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Migranti nelle Alpi: “Non vogliamo trovare dei cadaveri con lo scioglimento delle nevi …”

Juliette Bénabent, Télérama - 18 dicembre 2017

Photo credit: Stefano De Luigi, Télérama

Traduzione di Giovanni D’Ambrosio

Ore sei, un mattino di inizio dicembre. Una macchina lascia il parcheggio della Polizia di Frontiera e Immigrazione di Montgenèvre (Hautes-Alpes), percorre la strada per qualche decina di metri, si ferma alla rotonda all’entrata di Claviere (Italia). Un giovane uomo scende, esitante. La macchina, un’auto civetta della polizia, riparte veloce in senso contrario. E’ notte fonda, il termometro segna -9 gradi, un vento glaciale fa danzare le decorazioni di Natale che illuminano la strada deserta.

Solo, ai bordi della strada, a qualche metro dalle piste che gli sciatori discenderanno poche ore più tardi, Aboubacar stringe nelle mani il “diniego d’entrata” che i poliziotti gli hanno fatto firmare. E’ guineano. Secondo la data di nascita che si è dato, ha appena compiuto 18 anni. Ha freddo e ha fame. Soprattutto, ha molta sete. “Ho chiesto dell’acqua ai poliziotti, ma si sono rifiutati di darmela. Gli ho detto che volevo fare richiesta d’asilo in Francia, loro hanno risposto che la Francia non ha bisogno di gente come me”, racconta tremando dal freddo. Le sue scarpe, delle leggere scarpe da ginnastica bianche, sono tutte rotte. Aboubacar racconta di essere stato arrestato verso le 2 del mattino dalla gendarmeria, mentre avevano appena percorso il Colle della Scala con altri quattro migranti. “Siamo partiti da Bardonecchia [stazione sciistica italiana dall’altra parte del colle, ndr] verso le 22. Abbiamo camminato per quattro ore nella neve. Scendendo, una macchina è arrivata alle mie spalle, a fari spenti. I carabinieri si sono scagliati su di me, sono caduto nella neve, mi hanno sferrato dei colpi con i piedi. Poi mi hanno portato alla stazione di polizia di Montgenèvre”, prosegue Aboubacar. Ha passato diverse ore nei locali della polizia di frontiera, prima di essere riportato in Italia.

Foto: Stefano De Luigi per Télérama
Foto: Stefano De Luigi per Télérama

Secondo la prefettura di Gap, Aboubacar è stato arrestato nella “zona di frontiera”, dove da due anni sono stati ristabiliti i controlli francesi (in vista della COP 21, poi rinnovati in seguito agli attentati), “quindi si considera come se lui non avesse mai messo piede in Francia”. L’entourage del prefetto precisa che, in caso di pericolo, le persone vengono soccorse dai carabinieri di alta montagna ed accompagnate in ospedale. Aggiunge che, da qualche settimana, invece che scortare in Italia i migranti fermati in piena notte, i poliziotti propongono loro di rimanere al caldo per qualche ora, prima di raggiungere il confine italiano alle prime ore dell’alba. A Claviere alle 6 di mattina il giorno sembra ancora lontano…

“Ho avuto talmente freddo, talmente tanta paura. Volevo fare marcia indietro, ma non da solo, e gli altri mi dicevano di andare avanti. Dio ci ha guidati fino a qui”, Ibrahim, 16 anni, guineano

I quattro compagni di attraversata di Aboubacar, che lo precedevano di una centina di metri, si sono nascosti sul ciglio della strada all’arrivo dei gendarmi. Li incontriamo di mattina a Briançon, in un punto di ritrovo aperto l’estate scorsa, ironicamente battezzato CRS (che sta per Collettivo di rifugio solidale).
Uno dorme profondamente, ma Samaya, Ibrahim e Mohamed (che dichiarano di avere 15, 16 e 20 anni), loro, non hanno ancora potuto chiudere occhio. “La stanchezza spezza le ossa, ma c’è ancora troppa tensione”, spiega Mohamed. In seguito all’arresto di Aboubacar, hanno continuato a percorrere il sentiero, fino all’entrata di Briançon, dove una donna, nelle prime ore del mattino, li ha condotti in macchina fino al rifugio. Lì hanno potuto mangiare, bere, far asciugare le loro scarpe bagnate, indossare dei vestiti caldi. Ibrahim, i cui 16 anni dichiarati sembrano un’età plausibile, ha lo sguardo fisso sui suoi piedi, che si gonfiano nel riprendere calore. Scioccato, fa fatica a parlare. “Ho avuto talmente freddo, talmente tanta paura. Volevo fare marcia indietro, ma non da solo, e gli altri mi dicevano di andare avanti. Dio ci ha guidati fino a qui.”

Foto: Stefano De Luigi per Télérama
Foto: Stefano De Luigi per Télérama

Da un anno a questa parte, e soprattutto dalla scorsa estate, centinaia di migranti arrivano in Francia attraverso questo colle, il più basso del complesso delle Alpi – a 1760 metri di altitudine. “L’inverno scorso arrivavano persone di diverse nazionalità” osserva Michel Rousseau, del collettivo cittadino Tutti migranti (Tous migrants). Tra loro c’erano donne, bambini – il più giovane soccorso sulla montagna aveva 3 anni… E qualche giorno dopo questo reportage, un gruppo con una donna incinta è stato assistito dai soccorsi italiani. “Ma ormai, prosegue Michel Rousseau, arrivano soprattutto dai paesi francofoni dell’Africa dell’Ovest, principalmente dalla Guinea. Il passa parola su questa rotta fa il giro dell’Italia, e si ritrovano a partire in gruppi da Bardonecchia.” Circa il 50% di loro dichiara di essere un minore (2). La vita tranquilla degli abitanti della zona di Briançon è scandita dal ritmo di questi arrivi. Circa mille novecento persone sono entrate in Francia nell’arco di un anno, e fino a cinquanta in un solo giorno, in Ottobre. In questa regione di frontiera, abituata al passaggio dei migranti – fu infatti la porta di entrata di numerosi italiani, poi di europei dell’est, in particolare rumeni -, la solidarietà si è rapidamente organizzata.

Non facciamo della politica, prestiamo solamente soccorso a delle persone in serio pericolo”, Jean-Gabriel Ravary, 66 anni, guida alpina

Nella sua piccola cucina di Névache, il primo villaggio nel quale si capita dopo aver varcato il Colle della Scala, Bernard Liger serve il caffè. “Quando la squadra di soccorritori ha cominciato a trovare delle persone in stato precario lassù, gli abitanti del villaggio si sono come svegliati”, racconta questo anziano ufficiale di 82 anni. “Ci troviamo a 5 chilometri in linea d’aria dall’Italia. Qui, coloro che non vogliono aiutare chiudono gli occhi e noi invece ci organizziamo con discrezione. Non facciamo della politica, prestiamo solamente soccorso a delle persone in serio pericolo.” Jean-Gabriel Ravary, di 66 anni, guida alpina, precisa: “Se fossero bianchi, faremmo lo stesso. Durante la notte, in questo periodo, le temperature scendono a -15 gradi. La montagna è pericolosa, mi viene male a sapere che ci sono delle persone, lassù, che non conoscono niente. Penso sempre ai Montanari della notte, di Frison-Roche… »

Foto: Stefano De Luigi per Télérama
Foto: Stefano De Luigi per Télérama

Il freddo era così tagliente che gli uomini, per scaldarsi, saltellavano, facevano dei giri sul posto come fossero delle trottole […].
Bisognava resistere, vegliare, spiare la notte, dalla quale sarebbe potuta arrivare la fortuna, o il pericolo
.” Incoscienti e pieni di speranza, i giovani migranti di oggi si affidano ad una strada che non conoscono, si perdono nella neve, incontrano mille pericoli di cui non hanno la minima idea. In felpe leggere e scarpe da ginnastica, partono senza acqua né cibo, mangiano la neve e sperano così di idratarsi. A un giovane uomo gli si sono dovuti amputare le dite dei piedi in seguito al congelamento. In Agosto, altri due sono caduti da 40 metri di altezza in un burrone nel tentativo di scappare ai carabinieri; uno è ancora ricoverato a Grenoble. “Non vedo come potremo evitare dei morti”, mormora Bernard Liger. Sul tavolo di legno, Jean-Gabriel Ravary dispiega la cartina della regione. Tutti e due indicano i colli: della Scala, ma anche di Acles, di Rochilles, di Muandes… “Potrebbero arrivare da dovunque! Avvertiamo dei rischi del viaggio in dei manifesti, che diffonderemo a Bardonecchia, Torino, Milano, per dissuadere le persone a partire, spiega Jean-Gabriel. Ma hanno attraversato il deserto e il Mediterraneo, la nostra poca neve non li spaventerà… Siamo davanti ad un vero e proprio dilemma: potremmo spianare il percorso affinché arrivassero seguendo la giusta via e, addirittura, potremmo installare dei cavi qua e là per aiutarli a percorrere la via… Ma la polizia poi non dovrebbe far altro che mettersi alla fine del percorso per acciuffarli

Non capisco più il mio paese. Se facessi ciò che dettano la mia coscienza e i miei principi, sarei una fuori legge”, Silvia, quarantenne, volontaria

Lassù, senza altra illuminazione oltre alla luna, senza altra indicazione se non il cammino indicato da degli “amici che ci sono già passati”, Aboubacar e i suoi compagni di viaggio, come tanti altri, hanno camminato per quattro ore, con la paura nella pancia e il freddo nelle ossa. Questa notte, prima del loro passaggio, due giovani di Briançon avevano pure percorso il cammino di tre ore, in silenzio, con il binocolo incollato al viso, i termos di tè e i vestiti invernali nello zaino, per prestare soccorso agli eventuali migranti dispersi. Perlustrazioni di questo genere sono organizzate quasi ogni notte, suscitando delle controversie: “Questo rischia di incitare le persone ad assumersi dei rischi, credendo che li si andrà a cercare in ogni caso”, sostiene Jean-Gabriel. Una dozzina di cittadini a loro volta sostengono in modo pragmatico: “Partono, che noi siamo lì o meno, dice Sylvie, la quarantenne, accompagnatrice in montagna. La prima volta che ci sono andata, abbiamo trovato cinque persone, due delle quali erano in condizioni veramente critiche… In seguito, ho passato ventiquattro ore in stato di choc. Come può essere che a 20 chilometri da casa mia, lì dentro la mia montagna, delle persone possano sfiorare la morte mentre cercano un rifugio?
Sylvie* si sente come i peccatori siciliani che hanno prestato soccorso alle imbarcazioni di migranti in pericolo, infischiandosene delle leggi degli uomini e applicando invece la legge del mare. “Non capisco più il mio paese, prosegue. Se faccio ciò che dettano la mia coscienza e i miei principi, sono considerata una fuori legge.”
Un capo di spedizione, Frédéric*, conferma: “Ho tre figli, gli ho insegnato il valore della solidarietà, ma non voglio che vengano a portarmi le arance in una prigione!

Foto: Stefano De Luigi per Télérama
Foto: Stefano De Luigi per Télérama

Anche le forze dell’ordine solcano le strade e il Colle della Scala. Molti di coloro che portano aiuto sono stati arrestati avendo preso con sé i migranti nelle proprie vetture, alcuni interrogati. “Noi, gente della valle, oggi viviamo nell’angoscia dei carabinieri, che sarebbero coloro incaricati di proteggerci”, afferma Jeanne*, volontaria nel rifugio, mettendo delle coperte in grandi borse per “ammazzare la scabbia”. “Un giorno, mi hanno fermata con tre persone nella mia macchina, ci hanno fatto aspettare per due ore sulla strada. Si sono messi addosso delle mascherine quando hanno saputo che uno dei migranti aveva la tubercolosi. Non voglio infrangere nessuna legge, ma non posso neanche rimanere a guardare delle persone congelate e affamate passare davanti alla mia finestra senza fare niente! Abbiamo tutti paura, la mia vicina di 90 anni mi ha regalato degli abiti per il rifugio, chiedendomi soprattutto di non dire niente ai gendarmi“.

Se non diamo il nostro contributo, siamo colpevoli di reato di omissione di soccorso a persone in pericolo. Se diamo una mano, di reato di solidarietà. Io personalmente ho scelto il mio reato!”, Léna, 18 anni, del servizio civile

Nel rifugio di Briançon, che dispone di sedici posti che in questo momento sono a disposizione di quaranta persone (e fino a centotrenta l’estate scorsa), i migranti possono chiedere di vedere un medico (l’ospedale di Briançon è molto organizzato), mangiare, dormire, ottenere delle informazioni legali. Léna, abitante di Tolosa di 18 ans, è tornata nella sua città natale per svolgere il servizio civile presso la MapeMonde (la Missione di accoglienza degli stranieri, associazione locale molto impegnata nel settore del rifugio). “Se non diamo il nostro contributo, siamo colpevoli di reato di omissione di soccorso a persone in pericolo. Se diamo una mano, di reato di solidarietà. Io ho scelto il mio reato!” Dice questa giovane donna che racconta le telefonate ricevute a tutte le ore dai volontari – di cui i numeri fanno il giro tra i migranti. “A volte, non si sente altro che il suono dei loro denti che battono.” Al rifugio, ogni giorno, ottanta pasti sono serviti, preparati sul posto o portati dalle persone che li cucinano a casa propria. Cento chili di lavanderia fanno la spola tra il locale e le lavatrici degli abitanti del posto. Circa centotrenta famiglie della regione offrono un letto, per qualche notte oppure per più mesi, senza dimenticare Marcel senza frontiere, un collettivo di giovani militanti che ha occupato un’abitazione abbandonata sulle alture della città e in cui vi ospitano degli stranieri. Tutta questa solidarietà è motivo di orgoglio per il sindaco, Gérard Fromm (PS) : “Siamo sempre stati una regione di passaggio e di scambio. Tutti i sindaci della comunità dei comuni hanno acconsentito a finanziare il locale del rifugio e, nell’arco di un anno, non c’è stato neanche un incidente. Lo slancio di solidarietà degli abitanti di Briançon scalda il cuore.”

Foto: Stefano De Luigi per Télérama
Foto: Stefano De Luigi per Télérama

Qualcuno ha attaccato delle casse, la musica si alza: Ouvrez les frontières di Tiken Jah Fakoly. Insieme, volontari ed esiliati si mettono a danzare tra appendiabiti carichi di giacche invernali, in mezzo a mucchi di coperte e a paia di scarpe. “Aprite le frontiere, aprite le frontiere / Anche noi vogliamo conoscere la fortuna di studiare / La fortuna di vedere i nostri sogni realizzarsi / Avere un buon mestiere, poter viaggiare / Conoscere quello che voi tutti chiamate libertà…” Un’atmosfera di gioia che però fatica a mascherare l’angoscia; perché una volta superato il freddo della montagna, niente è dato per scontato. Boubacar e Abdulaye, entrambi di 16 anni (non ne dimostrano di più), sono arrivati al rifugio dopo “aver creduto di morire lassù”. Già riportati una prima volta in Italia, sono ripartiti velocemente alla volta del colle. “Avevo tentato di varcare il confine a Nizza, ma la polizia mi ha rinviato tre volte a Ventimiglia”, dice Boubacar, mentre verifica se abbiamo scritto correttamente il suo nome. Non vuole raccontare la sua storia – “mi sento troppo male se ne parlo” -, dice solamente che ha lasciato la Guinea perché non aveva più i genitori e perché aveva “bisogno di protezione”. Sanno che non sono che all’inizio delle loro pene, e dicono con tono serio che se dovessero ricominciare da capo, non ricomincerebbero mai il viaggio che è durato un anno per l’uno, quattordici mesi per l’altro, attraverso l’Africa, la Libia, il Mediterraneo.

Ero disperato quando sono arrivato. Le persone che mi hanno aiutato mi hanno ridato il sorriso e la speranza e io, a mia volta, cerco di aiutare i nuovi arrivati”, Badra, 26 anni, ivoriano

Se la maggior parte dei giovani che passano per di qua ripartono rapidamente – verso Lione, Grenoble o Parigi, o verso Gap per coloro che dichiarano di essere minori e la cui età dev’essere quindi verificata -, altri restando invece a lungo. Anche Badra*, ivoriano di 26 anni, arrivato a Giugno, ha presentato domanda di asilo in Francia. Il suo racconto, come quello degli altri, è impossibile da verificare. Dice di essere un orfano, di aver lasciato Abidjan nel 2011, di aver passato tre anni in Libia – in prigione -, e di essere poi salito su un gommone con altre cinquantacinque persone, di essere stato soccorso da un’imbarcazione commerciale e condotto a Brindisi, in Puglia, prima di attraversare tutta l’Italia per guadagnarsi la Francia, di cui parla la lingua. “Ero disperato quando sono arrivato, avevo perso tutto. Le persone che mi hanno aiutato mi hanno ridato il sorriso e la speranza e io, a mia volta, cerco di aiutare i nuovi arrivati.” Badra aiuta a far funzionare il rifugio, dove fa la figura del mentore per i nuovi arrivati. Come Ibrahim, che ogni tanto si presta come interprete, perché parla il francese e il fula. Guineano, di 19 anni, anche lui è passato per la Libia. “Laggiù sono stato fatto schiavo di un arabo per quattro mesi. Poi quando non ne ha voluto più sapere di me, mi ha messo dentro una barca per l’Europa, dice Ibrahim. Non so chi abbia pagato. Eravamo in cento diciotto a bordo. Non volevo salirci, avevo paura.” Sbarcato in Sicilia, ha seguito il percorso di Badra e di tanti altri prima di presentare, anche lui, una domanda di asilo, nella speranza di non essere rinviato in Italia o, come la maggior parte, di dover lasciare le sue impronte digitali (in virtù degli accordi di Dublino, i migranti devono presentare domanda di asilo nel primo paese dell’Unione in cui sono stati registrati).

Foto: Stefano De Luigi per Télérama
Foto: Stefano De Luigi per Télérama

Da dieci mesi, Ibrahim vive ai margini del parco nazionale degli Scrigni, ospitato da una coppia nel casale di Casset. “Siamo interessati alle questioni giuridiche, cerchiamo di capire”, spiega Yves, volontario. Sua moglie, Fanfan, guarda Ibrahim con tenerezza, ma si dice “molto pessimista, perché sappiamo bene che i ragazzi hanno poche speranze di ottenere asilo in Francia. Allora, che fare?” Qualche giorno dopo aver sentito il Presidente Macron denunciare i “crimini contro l’umanità” in Libia e proporre delle “evacuazioni d’urgenza”, molti si sono rivoltati nel vedere le forze dell’ordine francesi ricondurre i giovani intirizziti dal freddo, affamati e perduti, sul bordo di una strada in piena notte. “Qui, siamo a casa nostra, è nostra responsabilità, sono i nostri carabinieri e prefetti che militarizzano la frontiera, come possiamo giustificarlo?” Si inalbera Michel Rousseau, del collettivo Tous migrants.

Si mettono in campo delle forze costose per fare da taxi tra il colle e la polizia, in un gioco assurdo al gatto e al topo. Tutto questo non ha senso e sfinisce tutti quanti”, Georges, gendarme riservista.

Ispirati dalla rivolta e dai propri valori, questi cittadini impegnati sono spesso sempre più scoraggiati. Molti vengono assaliti dall’idea di non essere altro che una parte all’interno di un più vasto gioco fatto d’inganni. Le forze dell’ordine fermano le persone che ritentano di passare quando sono state appena rilasciate. Alcuni sono stati arrestati e rimandati indietro anche sette volte prima di arrivare a Briançon… Ogni volta, i rischi aumentano. E quando i migranti riescono, la loro chance di ottenere asilo è molto bassa – e la maggior parte non lo sa. A volte, anche per le forze dell’ordine questo circo è spossante. I poliziotti di Montgenèvre ci hanno sbattuto la porta in faccia ma Georges*, gendarme riservista, si confida – chiedendo che sia rispettato l’anonimato: “Non siamo delle bestie, abbiamo un’etica ed una dignità. In piena notte e in inverno salviamo spesso le vite di coloro che fermiamo nella montagna. Ma quegli interventi sono molto difficile da gestire, ci sentiamo strumentalizzati: arrestiamo, conduciamo alla polizia di frontiera, che li riporta in Italia, poi loro tornano. Mobilitiamo delle forze costose per fare da taxi tra il colle e la polizia, in un gioco assurdo al gatto e al topo. Fintanto che l’Europa non prenderà delle decisioni politiche chiare… Tutto questo non avrà alcun senso e sfinisce tutti quanti”.
Georges tira avanti cercando di essere assegnato a delle missioni in altre zone della regione, in modo da non prendere parte agli arresti dei migranti e dei cittadini solidali. “Sono un carabiniere da molto tempo, è il mio lavoro, ma ho anche il diritto di pensare.

Il prefetto delle Hautes-Alpes, Philippe Court, si è appena dimesso. Il suo successore, Cécile Bigot-Dekeyzer, ha assunto l’incarico l’11 dicembre affermando che “il suo metodo di lavoro è l’ascolto e il dialogo”. Da lei ci si aspetta molto, lo fanno soprattutto quei cittadini che, per quanto smarriti sono comunque “determinati a non trovare dei cadaveri con lo scioglimento delle nevi”, come dice Bernard Liger, un vecchio militare di Névache. Sulle strade, quando cala la notte, il balletto delle vetture dei carabinieri e dei poliziotti continua. Ci sono anche le vetture dei volontari. A Névache, qualche luce brilla dietro le finestre chiuse. E lassù, sul cammino imbiancato, le diverse tracce di passi attraversano la neve appena caduta. Come i personaggi di Frison-Roche, non si tratta che di una “più che semplice volontà, quella di sopravvivere, di vincere, di proseguire nel cammino intrapreso”.