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Rubrica: Il punto di vista dell’operatore

Progetti per l’integrazione: la creazione del panico sociale

di Vanna D’Ambrosio, operatrice sociale

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Autore: Vanna D’Ambrosio

Da noi arrivano ammassati sui camion, bruciati dal deserto, scolpita la pelle, le fughe, le recinzioni, le sbarre, i muri, i fili di spine, il mare che annega, come barbari, come terroristi, il nemico in cui si il politico si mostra nel suo “grado di intensità di un’unione o separazione, di un’associazione o dissociazione [1]”. Arrivano da noi che già non sono più umani, strumenti di esistenza e crescita del potere, non persone per l’imperialismo, non cittadini per il razzismo, semi persone per il capitalismo.

A chi sopravvive, concediamo la possibilità di richiedere asilo “debole rimedio alla loro valenza discriminatoria [2]” e di avere un rifugio, per definizione luogo sacro ed inviolabile dove agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. All’ingresso, invece, per il principio della localizzazione elementare assegniamo un posto ad ogni individuo e ad ogni individuo un posto, come norma, per consentire una costante ed efficace sorveglianza. Con un codice, come se non avessero né genitori né figli, né nati né concepiti [3], sono i benvenuti nel centro che li accoglie, “zona lacunare” [4] tra visibile e invisibile, luogo dove ancora “è il potere, non la verità a creare le leggi [5]”.

Il primo incontro tra operatori e migranti si consuma nella numerazione ed elencazione di doveri e diritti e poi vincoli, obblighi, usanze, ammonizioni ed espulsioni, ossia la “molteplicità di processi […] dispositivi sottili, d’apparenza innocenti, [...] che [...] perseguono coercizioni senza grandezza”: avere comportamenti idonei, mostrare disponibilità alla collaborazione, non accedere ad aree alloggiative diverse dalla propria, pulire la stanza, conservare con cura il materiale ricevuto, ripagare eventuali danni, contribuire al mantenimento del decoro, non recare disturbo, non deturpare l’estetica della struttura, non utilizzare apparecchi non a norma, installare stenditoi sui balconi o effettuare modifiche agli alloggi, anche se con lo scopo di migliorarli, pena, essere fuorilegge.

Per addestrare all’idonea condotta, registriamo che dispongano solo di un bagnoschiuma, un dentifricio, uno spazzolino e due rotoli di carta igienica al mese, 1 litro e mezzo d’acqua giornaliero, che facciano colazione, pranzo e cena solo negli orari consentiti e non oltre, annotando sinanche la frequenza dell’uso della lavanderia e la loro igiene. Protocolliamo le convocazioni per colloqui psicologici, controlli ambulatoriali ed informative legali, in modo da valutarne l’attitudine al lavoro e quella morale, la condotta quotidiana e le sue disposizioni, ne registriamo ogni movimento, sorvegliandone azioni e atteggiamenti e se necessario, intervenire su di essi, come istituzioni complete ed austere.

Noi custodi di proprietà private, alberghi, hotel, ville e ristoranti schediamo che, ogni giorno, quelle camere,venti valige, sei persone, due metri per due, non siano deteriorate, conformi ad ospitare i prossimi sbarchi e che nulla sia disordinato e possa sfuggire ai monitoraggi.

La circolazione degli ospiti è concessa solo in percorsi e in spazi prefissati, quale strada prendere dall’ufficio alla sala mensa, come arrivare alla lavanderia e dove bere il tè. Gli unici spazi in cui si articola la possibilità di interazione tra gli operatori del sociale e gli immigrati è finalizzato alla produzione di senso verticale di potere: in ufficio controlliamo come firmano e in sala mensa guardiamo come mangiano e bevono. In questi luoghi, gli unici stimoli sono quelli provenienti dal comando, privi di punti di immaginazione, “eterotopie che inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano ogni possibilità di grammatica [6]”.

Le nostra attività, lungi dall’essere portatrici di una cultura di pace e di un progetto etico, sono quelle di disciplina e categorizzazione, controllo e contrasto, attività designate a governare una routine delittuosa, prodotta dalla combinazione di contingenze, opportunità e rischi dell’ordinario, per cui “gli eventi criminosi diventano così regolari, prevedibili, sistematici, come gli incidenti stradali [7]" . Anche garanti della sicurezza pubblica, ispezioniamo che in determinate fasce orarie e su disposizioni emergenziali, gli uni “seppure imminenti e vicini nella vita quotidiana” rimangano isolati dagli altri perché “estremamente lontani nella loro origine e nei loro movimenti”. Al volto d’altri, “che non è semplicemente una forma plastica, ma è immediatamente un impegno per me, un appello a me,[…] nella sua nudità, senza mezzi, senza protezioni, nella sua semplicità”, l’accoglienza risponde sistematicamente, limitandone la libertà, radicalizzando il conflitto, moltiplicando ed utilizzando le forze del potere, in direzione della costruzione di una società sempre più dispersiva.

In nome delle politiche sociali, degli uffici ad essa preposti, dei corsi professionalizzanti per operatori dell’accoglienza, dell’integrazione, della mediazione, della reciprocità, delle buone pratiche, la costruzione del centro accoglienza come dispositivo ed ingranaggio del potere rimane inefficace a costruire modalità relazionali concrete, in grado di dare voce a quella capacità di aspirare come dimensione fondamentale della democrazia e ponte tra il quotidiano e il futuro [8] .

Da noi, “l’essenza dell’uomo non è più nella libertà ma in una sorta di incatenamento [9]”: senza autorizzazione degli organi competenti non è possibile svolgere attività lavorativa; senza autorizzazioni in largo anticipo, badanti, panettieri, meccanici et alii non possono svolgere sostituzioni improvvise, pena la revoca dell’ospitalità per assenza ingiustificate; per non perdere il posto letto, scrittori, poeti e musicisti non hanno continuato la loro passione perché non erano liberi di uscire; per certificati di ricovero mai inoltrati, pazienti rischiano l’accoglienza perché non hanno firmato; per la perdita della sua dimensione ed identità, quella donna esprime la volontà di voler allontanarsi dall’unico figlio perché il futuro è più incerto di quando è arrivata; altri, invece, nella loro insignificanza sociale, si arrendono all’abbandono ed avrebbero preferito scomparire in mare.

“Il terzo momento di sofferenza è determinato dall’incertezza dei sistemi in cui vengono accolti, dall’incompletezza delle risposte fornite alle loro problematiche [...] ciò che spesso fa del casuale incontro con persone giuste la sola possibilità di cambiare il proprio destino”. L’interminabile permanenza in questi centri resta per loro incomprensibile e non viene colta come aiuto. Dispersi nella società, come prima e se non più, privi di confini e riferimenti dal punto di vista identitario, relazionale e psichico, gli ex-ospiti sono proiettati “verso la follia che annulla qualunque confine” [10], sulle strade, nelle piazze, nei giardini, nelle stazioni, sui marciapiedi, annegati a Venezia e impiccati a Milano. “In ogni dispositivo, dunque, bisogna distinguere ciò che siamo e ciò che stiamo diventando: [...] l’attuale è lo schizzo di ciò che diveniamo [11]: quando, invece, “saremo pronti per un’esperienza della libertà e dell’uguaglianza che si ponga in un confronto rispettoso con quell’amicizia e sia infine giusta, al di là del diritto, cioè a misura della sua dismisura? [12]”.

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Note

[1] C. Schmitt, Le categorie del politico

[2] L. Ferrajoli, E. Vitale, Diritti fondamentali: un dibattito teorico.

[3] Testimonianza resa la processo Eichmann a Gerusalemme: “Gli abitanti del paese Auschwitz non avevano nomi. Non avevano né genitori né figli. Non si vestivano come si veste la gente qui. Non erano nati né li concepivano. Respiravano secondo le leggi di un’altra natura e non vivevano né morivano secondo le leggi di questo mondo. Il loro nome era Ka-Tzenik e la loro identità era quella del numero tatuato nella carne dell’avambraccio sinistro”.

[4] Cfr, H, Arendt, La vita della mente.

[5] T. Hobbes, Il Leviatano

[6] M Foucault, Eteretopia

[7] D. Milovanovic, Postmodern criminology.

[8] A. Appadurai, Il futuro come fatto culturale

[9] E. Levinas, Riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo

[10] Pateh Sabally morto a Venezia il 25/01/2017 e un ragazzo del Maliano a Milano il 07/05/2017.

[11] G. Deleuze, Che cosa è un dispositivo?

[12] J. Derrida, Politiche dell’amicizia

Vedi anche

  • Cercasi operatore della mala accoglienza
  • del mare e della terra. ovvero, come si muore
  • tu guardia, io punisco. La legge Minniti - Orlando
  • La prima accoglienza deve ancora esistere?
  • Accogliere o controllare? Il punto di vista di operatori e operatrici di base
  • Riscoprire la semplicità della normalità
  • L’ultimo sgombero dei diritti umani. Il Sindaco di Roma Virginia Raggi e il suo modello di accoglienza
  • Il "maestro" e i rifugiati
  • Operatori, restiamo umani
[ 10 giugno 2017 ]
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Photo credit: Vanna D’Ambrosio

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