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Padova – L’odissea dei rifugati trovati in un container: picchiati in Grecia, denunciati in Italia per il reato di clandestinità

Affidati al business dell'accoglienza rischiano ora una riammissione in Grecia dove hanno subito violenze dai militanti di Alba Dorata

Raggiungere l’Italia era molto più che un sogno: forse una necessità vitale, probabilmente l’unica scelta. Difficile pensare che, altrimenti, pur di attraversare la frontiera, i quindici ragazzi africani trovati senza fiato in un vagone merci carico di sementi, in provincia di Padova, avrebbero accettato di pagare per un viaggio di quattro giorni dal destino incerto, potenzialmente mortale.
Quaranta centimetri di spazio vitale, una coperta, qualche bottiglia d’acqua e una trattativa con un trafficante pakistano senza scrupoli che li ha “imbarcati” come un carico di merce umana per spedirli dalla Serbia all’Italia, passando per Villa Opicina, fino a S.Martino di Lupari, nel padovano, dove finalmente hanno potuto riempire ancora i polmoni d’aria, dopo che gli operai della ditta Agriservice hanno aperto le porte di quella che poteva trasformarsi in una tomba a rotaie.

La loro odissea è diventata una notiza solo quando hanno rivisto la luce, ma la fuga è iniziata ben prima, ben più lontano, e quel che è peggio, rischa di non essere ancora finita.
Questa invece non è una notiza. Perché l’Italia sa regalare a richiedenti asilo e rifugiati, anche quelli che non annegano in mare, le peggiori angherie. Solo poche ore prima un gruppo di famiglie siriane era stato intercettato mentre camminava lungo una statale nei pressi di Rovigo. Le mappe delle città di tutta la penisola sono costellate da una una geografia di luoghi, piccoli e grandi rifugi, dove chi è stato abbandonato dalle istituzioni trova riparo. A pochi passi da Padova, al Porto di Venezia, senza le luci dei riflettori che illuminano Lampedusa, si consumano quotidiane violazioni, con silenziosi respingimenti ai danni di centinaia di ragazzini afghani e curdi che rischiano ogni anno la morte per raggiungere l’Italia nascosti dentro i camion provenienti dalla Grecia. Poco più a nord, a Gradisca d’Isonzo, in un un luogo chiamato Centro di Accoglienza per richiedenti Asilo e Rifugiati (CARA), vengono confinati per mesi centinaia di migranti in fuga, in attesa di una risposta sulla loro domanda d’asilo. Sono solo alcuni esempi, fotografie di un sistema che non funziona, viziato dal “peccato originale” del contrasto all’immigrazione irregolare.
Per questo la storia di questi quindici ragazzi non è che una tra le tante, una delle migliaia di biografie che raccontano la crudeltà delle politiche europee del confine ed allo stesso tempo il fallimento di ogni strategia di accoglienza di questo Paese.

Nelle scorse ore la notiza del loro ritrovamento ha dominato la scena nei quotidiani e nei notiziari locali. In molti, giornalisti e non, hanno cercato informazioni sul loro destino, ma una coltre di fumo sembra avvolgere questa storia. Nessuno deve sapere. Perché?

Noi siamo riusciti ad incontrare i giovani africani meno di ventiquattrore dopo il loro arrivo per iniziare a fare un pò di luce su quella che rischia di trasformarsi nell’ennesima ombrosa vicenda di diritti violati e affari sporchi.

Ci sediamo al tavolo di un bar e ci mostrano un pezzo di carta. Il primo ed unico documento che hanno ricevuto dalle autorità italiane è un verbale redatto dai Carabinieri del Comando di Cittadella “in qualità di persone sottoposte ad indagine”. E’ una denuncia ai sensi dell’art. 10 bis del D.lgs 286/98, il Testo Unico immigrazione: ingresso e soggirono irregolare. Sono accusati del reato di clandestinità quel fastidioso stigma che perfino l’attuale Govero ritiene dannoso e “abrogabile”.

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Il viaggio

A ritroso, ripercorriamo allora le loro storie. I loro racconti ci portano nel Nordest della Nigeria, una zona investita da un’impressionante escalation di violenze, distrutta da un conflitto armato senza fine, un territorio devastato che, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugati, numerose organizzazioni internazionali e la stessa Farnesina, ritengono ad alto rischio. E’ da lì che molti di loro sono partiti.
Qualcuno si è mosso in aereo, altri invece hanno camminato verso il Mali, oppure, sempre attraversato il Niger, hanno raggiunto la Libia, da dove si sono imbarcati per l’Europa finendo però in Turchia. Da qui hanno dovuto intraprendere un nuovo viaggio attraverso le frontiere. Ma prima di raggiungere la Serbia, passando per Albania e Montenegro, prima di conoscersi, prima di salire su quel vagone partito da Sid, che ha rischiato di essere il loro ultimo letto, hanno fatto tutti tappa in Grecia: un nodo cruciale della loro avventura, di quella che li ha portati fin qui e, probabilmente, anche di quella che li aspetta.


Il primo e unico pezzo di carta dalle autorità italiane è la denuncia per il reato di clandestinità

Proprio in Grecia le loro storie si sono incrociate nuovamente: nei centri di detenzione dove ogni diritto è carta straccia, nel paese in cui le percentuali di riconoscimento dello status di rifugiato rasentano lo zero, lì dove la crisi morde più che in altri luoghi, in uno stato dove la guerra ai blacks è diventata caccia all’uomo, nella periferia dell’Europa monetaria, verso cui anche il Consiglio di Stato italiano ha dichiarato la necessità di sospendere i trasferimenti, pena il rischio di danni irreparabili.

Per un anno e mezzo hanno vissuto da carcerati. Alcuni hanno attraversato tre o quattro campi di detenzione diversi in attesa di conoscere il loro destino e riprendere il cammino. Poi la Polizia greca li ha liberati con un mese di tempo per lasciare il paese. Hanno raggiunto Atene, hanno vissuto senza cibo e senza un luogo dove riposare ed è qui che hanno sperimentato sulla loro pelle tutta la violenza delle bande razziste di Alba Dorata, il partito che negli ultimi anni ha preso il largo in Grecia. Sono stai pestati violentemente e molti di loro portano ancora i segni di quelle notti passate all’ombra del Pantheon alla ricerca di un luogo dove ripararsi, prima ancora che dal freddo, dalle ronde dei neo-nazisti.

Ma molto probabilmente le cicatrici delle violenze non sono gli unici segni che si portano dietro. Perché quel passaggio in Grecia potrebbe riportarli indietro. Infatti, secondo il regolamento Dublino, che individua lo Stato competente ad esaminare una domanda d’asilo, non è possibile presentare una nuova richiesta di protezione internazionale in un Paese UE diverso da quello di ingresso. Una vera e propria gabbia imposta ai migranti.
Sulla richiesta, che nelle prossime ore, salvo imprevisti, presenteranno in Questura, dovrà quindi pronunciarsi l’Unità Dublino. Neppure è il caso di ricordare che un eventuale “respingimento” dei richiedenti sarebbe una gravissima violazione dei loro diritti vista anche la copiosa mole di giurisprudenza che evidenzia i rischi causati da eventuali rimpatri in Grecia. E’ di queste ore la notizia di una grossa protesta nei centri ellenici, dove molti migranti si sono cuciti la bocca proprio per la situazione disumana e degrandante che subiscono, definita così da anche dalla Corte Europea dei Diritti Umani ed il Comitato UE per la prevenzione della tortura.

Picchiati dalle ronde di Alba Dorata. Il Regolamento Dublino potrebbe riportarli indietro

Intanto i quindici ragazzi sono qui, ancora una volta a chiedersi che ne sarà di loro, mentre ancora nessuno ha voluto ascoltare la loro storia. Una vita sul crinale tra irregolarità e protezione, come ci ricordano anche i quotidinai locali che, in barba alla Carta di Roma, non smettono di chiamarli all’occorrenza “clandestini”.

Eppure, dopo essere stati liberati da quei vagoni infernali ed essere stati portati in ospedale, ci sarebbe stato tutto il tempo, almeno lo stesso impiegato per scivere quella denuncia, per raccogliere la loro domanda d’asilo.
Una volta usciti dall’opedale invece sono stati trasferiti a Padova dove hanno trascorso la notte.

Ed è qui che si apre un altro capito piuttosto buio ed inquietante di questa storia.
Perché sono stati alloggiati presso la tristemente famosa “Casa a Colori”, un ostello che all’occorrenza, di emergenza in emergenza, diventa la soluzione utile per sfrattati e rifugiati, lo stesso che, tra il 2011 ed il 2012, aveva ospitato circa novanta “profughi” provenienti dal Nordafrica, con un compenso di circa 46 euro giornalieri ricevuto dall’ente per ognuno di loro. Un gruzzoletto di oltre un milione e mezzo di euro messo in cassa sulla pelle dei migranti.

Per tutta la giornata, sollecitati dalla stampa, i responsabili dell’ente gestore hanno negato la presenza dei quindici e negli uffici di via del Commissario sono regnati incertezza e timore che non hanno fatto altro che allungare ulteriori ombre su questa storia. Niente cibo e niente vestiti, nessuna informazione. A che titolo Casa a Colori potrebbe infatti ospitare dei richiedenti asilo? Non si tratta certo di un ente con competenza in materia e neppure risulta essere inserito nei nuovi progetti del Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati recentemente approvati dal Ministero dell’Interno.

Una delle potenziali risposte sta nella circolare che lo stesso Viminale ha diramato negli scorsi mesi. Le indicazioni che contiene assomigliano ad un’edizione leggermente rivista della fallimentare esperienza dell’Emergenza Nordafrica. La nota del Ministero chiede infatti alle Prefetture, saltando ancora il sistema SPRAR e senza prevedere neppure lontanamente gli standard minimi da questo imposti, di individuare, nell’ambito del “privato sociale”, strutture ed enti che possano ospitare richiedenti asilo fuori dai circuiti ufficiali, dietro un compenso di 30 euro giornalieri che, è bene ricordarlo, non finirebbero in nessun caso nelle tasche dei migranti.
Facile immaginare che chi in passato, proprio grazie al business dell’accoglienza, è riuscito a risanare il proprio bilancio, veda in questo nuovo affare una grande occasione di speculazione. Piccolo particolare: la stessa circolare del Ministero evidenzia l’opportunità che i posti individuati non abbiano una capienza media superiore ai 25/50 posti.

Ancora a gonfiare il business sulla pelle dei migranti

Diversamente, ma non siamo certo noi a dover smentire queste ipotesi, c’è da pensare che quella della Casa a Colori sia stata solo una sistemazione temporanea per la scorsa notte, in attesa che le autorità decidano il da farsi, regalandoci il solito spettacolo di scaricabarile, rimpalli, diritti violati e scelte scellerate, a cui in questi anni ci hanno abituato le vicende dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in Italia.

Intanto l’Associazione Razzismo Stop, insieme all’ADL Cobas ed ai movimenti per il diritto alla casa hanno lanciato una mobilitazione con migranti, rifugati e lavoratori della logistica per il prossimo Primo Marzo, un occasione in più per ribadire “la necessità di mettere fine al sistema di accoglienza basato su campi e centri, per costruire un sistema basato sull’ accoglienza diffusa, decentrata e fondata sulla valorizzazione dei percorsi personali, promuovendo esperienze di accoglienza auto-gestionaria e auto-organizzata, anche al fine di evitare il formarsi di monopoli speculativi ed insieme per riaffermare “la necessità dell’immediata abrogazione del Regolamento di Dublino che impone ai migranti di fare richiesta d’asilo nel primo stato membro in cui fanno ingresso, impedendo in tal modo alle persone di portare a compimento il proprio progetto di vita”, così, come sta scritto nella Carta di Lampedusa, la dichiarazione programmatica approvata dai movimenti lo scorso 1 febbraio sull’isola.

E proprio la storia di questi quindici migranti, costretti a percorrere la difficile rotta dei balcani, ci racconta quanto Lampedusa, anche nel lontano Nordest, non sia poi così distante.