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da il manifesto del 23 agosto 2007

Processo ai pescatori tunisini, respinti tutti i testi della difesa

di Cinzia Gubbini
Non sono stati ammessi a testimoniare nè la dottoressa di Medici senza Frontiere, nè il console tunisino. Entrambi sono rimasti seduti sui banchi del Tribunale di Agrigento, ma non hanno potuto raccontare quello che sanno sul salvataggio – così almeno sostengono gli imputati – di 43 persone avvenuto in acque internazionali l’8 agosto scorso. Per aver portato quei migranti – di nazionalità etiope, eritrea, sudanese e qualche maghrebino – sull’isola di Lampedusa sono sotto processo sette pescatori tunisini. Il reato contestato è pesante: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a fini di lucro. Rischiano fino a 15 anni di carcere. Loro, da quando sono attraccati al porto dell’isola italiana, si dichiarano innocenti: dicono di aver salvato quelle persone quando erano più vicini alle coste italiane.
Ieri la prima udienza del processo per direttissima. E subito il clima non è sembrato favorevole a voler analizzare con rigore quanto accaduto quel giorno. Il collegio della difesa, costituito dagli avvocati Leonardo Marino e Giacomo La Russa, ha prodotto diversi documenti che servono a provare la loro linea difensiva: e cioè che, prima di tutto, c’è stato un salvataggio. Salvataggio di persone in cattive condizioni di salute, come dimostrerebbe il fatto che una volta attraccati al porto di Lampedusa quattro di loro – tra cui un bambino poliomelitico e due donne incinte – sono stati trasportati con l’elisoccorso all’ospedale di Palermo. Proprio per questo, i legali avevano stilato una lista di testimoni molto lunga: 26 persone. Solo due uomini che si trovavano sul gommone in avaria (citati anche dal pm) sono stati ammessi dal giudice Antonia Sabbatino. Lo stesso giudice che, fatalità, presiede anche il processo contro il comandante e l’ammiraglio della nave umanitaria Cap Anamur, che due anni fa fece scandalo per aver salvato 37 immigrati in mare e per averli trasportati in Italia. La storia dei sette pescatori tunisini è molto simile.
Come in quel caso, anche i pescatori tunisini sono sospettati di non aver salvato nessuno, e oltretutto di aver disatteso l’ordine italiano: non entrare nelle acque nazionali. Le autorità italiane hanno potuto esplicitare sin nei particolari la loro posizione. I testi citati dal pubblico ministero, Santo Fornasier, sono stati tutti accettati. Ieri hanno raccontato quel drammatico giorno il comandante della Guardia costiera di Lampedusa Michele Niosi, il brigadiere della Guardia di finanza Antonio Audino, il sergente della Guardia Costiera Vincenzo Mulè, il maresciallo della Guardia di Finanza Natale Aquilina. La versione italiana, in breve, è questa: una segnalazione di un gommone in difficoltà arrivata alle 9 di mattina a 60 miglia dalla costa da un peschereccio anonimo. Poi la segnalazione arrivata alle 14 da parte dei pescherecci sotto accusa quando si trovavano a 34 miglia da Lampedusa. Le autorità italiane presuppongono che si trattasse della stessa vicenda, ma potrebbero sbagliare. Importante la testimonianza del medico della nave della Marina militare Vega, Benefico Cataldo, quello che visitò in alto mare i migranti. Il dottore ha ribadito che, a suo avviso, tutti erano in buone condizioni di salute. Ma ha anche spiegato che, a causa delle cattive condizioni del mare, non è riuscito a salire a bordo di entrambi i pescherecci.
Comunque le autorità italiane sostengono di aver comunicato molto chiaramente ai pescatori tunisini che non avevano l’autorizzazione ad entrare in Italia, ma che avrebbero dovuto portare i migranti in Tunisia, da dove presumibilmente erano partiti. I pescatori, però, sostengono il contrario. Oggi testimonieranno due dei migranti ripescati in acqua dai motopescherecci. E loro sostengono di essere stati salvati.