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Nuove rotte e guerra ai trafficanti

Riflessioni a partire dalle reazioni sull'arrivo dei cargo di cittadini siriani

Dopo lo sbarco a Corigliano Calabro e a Gallipoli dei cargo Ezeeden e Blue Sky a bordo dei quali erano stipati rispettivamente 450 e 768 persone in prevalenza di nazionalità siriana, avremmo sperato che si aprisse in Italia e in Europa una discussione su come tutelare le decine di migliaia di vittime prodotte dal protrarsi del conflitto siriano e più in generale dell’emergenza umanitaria di tutta l’area medio-orientale.

Evidentemente così non è stato. Ancora una volta l’Europa si è rifiutata di essere attore di pace e di tutela dei diritti umani di fronte alla barbarie degli effetti che le guerre producono sulle popolazioni civili, ossia donne, uomini e bambini che paradossalmente guardano proprio all’Europa nella disperata ricerca di una vita possibile, sempre più ostica nei campi profughi e nelle città di Giordania, Libano e Turchia, dove pure sono riparati almeno 4 milioni di cittadini siriani.

E così, nel tam-tam di notizie e dichiarazioni ufficiali che ha accompagnato l’arrivo dei cargo non è della guerra che si è parlato, e nemmeno di quel diritto alla protezione internazionale che dovrebbe costituire garanzia di salvezza per chi ha avuto la sciagura di trovarsi sotto alle bombe o davanti alle milizie dei signori della guerra vecchi e nuovi che tutto l’occidente stigmatizza.
Nessun rappresentante di Governo ha accennato un pensiero sulla necessità di aprire strade di fuga sicura per chi fugge da queste atrocità.

I riflettori si sono invece accesi prima sulla novità delle rotte inaugurate, poi sulle responsabilità dei trafficanti di esseri umani spietati. E come sempre accade, il dibattito si è avviato verso un solo asse di ragionamento, che promette tolleranza zero verso i trafficanti di uomini, unici colpevoli di questa vicenda.
I trafficanti. Contro questi si è scagliato il Commissario Europeo all’Immigrazione Avramopolous, seguito dal Ministro dell’Interno Alfano, annunciando come priorità assoluta delle future politiche la lotta ai trafficanti, in quanto responsabili dei patimenti di migranti e rifugiati, come viene anche confermato da reportage e inchieste sui principali quotidiani. Organizzazioni senza scrupoli, i cui servizi sono disponibili su Facebook, che lucrano senza pietà sulla disperazione dei profughi, chiedendo fino a seimila dollari per un viaggio che si trasformerà in un incubo di massa sulle navi mercantili. E’ su queste figure che viene indirizzata l’indignazione che la visione delle sofferenze dei migranti alla deriva procura.

Sarebbe molto interessante indagare a questo punto le tecniche con cui sono scelte le cornici semantiche utilizzate dai media e dai politici nel discorso sulle migrazioni, ad esempio osservando come siano utilizzate di volta in volta categorie simboliche stereotipate che, nonostante l’ampia disponibilità di testimonianze e informazioni dirette, tendono a confinare la rappresentazione all’interno di una scena chiusa, dove i personaggi e i protagonisti sono fissi – i clandestini, i profughi, i trafficanti, i soccorritori – dove non c’è margine per rispondere alle tante domande che le immagini dei profughi suscitano; una scena dove colpe e cause sono strette attorno a questi personaggi, poiché allo sguardo viene impedito di conoscere il prima e il dopo, e quindi anche il ruolo di attori esclusi appositamente da questa scena.

Tocca allora tentare, ancora una volta, di allargare la scena, proprio su quanto precede e segue lo sbarco, anche a rischio di ripetere dati di realtà noti ai lettori, ma che solo se recuperati danno senso ai frammenti di verità spezzate che affiorano in questi giorni attraverso gli organi di informazione.
Sul prima. Se nonostante stragi e carneficine, che hanno fatto il giro del mondo, migliaia di persone continuano ad affidare i propri soldi, la propria vita, i propri figli a questi “trafficanti” è perché nessun comune mortale che nel fuggire dalla Siria (o dall’Iraq o dall’Iran o dal Pakistan o dal Corno d’Africa o dalla Nigeria) si rivolge ad una ambasciata europea riceve un documento di viaggio che lo autorizza a partire per chiedere asilo e per cercare lavoro. Nessuna di queste ambasciate, anche di fronte ai requisiti previsti dalle normative per poter sostenere un viaggio (risorse economiche e documenti) consente l’ingresso nel proprio territorio, ne per accedere alle misure di protezione internazionale, ne per lavorare, anche in presenza di una eventuale proposta di assunzione. Dai primi mesi del conflitto in Siria la consegna inviata dai Ministeri degli Esteri dei paesi europei alle rispettive rappresentanze consolari nei paesi limitrofi è stata chiara: sospendere ogni procedura di emissione dei visti di ingresso.

La chiusura progressiva di tutti i percorsi di circolazione e ingresso autorizzati non lascia alternative ad una partenza senza visto, attraverso deserti e mari, muri e reti elettrificate. Nell’incertezza e nel pericolo di questi lunghi e tortuosi tragitti, trafficanti, intermediari, passeur, guide sono sciacalli e farabutti, ma le loro competenze sono la necessaria speranza di poter aggirare il sistema sempre più repressivo del controllo della mobilità delle persone messo a punto dalle agenzie dell’UE attraverso confini fisici e legislativi. Così prospera il commercio di esseri umani, i trafficanti adeguano i “servizi” alle nuove frontiere, i prezzi lievitano davanti alla necessità di nuove rotte e nuove strategie, la domanda aumenta davanti all’espandersi di conflitti e miseria. Il traffico degli uomini è l’unica risposta alla domanda di libertà e sopravvivenza espressa dall’essere umano.

Ma non vogliamo dimenticare la ricetta proposta invece da UNHCR e da altri organi internazionali, ossia quella dei resettlements (reinsediamenti), presentati dopo la strage del 3 ottobre 2013 come sperimentazione di corridoi umanitari. La verità è che questi non sono altro che forme di esternalizzazione del diritto di asilo, con le quali i cosiddetti “paesi sicuri” possono bloccare a vita, e lontano dai propri confini, richiedenti asilo e rifugiati, parcheggiandoli in campi profughi o periferie senza risorse, in attesa di stabilire criteri e quote degli ingressi autorizzati nei propri territori, che nel caso siriano si calcola siano attualmente disponibili per un numero che corrisponde a meno dello 0,1% dei potenziali beneficiari stabiliti da UNHCR (!).

Accanto a tutto ciò c’è un altro non detto nelle dichiarazioni del Commissario Europeo all’Immigrazione Avramopolous: nessuna raccomandazione rispetto alle misure di accoglienza per queste persone. Spendiamo allora due parole anche sul dopo, in assoluta continuità con gli effetti delle politiche comunitarie che finora abbiamo visto. Se infatti i rifugiati della Blue Sky e della Ezeeden sono sopravvissuti ad un incubo, non è detto che toccata terra i pericoli siano finiti, dovrebbe ben saperlo il Commissario greco. Per loro inizierà una nuova odissea, un percorso ad ostacoli verso la chimera della buona accoglienza, che solo in Svezia sembrerebbe raggiungere gli standard previsti dalle Direttive Europee.

Da subito dopo gli sbarchi, a maggior ragione dopo le rivelazioni delle inchieste su Roma Capitale, i rappresentanti delle Istituzioni italiane ed europee avrebbero avuto il dovere di preoccuparsi di quanto i rifugiati siriani rischiano di subire nel dopo, ossia nell’attraversamento meno spettacolare ma altrettanto spietato di quelle frontiere interne che limitano e condizionano la vita nello spazio europeo. Il transito dalla stazione di Milano, dove il Comune senza copertura normativa e senza risorse provvede al soccorso e all’orientamento dei rifugiati siriani, la speculazione criminale di altre reti di passeur – trafficanti forse meno crudeli che con truffe ed estorsioni incassano migliaia di euro per un passaggio oltre-frontiera, i respingimenti collettivi dall’Austria e dalla Svizzera, le deportazioni verso l’Italia di chi è stato convinto con le botte a sottoporsi al rilevamento delle impronte digitali e deve fare i conti con il Regolamento di Dublino, l’ipocrita misura comunitaria che anche sul suolo europeo cancella la libertà di scegliere in quale paese insediarsi: è solo un parziale elenco di sopraffazioni e privazioni di una cittadinanza diseguale e gerarchizzata con cui devono confrontarsi i superstiti delle tragedie in mare.

Attraversato il Mar Mediterraneo, il Mar Egeo, il Mar Ionio per i siriani non sono finiti i confini da superare. L’assenza di politiche per promuovere la costruzione di un futuro degno, di percorsi di accoglienza e di inclusione nel pieno esercizio dei diritti e della libertà, l’inadeguatezza dei progetti esistenti, la carenza di alloggi per persone in difficoltà economica, l’inadeguatezza dei percorsi di inserimento lavorativo, tutte condizioni negative che precipitano migranti e rifugiati, insieme a molti altri, in una condizione di necessità a cui le reti criminali e i trafficanti offrono una risposta.
E così, dopo avere pagato seimila dollari per arrivare in Italia, dovranno sborsare altre centinaia di euro per una residenza, per un passaporto, per un certificato di idoneità abitativa, per un finto contratto di lavoro o per un impiego di sfruttamento, per un alloggio precario.

Così capiamo meglio le reazioni di chi si esprime sulla “emergenza immigrazione” all’indomani di stragi e tragedie: ogni volta che politici e statisti invocano maggiori controlli alle frontiere o dichiarano guerra ai trafficanti di uomini, stanno in realtà affermando che questo sistema funziona alla perfezione, anzi, non deve essere cambiato di una virgola: è ai migranti e alle loro libertà che stanno giurando guerra.

Neva Cocchi