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Mio padre, lo Scafista

Djarah Akan, kasavacall.wordpress.com - 28 aprile 2017

Illustrazione: Djarah Akan

Ne hanno arrestato un altro. Diciannove anni appena, mi dice Jeremiah. Nella foto segnaletica che passa in tv uno spaventapasseri negro coi capelli arruffati, volto scavato perso tra le pieghe di una t-shirt sporca, è l’assassino e il boia, il trafficante e il terrorista.

E’ lo scafista, si proprio lui, lo Scafista con la S maiuscola.

Mi aspettavo denti d’oro e cicatrici, lo sguardo assassino di chi getta in mare i migranti per un capriccio di poco conto. Mi aspettavo la copia carbone di questi criminali internazionali, traghettatori di clandestini, stupratori e terroristi islamici. E invece tra i colori verde e bruno delle birre che mandiamo giù c’è solo la tremula immagine di un ragazzino, anzi un moccioso che al mio amico, seduto accanto a me, ricorda qualcuno. No, Non è lui, dice con un sospiro.

Cambiano palazzi, cambiano mestieri ma Alfano è sempre felice di dire la sua su immigrazione e sicurezza. Gongola per l’efficienza dell’intelligence Nostrana, cinguetta smorfioso infiniti plausi alle forze di polizia ed è lì che si congratula con se stesso per aver arrestato un ragazzino. Minniti invece mantiene un profilo basso come suo solito ma, persino da questo scomodo divano di seconda mano riusciamo a immaginare l’ingrato futuro che spetterà agli immigrati di questo Grande Paese.

Jeremiah cerca di nascondere le sue paure, fa lo spavaldo e dice che tanto ha il culo parato col permesso di soggiorno e tutto il resto. Il suo boss lo chiama quando ha bisogno. Gli dice, Jeremiah vieni in macelleria, e così Jeremiah si alza all’alba e becca venti euro per otto ore di lavoro, tutto in nero, come la sua faccia scura.

Non è una vita facile ma a lui sta bene così. Quegli africani ignoranti coi loro problemi non sono affar suo. Lui ci è passato e non vuole saperne più nulla. Ma gli occhi spiritati dello scafista-adolescente alla tv lo hanno devastato.

Sapete, non lo riconosco più questo ragazzone negro alto, grosso e disincantato. Ha una strizza tremenda, glielo si legge negli occhi. La sua è una paura antica, che risale le pendici di un’infanzia fatta male, di una vita portata avanti ancora peggio. Sono passati quattordici anni dalla prima volta che gli chiesi da dove veniva, come si chiamasse. Di italiano non spiccicava una parola, parlava solo in Twi, la lingua di mia madre che non ho mai imparato. Jeremiah adesso si morde così forte le labbra che un piccolo rivolo di sangue gli cade giù dalla bocca. Finisce sul pavimento.

Fratello, gli dico, che hai? Perché fai così?

Jeremiah è arrogante ed egoista, fa silenzio quando alla Tv mandano in onda il solito chiacchiericcio sull’immigrazione. A volte guardiamo programmi alla tv come Dalla Vostra Parte solo per vedere quei bianchi fascisti azzuffarsi fra loro su questioni che fingono di non comprendere. Ma è raro che la cosa vada troppo per le lunghe, dopo un po’ al mio amico saltano i nervi, comincia a bestemmiare come un matto e così, capisco che ha passato il limite di sopportazione. In fondo ha ragione, i fascisti fanno ridere ma non troppo.

Questo ragazzo è un vero pezzo di merda, vi direte leggendo le mie parole, ma il punto è un altro, il punto è che Jeremiah come gran parte di coloro che hanno affrontato il Viaggio, si è rotto.

E quando si è rotto, qualcosa di cui non riesco a immaginare nemmeno la sottile consistenza, l’odore, è filato via mandandolo al diavolo per sempre. Penso che una parte di sé in quei giorni di mare aperto lontano dalla costa gli abbia detto una roba del tipo, da oggi in poi te la cavi da solo negro, e bada bene che non sarà una passeggiata vivere in un posto dove dovrai chiedere scusa per sempre. E grazie. Per sempre.

In fondo gli immigrati come lui, e i figli di immigrati come me, devono fare questo. Giustificare l’utilità della propria presenza in un luogo altro da casa loro. Non possiamo avere davvero le cose che hanno gli italiani, a parte i fantomatici 40 euro al giorno e l’albergo a cinque stelle meno una.

In questi quattordici anni Jeremiah mi ha impartito dure lezioni, senza mai dire una parola. Guardavo con un certo imbarazzo alla mia vita da mezza privilegiata mentre lui si ritrovava costretto a rifare le elementari umiliandosi davanti a tutti. Da un centro all’altro e, da una casa all’altra la sua famiglia si sfaldava ogni giorno che passava, mentre io, con le prospettive della mia piccola vita, bevevo succo di frutta del discount, senza frutta.

Anche adesso, la nostra prossimità esistenziale è solo un dato sulla carta. Prendo in giro la calvizie di Minniti sputando sul decreto-figlio che porta il suo nome, ma dimentico che Jeremiah, quattordici anni fa, da una di quelle barche che uccidono ne è venuto fuori vivo solo grazie a suo padre, Lo scafista.

Sai, che quando sono arrivato qui era lui che guidava la barca, mi racconta mentre fissa lo schermo mandando giù un sorso di birra dopo l’altro. Lui portava la barca, era il mio capitano, il capitano di tutti. Ora ce l’hanno con gli scafisti, li cercano ovunque e dicono che sono trafficanti di esseri umani. Ma mio padre mi ha salvato, ha salvato tutti quanti, ci ha fatti arrivare qui. Perchè deve pagare per questo?

Trafficanti di vita, trafficanti che ti hanno portato qui e ti hanno fatto diventare mio fratello, penso mentre la sua voce rimbomba nella mia mente.

In Libia i veri assassini hanno le chiavi delle carceri, prendono soldi dallo Stato, da questi bianchi qui in Europa e poi ti violentano. Maschio o femmina non gli interessa. In Libia quelli che comandano restano a terra, non si fanno fregare dalla Polizia italiana perché lo sanno che la Polizia Italiana ce l’ha con gli scafisti. Pensano che gli scafisti sono la colpa di tutta quella gente che affoga per niente, ma se entro facile viaggio facile, non pago uno stronzo di Libico che mi ruba 800 dollari dal sangue di mio padre. Lui ha lavorato come pescatore in Libia per tanti anni, vivevamo in Ghana, ma prima di fare secco Gheddafi in Libia si stava bene. Si mangiava pesce fritto un giorno si e un giorno no. Era il periodo che volevo bene al mare e volevo essere un pesce.

In Libia ti davano la casa e il lavoro e vivevi bene, ti facevi i fatti tuoi. Poi è arrivata la guerra, casino qua, casino là, tutti avevano vinto la guerra e tutti volevano comandare. Mio padre ha detto, non ci fanno passare, non ci danno i permessi per andare con l’aereo, dobbiamo prendere la barca. Ogni notte aspettavamo di nascosto che arrivasse la barca, e io pensavo di morire perchè non era una barca, era un barattolo di latta del cazzo con mille buchi dentro. Ma se non ci salivamo sopra i buchi ce li facevano quei cani di Libici. Non ci mettevano niente a spararti, dico sul serio! Se parlavi troppo ti sparavano, se ti lamentavi ti staccavano i denti, se ti muovevi o andavi a pisciare sta sicuro che tornavi con qualche pezzo di meno.

Gli occhi di Jeremiah brillano, sono illuminati da un odio folle, quasi criminale. L’odio tipico dei bambini che non si sono rimarginati del tutto. Suo padre ha salvato settantotto persone da morte certa ma quelli alla tv non fanno differenze, lo scafista ha portato dei problemi in carne ed ossa a destinazione, sani e salvi e per questo deve pagare in quanto trafficante di generiche vite umane.

Quando è arrivato il nostro turno per partire io piangevo e mio padre mi tappava la bocca così forte che non riuscivo a respirare. C’erano giovani ragazze, uomini di mezza età, bambini piccolissimi, gente fuori di testa, ladri, studenti, assassini, disperati di ogni sorta. Era come vedere l’umanità da un punto lontanissimo dell’universo, solo che la mia famiglia ci stava in mezzo e non sapevamo che fine avremmo fatto. E la mia famiglia era mio padre. Quando i Libici ci hanno detto di salire non tutti erano d’accordo. Avevano pagato per una barca e non per una bagnarola e tutti noi sapevamo che fine facevi se provavi a entrare in Europa con una barchetta conciata così. Uno di quei Libici che raccoglievano i soldi si è rivolta a noi col fucile e ha chiesto, sai portare la barca? E tu? E tu la sai portare? Chiedevano a chiunque, non gliene fregava nulla di chi fossero e che cosa ne avrebbero fatto di noi una volta saliti. Chi guida decide e diventa Dio, capisci?

Capisco, e finalmente comprendo anche il perché degli spaventosi racconti di torture e violenze durante i viaggi. Quando i trafficanti lo decidono si parte e basta. Criminali autorizzati da un sistema altrettanto criminale targato UE, fatto apposta per rendere impossibile viaggiare in altro modo, autorizza altri criminali a fare carne di macello delle vite di chi viaggia.

Nessuno era in grado di portare in mare una barca come quella. Alla fine il Libico si è rivolta a un tunisino tarchiato e gli ha chiesto se sapesse portare la barca. Lui ha detto di si ma glielo leggevi negli occhi che era uno di quelli che durante il viaggio per una parola di più ti avrebbe scuoiato vivo e gettato in mare. Mio padre ha visto il coltello, ha visto in quell’uomo le sue intenzioni e ha detto, io sono un pescatore, guido io.

Aveva con se un foglio con il suo nome e cognome che diceva pescatore. Il Libico con il fucile si è convinto ed è stato così che mio padre è diventato uno scafista. Lui non è un eroe, è ottuso, qui in Italia fa un lavoro schifoso e pensa solo ai fatti suoi. E’ solo un uomo, mi capisci? Un uomo che voleva vedere suo figlio vivo, finché poteva. Mio padre non è un eroe, è un uomo. Solo un uomo, come quel ragazzo.

Non sai mai chi guiderà la barca e cosa ti faranno, è una scommessa anche questa, ma nessuno può dire che mio padre è un assassino e un trafficante.

Quattordici anni fa le misure contro gli scafisti erano molto diverse da quelle attuali. Probabilmente suo padre sarebbe finito in carcere e nessuno lo avrebbe ascoltato perché da questo lato del mondo il migrante e la menzogna sono un sillogismo d’acciaio e certezze.

Jeremiah trema ancora al solo pensiero di vedersi portare via quel padre che tanto disprezza, così pigro e vinto dalla vita da aver deciso di lavorare ad una pompa di benzina rinunciando per sempre al mare.

Jeremiah che conosce questa storia e la verità che si nasconde dietro i nuovi mostri da combattere come gli scafisti e i clandestini, sa che è tutto un artificio dei bianchi che fanno le leggi e che decidono chi resta e chi va. Il mondo cambia tra le nostre dita mentre fingiamo di immaginare una quotidianità fatti di infiniti rinnovi del permesso di soggiorno. Le leggi stanno cambiando, il mondo sta cambiando e i registi che ne tirano le fila hanno deciso di fare di noi, talvolta poveri rifugiati, talvolta maledetti migranti economici, il nemico che regge e costruisce trame e identità di un racconto all’Italiana, dove si cattura, si punisce si condanna e si spunisce. Questo Stivale col tacco scollato vuole il migrante antagonista, gli serve per andare avanti. Bisogna avere un collante davvero straordinario per riuscire a tenersi in equilibrio nella corsa ai fascismi e siamo noi, gente come me, Jeremiah e suo padre a tenere insieme – nell’odio e nella caccia alle streghe – gli onesti cittadini di questo paese sgangherato. Almeno li distraiamo.

Adesso Jeremiah che prima di essere Jeremiah è stato Kofi – fino al suo arrivo in Italia – si sente preso al collo in una morsa invisibile. Suo padre è stato uno scafista e lui improvvisamente si sente figlio di uno scafista. Intrappolato, minacciato, manovrato. Fuori la porta di casa la Polizia ti cerca coi cani, controlla il documento, non conosce la tua storia, non desidera saperti vivo o morto. Fuori la porta di casa nostra si incarcerano e si condannano ragazzini di diciannove anni con gli occhi di suo padre, allora un pensiero comincia a girare in tondo sulla tua testa, come fanno i corvi prima del maltempo.

Forse me ne vado, magari in Svezia, mi dice pensieroso. Li hai sentiti quelli alla tv. Non dovrei essere qui, non dovrei nemmeno essere vivo.

Stappo una bottiglia di birra e gliela offro. In Svezia fa freddo, gli dico non è casa tua.

E’ questa, Jeremiah, questa è casa tua.