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Pisa – La vita dei rifugiati al centro di via Pietrasantina, tra rinunce e conquiste

di Chiara Puglisi

Erano in 22 al centro di accoglienza profughi di Via Pietrasantina diretto dalla Croce Rossa. Ora sono rimasti in 10 e stanno autogestendo la struttura.
Il 31 dicembre 2012 il centro avrebbe dovuto chiudere, in concomitanza con la fine del progetto Emergenza Nord Africa, ma il termine è stato prorogato al 28 febbraio. E’ in quella data che operatori della Croce Rossa sono venuti a smantellare il tutto, intimando agli ospiti di andarsene. Ma loro hanno scelto di rimanere.

Il manuale SPRAR di riferimento per l’attivazione e la gestione di servizi di accoglienza e integrazione per richiedenti asilo e titolari di protezione umanitaria, prevede come obiettivi principali di garantire misure di assistenza e protezione della singola persona e favorirne il percorso verso la riconquista della propria autonomia; si parla di empowerment come processo di recupero delle proprie capacità di scelta, potenzialità e opportunità, e di accoglienza “integrata”. I servizi garantiti nei progetti territoriali sono assistenza sanitaria e sociale, attività multiculturali, mediazione linguistica ed interculturale, orientamento e informazione legale, alloggio, inserimento lavorativo e corsi di formazione.

Ma anche a Pisa come nella grande maggiornanza dei progetti legati al Piano dell’Emergenza Nordafrica, tutte queste attività sono rimasti soltanto buoni propositi e gli accolti sono stati beneficiari passivi dei pochi interventi predisposti in loro favore.
Così, quando lo scorso 28 febbraio la Croce Rossa è arrivata minacciandoli di non corrispondere i 500 euro di “buona uscita” (a cui hanno diritto) se non avessero lasciato il campo entro la mezzanotte, i rifugiati hanno scelto di restare.

Alla fine, a seguito di proteste e pressioni, in un clima non poco teso, sono arrivate le prime conquiste: i ragazzi hanno ottenuto i 500 euro, la possibilità di restare nel centro e l’attivazione di otto tirocini su dieci per sei mesi. Dei rimanenti, sette sono andati via e cinque hanno ricevuto alloggio e tirocinio dalla Croce Rossa.

Le cose stanno andando meglio a detta dei volontari e delle associazioni Rebeldia e Africa Insieme che per risolvere la situazione stanno facendo molto. Non solo dal punto di vista dei rapporti con le istituzioni – è infatti grazie a loro che a seguito del presidio davanti al Comune del 6 marzo e della successiva riunione con Provincia, Comune e Centro Nord-Sud sono state raggiunte le conquiste dette – ma anche per quanto riguarda il concreto percorso di integrazione sociale di cui si sarebbero dovuti occupare gli operatori. “Il nostro obiettivo è diventare inutili per loro” dice Fabio, volontario, facendo riferimento al concetto di riconquista dell’autonomia di cui parla la guida operativa all’accoglienza. Ad opera dei volontari sono stati realizzati anche dei laboratori all’interno del centro, tra cui la scuola di italiano, inglese ed arabo, la lavorazione dell’argilla e l’orto.

“Qui le cose non andavano bene, non ci davano modo di fare niente. Io volevo iscrivermi all’Università, ma nessuno degli operatori mi ha aiutato. Poi ho incontrato i volontari della scuola di italiano e sono stati loro a tendermi la mano”. Sono le parole di Mohamed, 21 anni, originario del Ciad ma nato e cresciuto in Libia, costretto a scappare a causa della guerra civile. “Prima stavo bene nel mio Paese, studiavo e lavoravo. Poi con la guerra è cambiato tutto. Era pericoloso anche uscire la sera, potevano spararti come se niente fosse. Tutti hanno le armi, anche donne e bambini” racconta Mohamed. Così arriva per lui e per tanti altri il tempo di andarsene, la situazione è troppo critica, si rischia la vita in ogni momento. “Al mare ci sono i soldati, puoi dire loro che vuoi partire ma ti chiedono tanti soldi e si prendono tutto quello che hai. Poi devi aspettare, io ho aspettato due giorni ma può volerci anche molto di più”. Conosciamo le condizioni in cui viaggiano queste persone, tante non arrivano a destinazione, ma lui ce l’ha fatta. “A Lampedusa ci hanno dato cibo, vestiti e una ricarica telefonica per chiamare la famiglia. Da lì ci hanno mandato nei vari centri di accoglienza in tutta Italia; io sono arrivato a Pisa il giorno successivo”. Ora Mohamed, dopo due anni dal suo arrivo, si è iscritto all’Università, ha ottenuto una borsa di studio e un alloggio, ma trascorre sempre molto tempo con gli altri ragazzi al centro.

Chi è rimasto lì vive in condizioni a dir poco inadeguate: lo stesso centro è uno spazio che la Croce Rossa utilizza come discarica, ci sono solo due docce funzionanti e le tubazioni perdono. Non ci sono acqua calda, riscaldamento e gas. I ragazzi usano un tostapane per cucinare e riscaldare le stanze, mentre per dormire hanno recuperato dei vecchi materassini di gomma piuma.

Anche nel resto d’Italia le cose non sono andate come ci si aspettava, considerando che sono stati spesi un miliardo e trecento milioni di euro per finanziare il progetto di accoglienza e che anche a Bologna, Padova, Torino e Firenze i centri sono autogestiti a causa della mala gestione delle istituzioni.
Attualmente dei dieci ragazzi di Via Pietrasantina tre stanno ancora aspettando di essere sentiti dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale; gli altri l’hanno ottenuta per un anno.

“L’unico bel momento che ho vissuto in Italia è stato quando mi hanno tirato fuori dall’acqua”. È la voce di Alì, 25 anni, che ricorda il suo sbarco a Lampedusa. Speriamo che questo paese si accorga un giorno che dopo aver salvato dalle onde del mare chi fugge dalla guerra, occorre anche non abbandonarlo.

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