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Polli, fragole, pomodori e i nuovi eserciti industriali di riserva

Grecia e Italia – Armi automatiche, coltelli, gas urticanti e 1 595 115 euro nascosti in una cassaforte murata. Questo hanno sequestrato, la settimana passata, gli agenti delle forze speciali elleniche in un’azienda produttrice di pollame tra le maculate campagne di Chalandrista, regione dell’Acaia. Due persone sono state arrestate: un’imprenditore greco e un caporale rumeno ora accusati di organizzazione per delinquere finalizzata al traffico di esseri umani.

Dalla fattoria sono stati liberati nove lavoratori migranti, tutti cittadini rumeni, detenuti in un regime che gli inquirenti non hanno esitato a definire di schiavitù. Una volta attirati con la promessa di regolare impiego, i malcapitati erano stati reclusi e costretti a orari di lavoro massacranti alle cui misere paghe si aggiungevano violenze ed intimidazioni.

Il viaggio dalla Romania al Peloponneso è lungo, forse un’odissea per chi non batte le tratte del turismo e del capitale internazionali. Sebbene la Romania sia membro dell’Unione Europea dal 2007, è solo nel gennaio 2014 che entra nell’area Schengen. Verrebbe da chiedersi come mai, per sette anni, le potenze economiche europee abbiano mantenuto strette regole frontaliere nei confronti di un membro della famiglia di stati più pacifica al mondo.

Una risposta, sempre il solito malpensante, potrebbe trovarla a Chalandritsa, dove l’associazione criminale appena smantellata da anni sfruttava manodopera migrante a basso o nullo costo: sans-papiers o persone il cui soggiorno era legato al posto di lavoro. Ma speculazioni di questo tipo i giornali ellenici hanno preferito evitarle, vertendo sul sensazionalismo delle immagini e sulla pura notiziabilità: povertà degli alloggi, arsenali d’armi e pile di cartamoneta.

A leggere i quotidiani regionali, infatti, poco si capisce del quadro generale. Del resto anche l’informazione vuole la sua parte e se la prende, con discreto successo di audience, relegando a ritagli di cronaca nera argomenti che necessiterebbero analisi più approfondite. I fatti di Chalandritsa sono stati così liquidati da titoli prevedibili (“La schiavitù moderna ancora esiste”) e accattivanti scatti fotografici. Quasi nessuno ha invece pensato di citare la storia dei raccoglitori di Nea Manolada, località vicina dove da tempo si concentrano investimenti milionari nella produzione industriale della fragola.

Qui la mattina del 17 aprile 2013 circa duecento lavoratori migranti, per la maggior parte provenienti da Bangladesh e Pakistan, decisero di chiedere conto ai padroni di sei mesi d’arretrati e delle pessime condizioni di lavoro. Dopo un tafferuglio dalle dinamiche ancora imprecisate, tre supervisori greci aprirono il fuoco sulla folla ferendo severamente trentacinque scioperanti disarmati.

La sparatoria fu però l’apice di una storia violenta cominciata anni prima e di fatto ancora incompiuta. In questo racconto della marginalità si legge di nuovi schiavi nel mercato globale, scioperi disperati di lavoratori senza cittadinanza (quindi senza diritti), ma anche delle violenze di polizia e poteri giudiziari. Come quando, l’anno scorso, dopo indagini sbrigative e duramente criticate, la corte locale di Patras ha rilasciato i fucilieri e dichiarato non perseguibile il proprietario della piantagione di Nea Manolada.

Nella Fortezza non si condividono solamente poteri e mercati. Vi sono anche zone d’ombra nelle quali sopravvivono e lavorano i migranti cosiddetti irregolari. Dovremmo così guardare ai fatti di Chalandritsa e alle lotte dei raccoglitori di fragole del Peoloponneso con gli occhi di chi sa, almeno un poco, dello sfruttamento dietro casa.

È uno studio necessario poiché una parte della produzione agricola destinata alla grande distribuzione si basa, anche in Italia, sul lavoro massacrante di migranti e sans-papiers, sui bastoni dei proprietari e sui carri dei caporali. Ma anche, ed è importante ricordarlo, sulle attività di multinazionali come Coca-Cola, che a Rosarno costruiva la competitività di mercato a scapito degli ultimi nella filiera produttiva.

Ma quante sono le Rosarno d’Italia? Il lavoro nero dei migranti disegna una mappa puntiforme che si estende sino in Puglia, Campania, Basilicata e Sicilia. I prodotti di questa cartografia dello sfruttamento stanno tutti in un cesto di frutta e verdura: le patate di Cassabile, le angurie di Nardò, i pomodori delle campagne napoletane e lucane (il cui concentrato raggiunge il Ghana distruggendo le economie locali) e via dicendo.

Marx chiamava la sua epoca “il mondo stregato, distorto e capovolto in cui Monsieur le Capital e Madame la Terre conducono la loro fantasmagorica esistenza” sotto forma di cose e rapporti sociali. Quasi due secoli dopo, questa sorta di anatema non pare cambiato: nonostante i saperi antagonisti si siano moltiplicati, ancora troppo poco (a volte nulla) sappiamo di come viene prodotta e spostata l’immane raccolta di merci che ci circonda.

È tristemente semplice, al contrario, capire come l’irregolarità dei sans-papiers e l’inclusione differenziale dei migranti possano trasformarsi in fonti del profitto. Sulla loro pelle si delinea infatti una particolare economia delle migrazioni: dal lavoro nei campi alla detenzione amministrativa; dalle tasse sui permessi di soggiorno alla ricattabilità dei cittadini a tempo determinato. Con buona pace di chi crede nel capitale umano, siamo qui di fronte a forza-lavoro e rinnovati eserciti industriali di riserva.

Links Utili:
clandestinenglish.wordpress.com (Reportage indipendente da Nea Manolada)
Reportage fotografico Manolada di Piet den Blanken, fotoreporter
archivio.internazionale.it (articolo di Andrew Wasley su The Ecologist tradotto da Internazionale)
archivio.internazionale.it/webdoc/tomato (The Dark Side of the Italian Tomato, webdoc di Mathilde Auvillain e Stefano Liberti)