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Pontida per noi: riflessioni da Napoli su una giornata storica

Photo credit: Luca Zanon (Awakening)

Perché Pontida

Certo, organizzare un Festival antirazzista e meridionalista che ha coinvolto più di 5000 persone nella storica roccaforte della più forte e minacciosa formazione nazionalista, xenofoba e parafascista del paese è un fatto che non ha precedenti. È un evento come sarebbe un evento un gay pride in Piazza San Pietro, per intenderci. Questo non solo perché il piano simbolico, in politica, ha un suo incommensurabile valore ma perché concretamente e in poche ore è stato in grado di mettere in crisi una narrazione decennale.

Photo credit: Luca Zanon (Awakening)
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L’idea della “calata” terrona su Pontida in questo senso non nasce come una trovata estemporanea. Non è dall’oggi al domani che prende vita un evento capace di coinvolgere circa cinquanta tra scrittori, narratori, poeti, musicisti, cantanti, artisti, quasi 100 realtà di base di tutto il paese e poco sotto le diecimila persone convenute sul sacro pratone della Lega.
Pontida ha un’origine specifica anzi, per la precisione, ne ha due.

La prima è quella più a breve termine e forse più visibile, vale a dire il tentativo di costruire una reazione forte, di pancia ma intelligente, all’osceno dibattito mainstream che ha seguito la giornata napoletana dell’undici marzo, quando migliaia di persone si sono opposte alla kermesse di Salvini imposta dal Ministero degli Interni ad una città, sostanzialmente, commissariata a favore della Lega Nord. Quella giornata, produsse, tra gli strascichi più odiosi un dibattito surreale che aveva al centro il tema della libertà di espressione.

La libertà di Salvini all’attacco lamentoso della città che aveva resistito con ogni mezzo necessario al suo comizio xenofobo e criminale, contro quella di quanti sostenevano (e sostengono) che la libertà di espressione non sia una categoria neutrale, all’interno della quale possono convivere tutte le opinioni possibili, ma bensì un preciso dispositivo costituzionale, nato cioè sulle macerie della seconda guerra mondiale e sui sacrifici della Resistenza. In questo caso la libertà di espressione non è la libertà di propaganda xenofoba, omofoba, chiaramente razzista, pericolosamente revisionista e senza alcuna remora a fare proprie le peggiori istanze di ricostruzione del fascismo del paese (l’alleanza strategica che esiste tra la Lega e Casapound praticamente su ogni territorio è un esempio più che sufficiente di questa dinamica). A queste persone moltissimi- praticamente all’unisono tutti i media main stream- rispondevano, ripetendo una sorta di mantra legalitario ottuso, che invece la libertà di espressione è anche la libertà dei razzisti di parlare in luoghi pubblici, con una confusa copertura ideologica che arrivava a convocare Voltaire nei panni di Maria de Filippi.

All’interno di questo dibattito artificiale, colpevole di costruire una comoda alcova al razzismo innalzato ad opinione legittima, andare a Pontida ci è sembrata una risposta precisa, dura e incontrovertibile: se è vero che non è lecito che i razzisti si esprimano in nessun luogo e in nessun contesto, è invece lecito che gli antirazzisti parlino in qualunque luogo, persino nel più leggendario dei feudi leghisti.

Photo credit: Luca Zanon (Awakening)
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Accanto alla storia breve c’è una storia più lunga, che non ha a che fare solo con Salvini a Napoli ma con la capacità delle tante realtà di movimento presenti sul pratone di Pontida di leggere la fase, il presente, la congiuntura storica che vede un pericoloso e apparentemente irrefrenabile rafforzamento delle destre xenofobe in tutta Europa.

Che cosa rappresenta Salvini infatti in questo contesto storico? Un fenomeno di folklore che bisogna “ignorare” perché a parlarne “si fa il suo gioco” tanto che le manifestazioni contro il leghismo sono “un boomerang”, “un regalo”, “un favore” o addirittura “fuori dalla storia”? Chi lo dice o è in malafede o è stupido (non è escluso che i due fenomeni si presentino in abbinamento). Chi lo dice, cioè, ignora o finge di ignorare lo spazio politico nel quale ci muoviamo. Uno spazio politico in cui un personaggio psicotico e antisociale come Trump diventa il presidente del più grande paese dell’Occidente. Uno spazio politico in cui Marine Lepen, la donna che un mese fa elogiava gli stupri delle forze dell’ordine ai danni di un ragazzo della periferia di Parigi, conquista il ballottaggio della Francia. Lo spazio politico in cui il Partito della Libertà Austriaco continua a guadagnare consensi, passando dal 10% del 2002 ad oltre il 20% di dicembre 2016.

La recrudescenza delle destre non è un fenomeno di colore, non è qualcosa di passeggero che lascia il tempo che trova e che muore da sé se viene ignorata. È lo spazio politico nel quale siamo immersi: uno spazio politico in cui si radicalizza il discorso pubblico, contro ogni forza politica moderata perché percepita come attrice della governance della crisi, e in cui – se sono assenti opzioni rivoluzionarie di ricomposizione di classe – la reazione nazionalista diventa un’opzione maggioritaria, di governo.

Evidentemente questo scenario politico ha come principali responsabili le forze centriste che hanno dissanguato i popoli d’Europa nel nome di diktat finanziari sempre meno preoccupati di rispettare qualsiasi, blando perimetro di tollerabilità democratica. Il risultato elettorale francese ci racconta questo: l’annichilimento delle forze storicamente maggioritarie e l’affermazione di forze politiche percepite contro l’establishment. Dire questo, però, così come dire che la gestione della crisi economica è stata caratterizzata da assoluta continuità nel grande arco delle larghe intese di centrodestra e centrosinistra, non significa dire che l’affermazione delle destre eversive non sia un tema.

Photo credit: Luca Zanon (Awakening)
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Non siamo mai stati fautori del “tanto peggio, tanto meglio”; non ci entusiasmano le cavalcate reazionarie e tiranniche perché in esse sarebbero maggiori le chance dell’insurrezione, né siamo abituati a guardare la storia passare davanti ai nostri occhi mentre zolliamo il nostro orto urbano sociale. Anzi. Proprio perché il tracollo delle forze di centro è sempre più un dato di fatto e non un’ipotesi, i blocchi di estrema destra rappresentano oggi il nostro nemico principale, perché sono quelli più capaci – nel caos della crisi sistemica – di diventare attrattori di consenso. Di qui ad un anno Salvini potrà realisticamente essere il candidato di una coalizione di destra che ritorna in pompa magna sulla scena pubblica dopo gli anni di afasia dovuti al disastro berlusconiano. Questo è il suo progetto. All’interno di questo progetto, però, noi individuiamo una falla, la falla che ci ha portati dritti a Pontida.

Dentro la falla, contro la Lega

Salvini suo malgrado non parte da una formazione politica latamente nazionalista, come il Front National della Lepen. La sua scalata deve fare i conti con la storia spuria della Lega Nord, che nasce come partito a vocazione federalista e regionalista, non solo disinteressato ai destini della nazione, ma anzi addirittura fondato sulle pretese di autonomia economica e politica della Padania contro gli arraffoni del Sud e contro Roma Ladrona.

Nel tentativo di riciclare il partito per riconsegnarlo ad un ambizione nazionale di governo Salvini – approfittando dell’azzeramento della classe politica del Carroccio dovuto agli scandali sul finanziamento pubblico ai partiti che fotografano chiaramente l’esistenza di una “Lega Ladrona” contro ogni preteso purismo giustizialista – sta tentando un gioco di prestigio. Spostare l’odio di cui si nutre la sua formazione politica dal meridione d’Italia ai migranti. Questo è ormai il biglietto da visita della Lega Nord per il grande pubblico della televisione (questo investimento è tanto prioritario per Salvini, da far sì che egli vinca di gran lunga il primato di politico in assoluto più presente nei salotti televisivi). Quest’operazione simbolica, però, non fa i conti con la natura storica della Lega Nord, quella che non si misura tanto nelle grandi metropoli produttive del Nord Italia, ma invece nella sterminata rete di piccoli centri urbani o agglomerati rurali o di dismissione industriale della Lombardia, del Veneto, del Piemonte.

Una rete di territori che nell’incapacità di trovare formazioni di sinistra che se ne intestassero la sofferenza sociale e l’impoverimento diffuso, hanno trovato nelle pretese secessioniste una ragione d’essere. Non è un caso che il primo a parlare dopo l’11 marzo, dopo anni di silenzio, sia il Senatùr. Umberto Bossi in persona (che per la base della Lega rappresenta ancora il padre putativo) è uscito dal silenzio e ha rimproverato Salvini a mezzo stampa per il fallimento della breccia su Napoli.

Non è un caso che proprio il 22 aprile, a poche ore dalla festa antirazzista, Castelli, il “guardasigilli” riesumato dalla Seconda Repubblica, rilasci una conferenza stampa dal “Sacro suolo” di Pontida, il prato della storica kermesse, per parlare di quanto si è rammollito il partito e di quanto abbia bisogno di pochi uomini valorosi, che lo restituiscano ai fasti della prima ora, quando i meridionali non erano interlocutori e la Lega era innanzitutto Lega Lombarda. Non è un caso soprattutto che invece proprio Salvini sulla manifestazione di Pontida non abbia potuto dire una parola, perché qualsiasi cosa avesse detto, soprattutto a ridosso del congresso, gli avrebbe fatto perdere consensi. O al Nord, o nel resto del paese.

Per molto tempo (e ancora adesso) Salvini ha provato a nascondere sotto al tappeto questa contraddizione, proponendosi come il leader carismatico che rottamava il vecchio e preparava il nuovo. La giornata dell’orgoglio migrante e terrone l’ha fatta esplodere drammaticamente e oggi, vediamo con non poca soddisfazione, che i vertici del Carroccio stanno ancora provando a raccogliere i cocci per riportare le lancette al 21 di Aprile.

Photo credit: Luca Zanon (Awakening)
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La “terronitudine”: dall’orgoglio negro all’orgoglio terrone

In questo contesto il discorso meridionalista diventa oggi un discorso centrale. Esso rappresenta infatti l’anello che non tiene all’interno delle retoriche dell’unità nazionale, sbandierate tanto dal renzismo delle convergenze al centro e del governo con Alfano, quanto da Salvini in funzione sovranista e xenofoba. Un discorso che però non ha nulla hanno a che fare con un’idea liturgica e passatista delle stesse istanze del meridione, ma che invece assume una prospettiva materialista e post-coloniale e la applica alle istanze complesse che muovono i nostri territori. Non è un caso che a Pontida terroni del Nord e del Sud condividevano innanzitutto la propria condizione subalterna, nelle differenze, e che all’uso del termine non sia legato alcuno ius sanguinis primordiale. Che le centinaia di persone provenienti dal Veneto per prendere parte alla giornata si siano definite “Terrone del Nord”, individuando nella loro storia di saccheggio del territorio e devastazione ambientale le stesse pratiche di dominio (e le stesse occasioni di resistenza) sperimentate nel meridione d’Italia, non è affatto un dato superficiale.

Questo è il motivo per cui per l’occasione abbiamo scelto di utilizzare-rovesciandolo proprio il termine “terrone”, esattamente come facevano con la parola “negro” gli attivisti, gli scrittori e i narratori dei processi di decolonizzazione che prendevano piede nelle colonie francesi dell’Africa. Orgoglio negro/terrone quindi, contro la sua etichetta razzializzante per ribaltare il discorso del potere senza però fare riferimento ad una sorta di realtà primigenia, originaria, precedente il potere: dicendo negro/terrone si dice invece che quel potere esiste, è esistito, ha prodotto immaginario, lingua e quell’immaginario e quella lingua vanno utilizzate e fatte esplodere contro il potere stesso. Parole come bombe, diceva Foucault nella postfazione all’Archeologia del sapere.

Chi ha visto nella rivendicazione di identità terrona una sorta di poco felice scelta folkloristica non ha sul serio capito il punto della questione. In quelle critiche si riproduce il tic malato accademico-coloniale per cui le soggettività non riconosciute come propriamente storiche (cioè appartenenti alla grande Storia dello Spirito) sono bollate come primitive, rudimentali, indistinguibili dal fondo stesso della natura bruta e selvaggia. Quando si dice che i terroni sbagliano a chiamarsi terroni, che dovrebbero piuttosto chiamare se stessi operai o lavoratori o disoccupati (o peggio italiani) si dice implicitamente che i subalterni non possono rappresentarsi all’interno della loro storia se non a partire da griglie precostituite, dalle quali sono esclusi a priori. Lo scandalo accompagnato dalla scelta di definirci terroni deriva invece esattamente dalla potenza singolare che preme sull’ordine del discorso. I terroni non possono prendere parola. Se lo fanno, devono farlo in regimi di senso che ne autorizzano il discorso: la macchietta, il folklore, lo spettacolo.

Per questa ragione si può definire – come ha fatto Il Mattino – “trash” il festival di Pontida, nonostante si siano esibite su quel palco le più raffinate, sperimentali e ricche esperienze artistiche di Napoli e non solo. Gli organi di stampa devono provare a ricacciare l’identità terrona all’interno di un orizzonte di senso addomesticato. Con segni invertiti, è la stessa lettura superficiale che si propone della Pontida della Lega, fatta di rituali ridicoli, corna celtiche e scorpacciate di polenta. Ma Pontida per i meridionali non è mai stato questo: al di sotto delle sue manifestazioni più grottesche, Pontida per noi nati e cresciuti nel mezzo dei trent’anni di offese e teorie razzializzanti nei confronti della nostra gente e della nostra terra, è il luogo che ha nascosto, sotto le pagliacciate di facciata, gli “Stati Generali della distruzione scientifica del meridione in termini economici e sociali“.

Photo credit: Luca Zanon (Awakening)
Photo credit: Luca Zanon (Awakening)

Pontida, oltre le corna e le offese, è il posto in cui una parte della classe dirigente di questo palese, vestita con orribili camice Verdi e decorata da estrosi accessori, sedeva poi in realtà ai tavoli dei grandi interessi e del potere, decidendo scientemente che ai colerosi del mezzogiorno dovesse essere tolta pure l’aria per respirare, e che della loro terra andava fatta solo devastazione e saccheggio. E gli stereotipi che ci cucivano addosso erano funzionali solo ad agire indisturbati. Questo è stato il ruolo storico della Lega, che ora osa addirittura proporsi come partito del nuovo, “dimenticando” di essere stata per anni una spietata forza di governo. Gamba destra del governo Berlusconi, pronta a battere cassa per il proprio elettorato e, soprattutto, per i grandi gruppi di pressione industriale che rappresentava, la Lega è stato il partito che non ha esitato a imporre al nostro territorio le discariche e gli inceneritori con i quali la nostra gente è stata ammazzata in nome del profitto. La partita che ancora oggi ci stiamo giocando è questa, anche se a fasi alterne viene raccontata come una gara tra tradizioni enogastronomiche differenti.

Rilanciare: confederalismo terrone, orgoglio antirazzista

Il successo del 22 aprile dimostra che la nostra intuizione era giusta: esiste in questo paese una disponibilità a ragionare di meridionalismo, antirazzismo, autonomia dei territori, rivendicazione di dignità per la storia della propria terra che non passa per le frontiere fisiche e simboliche della cittadinanza, ma che sa tenere insieme identità progressiva, radicamento e inclusione sociale, solidarietà.

La piazza di Pontida, i cinquemila sul Pratone dimostrano innanzitutto che quando si toccano le corde giuste il grido di riscatto non si fa attendere e che il futuro europeo che sembra ineluttabilmente destinato a farsi scrivere da mani neofasciste in realtà può essere ancora, del tutto, sovvertito, scarabocchiato e riscritto.
La giustezza di questa intuizione serve a rimetterci in cammino sapendo che la nostra battaglia è la battaglia di tanti e tante altre.

All’interno di una battaglia un colpo inferto è un buon colpo, ma da solo non basta.
La giornata del 22, però, è stata una boccata d’ossigeno che i centri sociali meritavano in un paese in cui l’asfissia del dibattito pubblico ogni tanto dà l’idea che tutto quello che si può fare è sperare che lo zapping ci dia ragione: la rivoluzione non sarà teletrasmessa, certo, ma se è vero questo figuriamoci quanto spazio avrà nel palinsesto l’opinionismo di chi ha già scelto di non fare nulla, ma guardare dalla finestra per aspettare che chi è in movimento sbagli.

Il lusso dell’attesa è l’unico lusso che non ci concediamo: siamo il cammino, dobbiamo proseguire.

Ci aspetta Taormina, il G7, la prima visita di Trump in Italia e tante altre infinite tappe del viaggio dei Terroni Uniti nei luoghi dove sorgono muri, frontiere ed esclusione!

Insurgencia