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Parigi, 4-5 gennaio 2018 – Il Tribunale Permanente dei Popoli: la Francia e l’Unione Europea condannate per «complicità in crimini contro l’umanità»

La sessione parigina è stata promossa da numerose associazioni che, insieme al Transational Migrant Platform Europe (TMP – E), Transnational Institute (TNI), France Amérique Latine (FAL), il CEDETIM (Centre d’études et d’initiatives de solidarité internationale) e il Crid (Centre de Recherche et d’Information pour le Développement.) ne hanno coordinato l’organizzazione.
L’atto di accusa è stato curato dall’associazione GISTI (Groupe d’information et de soutien aux réfugiés).

La sentenza della giuria del Tribunale, presentata il 7 gennaio 2018 è un duro atto di accusa: la Francia e l’Unione Europea condannate per «complicità in crimini contro l’umanità». In questo articolo di Maïa Courtois su Libération, tradotto di seguito in italiano, si fa un resoconto dell’udienza.
Quella di Parigi è stata la terza sessione, dopo quelle di Barcellona e Palermo, quest’ultima si è svolta dal 18 al 20 dicembre (leggi la sentenza).

– Il dossier di presentazione in francese con le informazioni sulla composizione della giuria e il programma dell’udienza a questo link (.pdf)

– La lettura della sentenza

Parigi, 5 gennaio 2018. Centro Internazionale di Cultura Popolare (CICP).

Testimonianze, sopravvissuti, politici e responsabili di associazioni si sono alternati giovedì e venerdì sul banco dei testimoni del Tribunal permanent des peuples, a Parigi. Il verdetto è stato emesso domenica 7 gennaio al Festival Moussem de l’immigration et de la tricontinentale a Gennevilliers.

Moayed Assaf arriva al banco dei testimoni elegante, camicia bianca e abito nero impeccabili, sguardo cupo. «Proverò a riassumere venticinque anni di migrazioni in dieci minuti», comincia col dire l’uomo, profugo curdo partito dall’Iraq a 17 anni. Intorno a lui, i magistrati, senza toga ma in ascolto attento, in pieno rispetto delle rigorose regole dei tribunali. Gustave Massiah, rappresentante altermondialista, uno degli organizzatori dell’evento, aveva avvisato il pubblico: «Qui non si applaude come in un meeting: è un tribunale!»

Composto da quasi 40 associazioni francesi ed europee, dalla Emmaüs Internazionale ad Attac passando per la Cimade o Migreurop, il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) ha organizzato una sua sessione a Parigi, giovedì e venerdì scorsi. La seduta dà seguito a quelle organizzate a Barcellona, sullo stesso tema, nell’estate del 2016 e a Palermo nel dicembre 2017. Una dimensione internazionale rivendicata già alla fondazione del TPP nel 1979, tredici anni dopo il Tribunale Russell creato per giudicare i crimini compiuti dagli Stati Uniti in Vietnam. Basato sul diritto internazionale, il TPP resta un tribunale d’opinione, il cui obiettivo «non è rendere giustizia, ma dare strumenti a chi non ne ha per potersene occupare», ricorda Mireille Fanon-Mendès-France, presidente della Fondazione Frantz-Fanon e membro della giuria.

«Politica della morte»

«L’impunità è assicurata. Quando ci sono troppi morti e dispersi è come se non ci fossero più dei responsabili. Il Tribunale Permanente dei Popoli cerca di individuarli». È così che il segretario generale del TPP, Gianni Tognoni, apre il processo giovedì, in una piccola sala al piano terra del Centro Internazionale di Cultura Popolare. Nessuno sfarzo: solo muri bianchi e sedie allineate per appena un centinaio di spettatori, inizialmente a disagio. Quando Brid Brennan, dell’Istituto Transnazionale, durante la sua introduzione, qualifica la politica europea come «politica della morte, che ha generato la più grande tomba dell’umanità nell’ Egeo e nel Mediterraneo», alcuni non sono riusciti a trattenere l’applauso. Richiamati all’ordine dal presidente della giuria Philippe Texier, i presenti si sono adeguati alla solennità del contesto. E quando Moayed Assaf denuncia: «Si vive in un mondo nel quale un essere umano vieta ad un altro di circolare liberamente. Con quale diritto? Cos’è che ci ha portati a questo punto?», l’assemblea lascia spazio al silenzio.

«Complicità in crimini contro l’umanità», «violazione dei diritti dei bambini», «limitazioni al diritto all’istruzione e all’accesso all’assistenza».

L’atto d’accusa, 25 pagine fitte redatte dal Gruppo d’Informazione e di Sostegno agli Immigrati (GISTI) è documentato in maniera puntuale.

Il governo francese e l’Unione Europea non hanno mai risposto alle sollecitazioni del Tribunale Permanente dei Popoli per garantire la protezione. A sinistra del testimone ci sono due giuristi di Gisti in funzione di avvocati d’ufficio. Difficile immaginarli contro sé stessi. «È essenziale, e a dire il vero, quando si è lavorato sulle accuse, si sono necessariamente anticipati gli argomenti della controparte», precisa il professore di diritto Jean Matringe, che ha saputo solo la mattina stessa di dover sostituire un collega per garantire la parte della difesa all’Unione Europea, sostenendo l’argomentazione per la quale «l’Unione Europea non è che una emanazione: sono gli Stati membri a decidere le proprie politiche migratorie». Convinto che il diritto internazionale presenti lacune, ha ricordato che «solo gli Stati hanno il potere di cambiarlo. Ed è il diritto stesso ad essere sotto processo oggi».

«Violati testi internazionali»

Dal suo canto, alla giovane «avvocatessa del governo francese» Claire Bruggiamosca piace dire «il mio assistito Gérard Collomb». Si avvertono risate nervose. Il contesto richiamato nelle ultime direttive del Ministro degli Interni, che vogliono mettere in discussione i principi storici dell’accoglienza emergenziale, cala sulla seduta. Il magistrato Philippe Texier, che ha lavorato per le Nazioni Unite per più di venticinque anni, vi attinge il senso del tribunale: «Ci sono cose ingiustificabili. I manganelli, le tende strappate mentre la gente si ripara dal freddo, non si giustificano. Il ministro si spinge oltre molti dei suoi predecessori». Quindi il presidente della giuria riprende la parola e chiama al banco un nuovo testimone.

Si tratta di un testimone d’eccezione: Damien Carême, il sindaco di Grande-Synthe (Nord): «ho dovuto far fronte alle carenze statali, e sin dall’inizio mi hanno ostacolato. Non sopportavo più di vedere delle persone vivere in quelle condizioni nella mia città. Questa responsabilità non è la mia ma dello Stato. Ma né Medici Senza Frontiere né io siamo stati rimborsati dal governo per le spese sostenute nella costruzione del campo di Grande-Synthe». Il deputato ecologista crede al beneficio derivante dal Tribunale: «Mancano competenze su queste questioni. Emerge bene anche dall’atto di accusa: ci sono testi internazionali di riferimento inequivocabili, ed è innegabile che sono stati violati».

Alla pausa pranzo, tutta la cerimoniosità del tribunale si dissolve. Accusa, difesa, giurati e pubblico si spartiscono piatti di hummus, e si passano pane azzimo e falafel. Al buffet libanese e alla macchina del caffè, l’atmosfera è distesa. Jean Matringe riceve sorrisi e complimenti: «Ne ha di coraggio!» E lui ironizza: «ho come l’impressione che qui tutti siano coalizzati contro di noi…» e butta lì un: «Sembra che alcuni dicano “quello lì comincia a prendere il suo ruolo un po’ troppo sul serio”!»

Annegamento di gruppo

L’udienza riprende e la sala è sempre affollata, una quindicina di persone restano in piedi ammassate all’ingresso. Viene proiettato un video sul muro alle spalle del pubblico. Sullo sfondo di un cielo blu, sul margine di una città distesa all’orizzonte, compare il volto di un giovane. Rivolto alla telecamera, che alterna maldestramente primi piani a riprese panoramiche (l’anonimato è preservato), racconta dell’annegamento provocato dagli uomini della Guardia Civil spagnola. «Degli otto amici che eravamo, quattro sono morti e due sono dispersi. Volevo andare a cercare i loro corpi sui fondali ma le guardie me lo hanno impedito». L’espressione sulle facce del pubblico è cupa, i sorrisi della pausa pranzo si sono cancellati. «Dopo quaranta minuti, un gran silenzio» prosegue a dire il giovane, «solo il rumore delle onde. Si parlò di decine di vecchi abiti distesi sulla superficie dell’acqua».

Il secondo giorno, venerdì, è Loveth Aibangbee a parlare più duramente: «quando è troppo è troppo». È venuta a testimoniare sulla tratta per sfruttamento sessuale delle donne nigeriane. Ognuna delle sue frasi viene tradotta da una volontaria della Amis du bus des femmes (Amici del bus delle donne), un’associazione fondata da e per le prostitute. Ha 30 anni esatti e la determinazione di una leader. Sbriga in due frasi il racconto della sua storia sulla strada, iniziata con il suo arrivo in Francia 7 anni fa: «Ho avuto due clienti che volevano uccidermi, ho rischiato di morire. Ho chiamato la polizia, mi hanno risposto “perché chiama? Lei non ha i documenti”».
Loveth Aibangbee vuole parlare soprattutto delle altre, delle donne che la circondano. «A causa della crisi nigeriana e libica, il numero delle vittime aumenta. Ci sono molte minorenni, ragazze di 12-15 anni.» E accusa: «La Francia ha la sua parte di responsabilità. Senza visto, i trafficanti restano la sola possibilità per viaggiare. E qui, le nigeriane si ritrovano costrette a lavorare sulla strada per pagare i loro debiti, decine di migliaia di euro alle dilaganti organizzazioni criminali in Francia.»
Françoise Carrasse, della Coalition International des sans-papiers et des migrants (Coalizione Internazionale degli irregolari e dei migranti), riassume in maniera lapidaria: «per i migranti, la Francia è uno Stato di non-diritto».

«Condanna morale»

Venerdì la sala è elettrizzata da un altro testimone: Cédric Herrou, agricoltore diventato, suo malgrado, il simbolo dei cittadini perseguitati a livello giudiziario per aver dato aiuto ai profughi. È il solo a non restare seduto davanti alla giuria, preferendo voltarsi verso il pubblico. «A poco a poco mi sono circondato di associazioni, avvocati, e ho imparato il diritto. Mi sono reso conto che ciò che facevo non era illegale e che invece lo Stato non stava rispettando sempre la legge. Si sono fatte delle riunioni per spiegarlo ai poliziotti della valle di Roya.»
Cédric Herrou, occhiali tondi e camicia rossa con le maniche rimboccate, evoca Martine Landry, volontaria di Amnesty International giudicata lunedì, a 73 anni: «la giustizia è diventata il braccio armato del Governo. La prima volta che sono stato fermato con otto persone nella mia auto, di cui una non seduta, il Tribunale mi rilasciato per immunità umanitaria. E il procuratore mi chiese: “Ma perché non ha preso un’ auto più grande?”» In sala si ride. «Vi giuro che è vero. Invece ad ottobre, Raphaël, 19 anni, ha avuto 3 mesi di condizionale per aver fatto 5 km in macchina. Per dire come sono cambiate le cose…»

Cédric Herrou è stato l’ultimo testimone. La sentenza, pronunciata domenica al festival Moussem di Gennevilliers (Alta Senna) da Philippe Texier, conferma la complicità in crimini contro l’umanità: «Il TPP ritiene che esistano motivi ragionevoli per pronunciarsi in tal senso nei confronti dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri, tra cui la Francia», il Tribunale raccomanda la «revisione immediata di tutti gli accordi stipulati tra UE e Paesi terzi» per esternalizzare le frontiere. E ancora, la ratifica da parte degli Stati membri della convenzione del 1999 sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti, di cui nessuno è firmatario. «Quello che manca è una giurisdizione con potere coercitivo» spiega il magistrato, «una corte costituzionale internazionale, per esempio, potrebbe intervenire su certe legislature. Oggi, le istanze esistenti hanno soltanto un potere di condanna morale». Come questa sessione di TPP, ormai chiusa. Cédric Herrou condivide l’amarezza: «Siamo qui per ricreare una giustizia… è grave arrivare a tanto, è un colpo allo stomaco».

Redazione

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