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Milano – Il CIE di via Corelli diventa un centro di accoglienza

Firmata la convenzione per "trasformare" il centro in struttura per ospitare i richiedenti asilo

Ogni volta che un CIE viene chiuso la sensazione è quella di una piccola grande vittoria. Quante volte nel corso di questi anni lo abbiamo auspicato.

La struttura di via Corelli, una delle prime adibite alla detenzione amministrativa in Italia, era chiusa da diversi mesi, così come molte altre. A decretarne materialmente la chiusura sono state le rivolte di “ingrati osptiti” che, di fronte ad uno stato di compressione dei diritti fondamentali insopportabile, si sono legittimamente ribellati (come hanno sancito le sentenze di Crotone e Gorizia) supportati dalle continue continue denunce di chi non ha mai smesso di guardare a quei luoghi come spazi di sospensione dei diritti e di gestione violenta dei “movimenti migratori”.
I CIE infatti, nel corso di questi anni, hanno ricoperto funzioni diverse a seconda dell’occorrenza. Talvolta utilizzati come dispositivi di criminalizzazione e di gestione “politica” del discorso sull’immigrazione irregolare, altre come macchina di selezione della mobilità e del lavoro (pensiamo al caso di Cassbile che apriva e chiudeva le sue porte a seconda delle necessitùà del lavoro di raccolta), altre ancora mischiando contemporaneamente le “mansioni”. Si è sempre in gni caso trattato di luoghi in cui la privazione della libertà personale per via amministrativa si presentava non semplicemente come variante residuale nella gestione dei processi migratori, ma più efficaciemente come minaccia permantente che investiva in ogni suo aspetto la condizione di “migrante”.

Provando allora a guardare ciò che sta avvenendo intorno ai confini europei ed al loro interno (in Italia in particolare) potremmo certamente comprendere meglio i perché di questa “resa parziale” di fronte alle pressioni per la chiusura dei CIE.
Quella della detenzione amministrativa è da tempo una mappa che ben rappresenta il fallimento delle politiche italiane ed europee in materia di immigrazione. Dei tredici centri disponibili sono ormai solo cinque quelli in funzione. Solo quelli di Roma, Milo, e Caltanissetta funzionano a pieno regime (per un totale di 660 posti) mentre i centri di Bari e Torino operano con capienza ridotta. Oltre a quella di Milano, sono chiuse ormai da tempo anche le strutture di Gorizia, Bologna, Brindisi, Crotone e Trapani. Mentre i CIE di Modena e Lamezia Terme hanno definitavemtne chiuso i battenti.

Contemporaneamente l’Italia è attraversata da una potente pressione migratoria sulle sue frontiere riconducibile allo scenario geo-politico che si sta delineando a ridosso dei confini europei. La guerra in Ucraina ed in Siria, gli scenari di violenta ingovernabilità che caratterizzano la Libia, l’Egitto e l’Afghanistan, la cronicità del conflitto palestinese e delle guerre non dichiarate nel corno d’Africa ed in molti stati subshahariani, così come i nuovi contesti sviluppatisi in Iraq e nel Kurdistan, investono immediatamente la questione della protezione delle frontiere su cui l’Europa fatica a cedere. Si tratta di un quadro che immediatamente mette al centro del discorso il tema del diritto d’asilo, o meglio della libertà di fuggire da contesti che mettono in pericolo la vita o la libertà personale. E questo discorso domina in maniera ormai totalizzante il dibattito sull’immigrazione dell’Europa che pare non avere neppure lontamente abozzato una strategia. Meglio, verrebbe da dire. Visto che l’unica ricetta finora proposta passa attraverso la “resistenza” del confine. L’operazione Mos Maiorum messa in campo in questi giorni dalle polizie di tutta Europa ne è un esempio.

Ma non è evidentemente una situazione omogenea. Le modalità di gestione dei confini in Italia, Grecia, Spagna e Bulgaria, in particolare, ma anche la nuova operazione Triton di Frontex nel Mar Mediterraneo, ci dicono che la violenza del confine, i suoi dispositivi di controllo, la loro funzione di “respingimento” e selezione non sono certo in declino. Lo sfondo è uno scenario europeo in cui alla crisi si accompagna un utilizzo del tema dell’immigrazione come via di fuga, carta vincente per il lavoro delle nuove destre xenofobe.
E’ in questo scenario carico di contraddizioni che si inserisce l’attuale gestione italiana della frontiera e con essa dei CIE.
Perché se è vero che la legge Bossi-Fini colpisce ancora, è vero anche che oggi la questione dell’asilo sta dominando in qualche modo condizionando l’intero assetto delle politiche in materia di immigrazione.
Di fatto, la scelta di convertire i CIE in centri in cui ospitare i “profughi” non è altro che questo: il segnno di una crisi profonda del vecchio adagio immigrazione irregolare/criminalizzazione/detenzione, che deve fare i conti con le vicende drammatiche che intorno all’Europa si stanno sviluppando.
Attenzione però, nessuno ha deposto le armi. Così cme la guerra ha da tempo assunto i connotati strutturali di operazione di pace umanitaria, anche la guerra che si gioca sul confine, così come quella interna contro i migranti hanno bisogno del loro carico di umanitarismo. Le immagini della famiglie siriane (o quelle dei protagonisti di “Io sto con la sposa”), quelle dei corpi avvolti nei sacchi di plastica che ci vengono dal mare, richiamano profondamente questa necessità da parte dei governi UE, quello italiano in primis, che al tempo stesso non può però cedere sul terreno dei confini.

Su questo terreno dalle fondamenta sabbiose si fondano così questa serie di segnali contraddittori che ci vengono dai governi. Quelli che piangono i morti ma vorrebbero respingere i vivi, quelli che bloccano i “flussi” per lavoro ma costruiscono intere economie sul lavoro irregolare, quelli che chiudono i CIE ma regalano accoglienza indegna, quelli che parlano di condivisione europea ma rinnovano ed intensificano l’operatività del regolamento Dublino

Ed anche la chiusura del CIE di Milano parla fino in fondo questo linguaggio contraddittorio, segno di una crisi irreversibile nella gestione del confine ma al tempo stesso della mancanza (per volontà o per impossibilità poco importa) di una strategia all’altezza del momento.
Il tema delle frontiere interne all’Europa, del regolamento Dublino che ingabbia richiedenti asilo e rifugati, gioca un ruolo fondamentale sulla questione dell’accoglienza. Non è un caso che esista una profonda differenza tra i ruoli ricoperti da Italia, Spagna, Grecia e Bulgaria e gli stati che iinvece affrontano da un’altra angolazione la partita. L’ empasse italiana si è spinta a tal punto da barattare la condivisione dell’operazione Triton con il ripristino delle perazioni di identificazione dei migranti sbarcati in Sicilia, mentre le autorità non smettono di rivendicare (con una certa dose di ipocrisia) la “redistribuzione” europea dei richiedenti asilo.

Ma il discorso accoglienza ci mette al tempo stesso davanti alla questione della disponibilità di luoghi per l’accoglienza e delle risorse necessarie per renderla concreta. C’è un intreccio inscindibile tra “spending review”, politiche id austerity, patti di stabilità che mortificano l’azione degli enti locali, rendita legata al patrimonio abitativo e incapacità di affrontare lo scenario attuale con strumenti adeguati.
Le città faticano a far fronte all’accoglienza dei “profughi”, altre si rifiutano di occuparsene, i progetti di inserimento di richiedenti asilo e rifugiati (anche i più qualificati) fanno i conti con una crisi occupazionale senza precedenti e di conseguenza con l’impossibilità di risolvere anche il nodo dell’autonomia dei rifugiati attraverso l’inserimento abitativo. Così, anche l’accoglienza non può che diventare una accoglienza “approssimativa”, spesso indegna, il più delle volte senza prospettive future.

Di certo la chiusura di molti CIE, come a Milano, rappresenta un punto importante in questo articolato mosaico pan-europeo. Ma la scelta di destinarli all’opitalità dei “profughi” apre oggi alcune nuove domande fondamentali per una realtà che rischia di diventare (come peraltro avviene già abbondantemente in Sicilia) un luogo semidetentivo. Chi gestirà quel centro? Che ruolo avrà la Questura (il CIE è in diretta disponiobilità del Ministero dell’interno) nella sua gestione? Quale sarà la sua funzione visto il ripristino delle procedure di identificazione di chi sbarca sulle coste italiane? Quali percorsi saranno possibili in una struttura che potrà ospitare circa 132 persone?
Insomma: veramente non esiste altro modo di far fronte all’esercizio del diritto di fuga da parte di migliaia di persone se non aprendo le porte di mega-centri collettivi, con tanto di gabbie e sistemi di protezione?

Ogni conquista, come la chiusura di alcuni CIE, mette immediatamente in campo nuovi interrogativi su cui lavorare.

E proprio l’Italia che chiude mano a mano i centri di detenzione e richiama le responsabilità europee sui salvataggi in mare e la “presa in carico” dei richiedenti asilo, regola la vita dei migranti con una delle leggi peggiori d’Europa e guida in questi giorni l’operazione Mos Maiorum. Insomma …. un paese vittima di se stesso.

Nicola Grigion