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Messico – I rifugiati dell’Albergue Hermanos en el Camino di Ixtepec (Oaxaca) raccontano le loro storie

Diario dal Viaggio sulle rotte dei ribelli in Messico dell'Associazione Ya Basta Êdî Bese

Devono farti del male per poter continuare il cammino“. È la dura verità con la quale i migranti centroamericani devono convivere. “Solo se sei stato aggredito, stuprato, derubato puoi ottenere un visto per ragioni umanitarie che ti permette di proseguire il tuo viaggio“, ci racconta Daniel, volontario dell”Albergue di Ixtpec.
E” ciò che accomuna molte delle storie dei migranti che abbiamo ascoltato.

Photo credit: Ruben Figueroa
Photo credit: Ruben Figueroa

Prima di venire qui, a Chahuites (cittadina lungo la rotta migratoria che collega Tapachula a Ixtepec, NdA) mi hanno aggredito mentre dormivo lungo la via del treno. Avevano il volto coperto ed erano armati. Mi hanno colpito. Mi hanno colpito ovunque. Sono arrivato qui che non riuscivo nemmeno a camminare e avevo il corpo ricoperto di lividi. Per fortuna mi hanno accolto, mi hanno curato e ora sto bene“. Si ritiene fortunato Juán per aver incontrato delle persone che hanno saputo prendersi cura di lui. Purtroppo esistono luoghi in cui chi si dovrebbe occupare dell”assistenza dei migranti chiude le proprio porte lasciando i più vulnerabili nelle mani di coloro che li sfruttano per i propri profitti.

Queste sono le mie biglie, guarda quante sono! Una volta ne avevo 200 e ci giocavo con i miei amici a scuola. C’era un giardino grande e ci piaceva stare lì“. Ce le mostra con un certo orgoglio il piccolo Alejandro. Ha otto anni ed è arrivato qui con il padre e la sorellina da San Salvador, la capitale dell”omonimo stato. “Abbiamo fatto cinque viaggi in pullman per arrivare qui. Ero stanchissimo“. Gli piace il Messico mentre non gli piace l”inglese. “Non voglio andare negli Stati Uniti. Lì si parla inglese e a me non piace“. Sente la Bestia in lontananza pronta a riprendere il suo ruolo di Caronte nello sterminato e spesso insidioso territorio messicano. Corre verso i binari e a lui si aggiungono altri bambini che in questi giorni risiedono nell’albergue. Vogliono salutare chi, dopo una pausa dal lungo e faticoso viaggio, prosegue il cammino verso nord nel tentativo di realizzare un sogno.

Vicino al cancello ci approccia un uomo bassino e con la faccia sorridente. Non c’è bisogno di attaccare bottone, è lui che inizia di sua spontanea volontà a parlarci. “Ah, ma siete italiani? A me piace tantissimo l”italiano, ho lavorato con alcuni italiani in New Jersey qualche anno fa. Ma non voglio tornare là, magari andrò in Europa, proprio in Italia o in Spagna. Prima però devo raggiungere mia figlia in Canada. Avevo già intenzione di andarci, ma la polizia mi ha fermato negli Stati Uniti dicendomi che non posso usare come un corridoio il loro territorio, quindi mi hanno deportato in Messico. Era già la seconda volta che mi beccavano senza documenti. Sto quindi aspettando qua che i miei fogli siano messi a posto per poi farmi inviare i soldi da mia figlia, prendere un aereo e volare in Canada. Almeno stavolta, il viaggio potrebbe essere più comodo di tutti gli altri che ho fatto: la prima volta che partii dall’Honduras, una volta arrivato Messico, mi aggredirono mentre dormivo su di una panchina in un parco. Mi ritrovai senza niente e pieno di botte. Figuratevi, per un diabetico come me, ogni piccolo livido diventa subito un’ulcera“.

In quel momento sentiamo il terreno scuotersi e un rimbombo di pezzi di metallo che sbattano tra loro. “Ah, un”altra scossa. Tanto siamo abituati“, sorride Ramón, un anziano signore del Nicaragua con il quale stavamo parlando prima. “Mi toccherà rimettermi a lavoro per sistemare tutte le cose che si sono danneggiate con le scosse“. Ramón è un tuttofare, mette a disposizione la sua manodopera per dare una mano nella manutenzione degli spazi del centro. Alla sua età ha vissuto in tre Stati diversi, dal Nicaragua a Cuba agli Stati Uniti – “Of course, I am a Newyorker!“, ci dice con orgoglio -, e ha lavorato come muratore, imbianchino e tappezziere. È addirittura stato con la delegazione del popolo di Ortega a Roma per incontrare Papa Giovanni Paolo II.
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Anche la sua storia è però segnata dalle violenze del viaggio dei migranti. “Ho lavorato in una villa di un ricco milionario qui in Messico. Facevo tutto quello che mi diceva, l”azienda di costruzioni inizialmente sembrava onesta.
Poi una banda decise di saccheggiare la villa mentre stavo lavorando, mi hanno aggredito a colpi di machete lasciandomi sanguinante a terra
“. In ospedale stavano per dimetterlo senza che fosse guarito perché non aveva i soldi per pagare. Per fortuna, un ricco donatore pagò per le sue spese mediche e poté rimettersi. “Ma, sapete, la salute è sempre un terno al lotto. Adesso sono malato di cancro al rene. Ho dovuto fare delle richieste burocratiche specifiche ad un’istituzione umanitaria perché mi passassero alcuni medicinali attraverso l’albergue, io non saprei come pagarli altrimenti. E, comunque, non sempre riesco ad ottenere quello di cui ho bisogno“. Di fronte al nostro sconforto, Ramón sorride e scuote la testa. “Nessuna tristezza! Io non sono la mia malattia. Lavorare per questa comunità mi fa continuamente ricordare che bisogna andare avanti, aiutandoci a vicenda. Ognuno deve dare quello che può“.

Poco distante dal cancello vicino al quale stavamo parlando con Ramón, si è appena conclusa una partita a dama, sport ufficiale del centro. Questa volta neanche proviamo a sfidare i ragazzi, sicuri che ci avrebbero stracciati. Iniziamo a parlare con due tra i più timidi di quel gruppo di giocatori.

Io e Julio siamo arrivati qui da un mesetto“, dice sommessamente Miguel. Da dove arrivate? “Dal Salvador“. Si vive bene là? “No. Siamo andati via perché ci sono troppi problemi di delinquenza“. Come vi è andato il viaggio? “Abbiamo camminato in Guatemala per cinque giorni. Gli ultimi due giorni non abbiamo più avuto acqua e cibo. Sono arrivato qui che ero sul filo del rasoio. Guardate – ci mostra il piede sotto il quale c”è una ferita profonda – non riuscivo praticamente a muovermi. Ma grazie a Dio sono riuscito ad arrivare al centro e mi hanno curato“. Per fortuna non eri da solo e avete potuto contare l’uno sull’altro, ci viene da dire. “Sì, anche se uno dei nostri, una volta che gli abbiamo dato i soldi per comprare per tutti il cibo, è scappato e non è mai più ritornato“. Cosa vi piacerebbe fare adesso? “Trovare un lavoro, qualsiasi cosa, che ci possa permettere di vivere in pace. A noi e alla nostra famiglia rimasta in Salvador“.

Links utili:
Sito web Albergue Hermanos en el CaminoPagina FB
Sito Associazione Ya Basta Êdî BesePagina FB