ONG, sono anche quei parlamentari – la maggior parte – che sembrano non provare alcuna indignazione o rifiutano di far sentire la propria voce di dissenso. Voci forse inutili, per come rimangono al di fuori dei principi di partecipazione effettiva ai diversi comitati e sottocomitati che costituiscono la catena di comando decisionale nell’UE, ma che possono pesare perché scomode e capaci di raggiungere le coscienze addormentate.

Schierarsi contro un simile disegno, oggi, significa non essere complici, ed è fondamentale sapere – se e quando si riuscirà ad invertire la rotta – chi ha disobbedito e chi si è allineato alla logica dominante della Fortezza Europa.

Si pensa cinicamente che i naufragi servano a scoraggiare chi vuole partire; che i rimpatri coatti e privi di ogni fondamento giuridico servano a far comprendere che in Europa non c’è più posto per chi non è considerato utile al ciclo economico.

Si vogliono concentrare le persone in fuga – non importa se uomini, donne, bambini – in quelle terre ignote di transito dove tutto è lecito ma nulla giunge a turbare i nostri sonni opulenti. Da quei paesi non giungeranno mai le immagini che proveranno il ruolo criminale dell’UE.

Ma le persone non si fermeranno, continueranno a cercare di “bruciare le frontiere”, con ogni mezzo e a qualsiasi costo. Sarà più facile morire – nel deserto, nei centri di detenzione costruiti con i potenti mezzi dell’UE, nelle acque del Mediterraneo centrale, nel tentativo di oltrepassare anche i confini interni all’Area Schengen – ma le ragioni per cui si parte non faranno recedere chi non ha nulla da perdere.

Le risorse per migliorare la qualità della vita nei paesi dell’UE sembrano non esserci, ma ricompaiono miracolosamente quando si tratta di foraggiare con miliardi di euro dittatori e militari, dalla Turchia alla Libia, dai paesi del Sahel al Corno d’Africa.

Sembrano non esserci quando si tratta di garantire il soccorso in mare, ma ricompaiono miracolosamente quando si tratta di deportare, rinchiudere, costruire muri, armare guardiani terrestri o marini della frontiera.

Accade allora che sopperire a quanto dovrebbero garantire le istituzioni diviene reato. Diviene reato soccorrere natanti alla deriva a ridosso delle coste libiche. Diviene reato dare da mangiare a chi in Italia è arrivato ma non si vuole fermare. Diviene reato restare umani. Diviene sospetto impiegare risorse per salvare vite.

E’ osceno il petulante ritornello a cui assistiamo, inteso a diffamare organizzazioni nate per costruire umanità, i cui attivisti rischiano talvolta la vita, e in cui a governare le scelte non sono le leggi del mercato, ma quelle dell’etica. Ed è a queste leggi che oggi ci si chiede, ci si comanda, di rinunciare. La stampa e la televisione, salvo lodevoli eccezioni, fanno a gara per dimostrare che è colpa dei soccorritori se la gente parte e muore. Non è colpa di chi nega il soccorso o di chi rimanda i fuggitivi in quegli inferni che si chiamano Libia, Turchia, Sudan. Quando non vengono considerate funzionali a chissà quali interessi, le Ong che operano in mare vengono additate come fossero un’esca che invoglia a partire, e come responsabili indirette dei naufragi.

Chi ha memoria, ricorderà i tempi in cui a giungere sulle isole italiane erano poche migliaia di persone l’anno. Sono state vicende come quella della Cap Anamur (2004) o dei pescherecci tunisini fermati con l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” pochi anni dopo, a tracciare la strada.

Già da allora si elaboravano documenti e strategie per rendere più insidioso e costoso il viaggio, pensando così di fermare il mondo. Ma il mondo non si è arrestato. In tutti quei casi, dopo anni di processo, i giudici hanno assolto chi era stato accusato per attività di soccorso in mare.

Che il mondo non si arresta perché pochi zelanti e potenti governatori del continente ricco lo decidono, lo si è visto con la cosiddetta “emergenza Nord Africa”, nel 2011; lo si è visto con l’esplodere del caos siriano, e lo si vede ora che la situazione in molti paesi di emigrazione peggiora e non si intravvedono prospettive di miglioramento.

E’ inutile e dannoso produrre “Agende immigrazione” e “dichiarazioni” che sotto la vernice umanitaria si rivelano ipocriti tentativi di camuffare la realtà dell’egoismo e della chiusura delle frontiere degli Stati membri, soprattutto di quelli più potenti; leggi nazionali incentrate sul contrasto della libertà di circolazione, ordinanze locali frutto di una misera concezione dell’esistenza, fondata sull’odio e su un colonialismo mai superato.

La scelta di chi intende restare umano viene criminalizzata da chi determina tali politiche: è considerata eversiva, capace di ledere l’ordine costituito, di intaccare la logica della paura con cui si governano, senza bisogno di repressione, i cittadini degli Stati membri dell’Unione. Il consenso di cui godono per ora si regge su un unico fattore, il capro espiatorio da additare per distrarre dal fallimento delle scelte perseguite negli affari esteri, nella gestione della vita interna, nelle scelte di abbassamento di ogni soglia di diritto.

Gettare fango serve a isolare, allontanare simpatie, evitare che tante persone, anche di diverse opinioni politiche, continuino a sostenere, magari con un piccolo contributo volontario, l’esistenza di queste Organizzazioni Umanitarie, in cui spesso si incontra la faccia migliore del continente. E’ miserabile il comportamento di giornalisti e politici che attaccano non solo chi soccorre naufraghi ma chi recupera in acque internazionali cadaveri che altri avrebbero abbandonato. E buona parte della politica presente nelle istituzioni tace, asseconda, a volte rinfocola tale livore.

I documenti approvati in occasione della celebrazione dei Trattati di Roma confermano il suicidio politico e morale dell’Unione Europea sotto il peso della sua incapacità decisionale e dei ricatti incrociati dei paesi dove i partiti populisti hanno già sancito la rottura dei patti di solidarietà che ne costituivano le fondamenta.