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Orange juice – Reportage da Rosarno

di Matteo De Checchi

Foto di Matteo De Checchi

Arrivare a San Ferdinando dalla collina che sovrasta Rosarno, attraverso una strada scoscesa e impervia limitata ai lati da finocchi selvatici e alberi d’arance, dà la sensazione di un’estate che sta ritornando a febbraio. Si sta per chiudere la stagione agrumicola calabrese ma le vie sono invase da persone di origine africana che sfrecciano con le loro biciclette alla ricerca di un lavoro, un misero lavoro, che ridia loro un briciolo di umanità. A San Ferdinando comincia l’Inferno, quello vero.
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La zona industriale, sepolta da piante ed erba, è il rifugio, oramai da un decennio, di braccianti agricoli africani che ricercano, proprio in questo luogo, il senso di comunità e solidarietà; tutta la zona è una grande “jungle”, nascosta e posata davanti ad un mare azzurro e verde. In alto, verso il cielo limpido, si levano dense nubi di fumo nero, è la spazzatura che brucia giorno e notte.

Nel primo pomeriggio riesco ad entrare nella tendopoli, il centro vitale della “jungle”; mi accoglie Tiam, senegalese, si gira, mi guarda, e mi fa cenno di seguirlo. La parte centrale della tendopoli è un classico mercato della Costa d’Oro: magliette, pantaloni, calzini, accendini, pollo appena grigliato. Spiccano, su tutte, le tende del Ministero dell’Interno, sbiadite e sporche, segno che lo Stato italiano non mette piede in questo posto da un po’ di anni.
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È domenica e da alcune tende esce il suono delle telecronache delle partite di calcio, qualcuno urla e impreca per un gol sbagliato, altri festeggiano. Gli africani amano il nostro calcio ma cominciano, inesorabilmente, ad odiare la nostra terra che, giorno dopo giorno, li maltratta e li umilia.

A San Ferdinando sono accampate circa 1.600 persone stipate in tende di fortuna, in condizioni igienico sanitarie spaventose; i bagni sono all’interno di container vecchi e sporchi e così, tutto intorno, si è formata una latrina a cielo aperto, putrida e maleodorante.

Sto cercando di scattare delle foto quando intorno a me si raggruppano alcuni ragazzi che cominciano a sfogarsi; hanno quasi tutti un permesso di soggiorno, mi raccontano, ma manca il lavoro. Negli ultimi due anni la raccolta delle arance è calata sensibilmente, molti produttori della zona sono stati costretti ad abbattere gli alberi, il guadagno era praticamente nullo. E loro, gli africani, ultimo anello della catena, quando lavorano, si ritrovano schiavi di un mercato impietoso che li riporta ad una condizione di semi schiavitù, pagati, nella migliore delle ipotesi, 15-20 euro al giorno, ovviamente in nero, senza nessun diritto o garanzia.

Si lavora poco, mi racconta Mboa, nell’ultimo periodo al massimo una settimana al mese, per i più fortunati. Paga rigorosamente in nero e percentuale al caporale di turno.
In tasca restano così 15 euro al giorno per dieci ore di lavoro; un esercito di invisibili stanchi ed affamati, ma tenaci nel chiedere i loro diritti.

Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.