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Rapporto MEDU – I sommersi e i salvati

I migranti sopravvissuti alla rotta Sahara-Mediterraneo. Dati e testimonianze dalla clinica mobile di Medici per i Diritti Umani a Roma.

Portano le malattie e addirittura l’Ebola. Stop all’invasione. Aiutiamoli a casa loro. Nell’ultimo anno, l’arrivo di 150mila migranti e rifugiati nelle coste del Sud Italia è stato spesso oggetto di un discorso pubblico infarcito di informazioni fuorvianti e di strumentalizzazioni da parte di non poche forze politiche. I dati e le testimonianze raccolti sul terreno da Medici per i Diritti Umani (MEDU) descrivono però una realtà molto diversa e ben più complessa: storie drammatiche di persone sopravvissute a una violenza indicibile e i cui diritti più elementari spesso non vengono ancora riconosciuti, una volta attraversato il Mediterraneo, sul suolo italiano ed europeo. Roma insieme a Milano rappresenta la principale tappa nella penisola per le migliaia di profughi diretti verso i paesi dell’Europa del Nord. Sono 258, tra cui 34 donne e 45 minori, i migranti forzati provenienti dal Corno d’Africa che hanno ricevuto assistenza medica dalla clinica mobile di MEDU nel periodo giugno-ottobre 2014 in baraccopoli ed insediamenti precari di Roma. Tutti hanno attraversato il Sahara, si sono imbarcati in Libia e hanno subito qualche forma di grave deprivazione o violenza nei paesi di transito. Tra di loro nessuna epidemia legata a temibili malattie infettive d’importazione quanto piuttosto patologie legate, oltre che alle violenze subite, alle pessime condizioni igienico-sanitarie in cui sono costretti a vivere durante il viaggio e nel nostro paese. MEDU chiede alle istituzioni che nella capitale d’Italia vengano garantite adeguate misure di accoglienza ai migranti che raggiungono l’Europa via mare, con particolare riguardo ai gruppi più vulnerabili. Con la chiusura dell’operazione Mare Nostrum rischia di aggravarsi ulteriormente la situazione umanitaria nel Canale di Sicilia con un ulteriore aumento delle vittime del mare. L’Italia, l’Unione europea e la comunità internazionale sono chiamate sia ad assicurare efficaci operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo sia ad adottare misure che consentano a chi fugge da guerre e persecuzioni la possibilità di accedere alla protezione internazionale senza rischiare costantemente la propria vita.

Lunedì 3 novembre, la clinica mobile di Medici per i Diritti Umani (MEDU), con a bordo medici e operatori volontari, è tornata, come di consueto negli ultimi mesi, presso il grande stabile di Via Collatina, occupato dal 2004 da circa cinquecento rifugiati provenienti dal Corno d’Africa, in particolar modo dall’Eritrea e dall’Etiopia. E’un’isola, lo stabile di Collatina, all’estrema periferia orientale della città di Roma, popolata dai salvati, e dalle storie dei sommersi, quelli che in Europa non sono mai arrivati.

Dall’inizio dell’anno, oltre agli abitanti abituali, che, in assenza di alternative in termini di accoglienza istituzionale, nell’edificio hanno trovato un rifugio, costruito la propria casa, spesso con l’intera famiglia, aperto botteghe e ristoranti “informali”, è possibile incontrare molti migranti in transito: donne, uomini e bambini originari del Corno d’Africa, sbarcati da pochi giorni sulle coste meridionali del nostro paese. Si tratta di persone per cui l’Italia è nella maggior parte dei casi un luogo di passaggio obbligato per poter raggiungere altre destinazioni nell’Europa del Nord. Roma è dunque un’ennesima tappa, ma questa volta finalmente europea, di un viaggio che parte dall’Eritrea, governata da una dittatura militare che da oltre vent’anni prosciuga il paese dei suoi giovani, costringendoli all’arruolamento forzato a tempo indeterminato (la leva militare dura per gli uomini dai 16 ai 60 anni e per le donne fino a 50 anni) o alla fuga. Così Amnesty International descrive l’Eritrea nel rapporto del 2013 sulla situazione dei diritti umani nel mondo: “L’arruolamento militare nazionale è obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato. E’ obbligatorio anche l’addestramento militare per i minori. Le reclute sono impiegate per svolgere lavori forzati. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici continuano ad essere detenuti arbitrariamente in condizioni spaventose. L’impiego di tortura ed altri maltrattamenti è un fenomeno diffuso. Non sono tollerati partiti politici d’opposizione, mezzi di informazione indipendenti o di organizzazioni della società civile. Soltanto quattro religioni sono autorizzate dallo stato; tutte le altre sono vietate e i loro seguaci sono sottoposti ad arresti e detenzioni”[1].

Del resto, nonostante la sistematica violazione dei diritti umani abbia prodotto un vero e proprio esodo dall’Eritrea, l’Italia continua ad essere uno dei principali partner economici di questo paese, con un volume di importazioni ed esportazioni in progressiva crescita[2]. Dall’Eritrea proviene oltre il 20% dei circa 150mila migranti sbarcati in Italia da gennaio a ottobre 2014, oltre 160mila dal mese di ottobre 2013 quando, in seguito al naufragio avvenuto a poche miglia dalle coste di Lampedusa e costato la vita a 368 persone, cui si sommano circa 20 dispersi, il governo italiano ha attivato un notevole contingente delle proprie forze navali nell’ambito della cosiddetta operazione Mare Nostrum, volta al salvataggio delle vite in mare e al contrasto del traffico illegale di esseri umani [3].

Sono per lo più uomini (73%) i migranti sbarcati nei primi nove mesi dell’anno sulle nostre coste, ma non mancano le donne (11%) e i minori d’età ( 16%)[4]. Quasi la metà dei migranti è equamente suddivisa tra siriani ed eritrei, seguono poi tra le principali nazionalità il Mali, la Nigeria, il Gambia, la Somalia, la Palestina e l’Egitto[5]. Nel 86% dei casi il paese da cui si imbarcano è la Libia (seguita dall’Egitto con l’11%), dove spesso restano intrappolati o vittime del conflitto che dal 2011 sconvolge il paese[6].

“Ho assistito all’uccisione di due miei connazionali presso un centro di raccolta in Libia: uno è stato cosparso di benzina e incendiato vivo perché affetto da scabbia, un altro è stato colpito a morte con un attrezzo agricolo” racconta G. eritreo di 23 anni visitato a settembre dai medici di MEDU a Roma.

Sequestrati dai miliziani delle diverse fazioni in lotta, utilizzati come “ausiliari” negli scontri armati, costretti a trasportare armi, detenuti in carceri o in strutture informali di detenzione, privati di cibo e sottoposti a violenze e torture, i migranti affrontano il tratto di mare che li separa dall’Europa con la speranza di chiedere asilo politico e ottenere protezione. La traversata, gestita da organizzazioni criminali, avviene a bordo di imbarcazioni precarie e stipate all’inverosimile. Ma non tutti ce la fanno. Nonostante l’operazione Mare Nostrum, nei primi dieci mesi di quest’anno, in base alle informazioni raccolte dai mezzi di informazione nazionali, sono almeno 1.977 coloro che hanno perso la vita o risultano dispersi nel tentativo di attraversare il canale di Sicilia, probabilmente oggi la rotta più pericolosa del mondo. Secondo altre stime, nello stesso periodo le vittime sarebbero state invece 3.072[7]. Impossibile invece appurare il numero di coloro che sono morti nel tentativo di attraversare il confine con il Sudan e poi il deserto del Sahara, di coloro che sono stati rapiti, detenuti senza reato in Egitto o in Libia o rimasti vittime della guerra civile.

“Di tutto il viaggio, il tratto più rischioso è stato quello al confine tra Sudan e Libia, quando abbiamo attraversato il deserto. Avevamo solo una bottiglia di acqua a testa e quasi niente da mangiare. Eravamo tutti ammassati sullo stesso pick up che viaggiava a gran velocità. Alcune persone sono cadute, ma le hanno lasciate lì… Abbiamo impiegato quattro giorni per attraversare il confine tra Sudan e Libia.”, racconta Y. (Eritrea), 20 anni, in Italia da una settimana, quando gli operatori di MEDU lo incontrano a settembre.

La sua meta è la Germania, ma ancora non ha ricevuto dai familiari i soldi necessari per pagare l’ennesimo “passaggio”.

“In Libia sono stato in un centro di raccolta per circa un mese, per arrivare in Italia sono finito nelle mani di tre diverse organizzazioni di trafficanti. Sono sopravvissuto ad un naufragio, in cui sono rimaste in vita solo venti persone su centocinquanta che erano partite con me”, sono le parole di I. (Eritrea), 30 anni, che ha trascorso circa 10 giorni presso lo stabile di Collatina.

Gli fanno eco M. (Eritrea), 28 anni: “Ho trascorso tre mesi in Libia, prima in una città della costa nord-orientale, poi a Benghazi e infine a Tripoli. Sono stato rapito più volte da soldati governativi e anti governativi e rilasciato in cambio di un riscatto. Ho trascorso venti giorni in un centro di raccolta a Tripoli, con altre settecento persone: ci davano del cibo una volta al giorno ed era impossibile uscire. Sono entrato in Libia dal Sudan e al confine, in pieno deserto, ho assistito all’uccisione di più di venti persone da parte di soldati libici che sparavano a vista”

e ancora A. (Eritrea), 19 anni: “In Libia ho trascorso tre mesi di cui due in carcere a Misurata, all’interno di una grande scuola. I soldati delle milizie mi hanno catturato mentre cercavo di raggiungere Tripoli. Ho pagato 1.200 dollari per il riscatto. In carcere con me c’erano circa cinquecento persone, ci davano da mangiare solo una volta al giorno, un piatto di zuppa in sei e un pezzo di pane“.

Altri invece, dopo aver raggiunto il Sudan, vengono condotti dai trafficanti al confine egiziano, ma, come racconta E., eritreo, 21 anni e una ferita da pallottola alla gamba sinistra,

“Il confine con l’Egitto è molto pericoloso perché ci sono molti soldati per evitare l’ingresso delle persone in fuga dalla Libia. Le persone fermate vengono trasferite nei centri di detenzione a tempo indeterminato e riescono a uscire solo pagando 300 dollari per tornare in Etiopia perché tornare in Eritrea per noi è la fine. So che alcune persone transitate negli anni passati per il Sinai (ndr: per cercare di raggiungere Israele) si trovano ancora nei centri di detenzione in Egitto, a volta anche da tre o quattro anni.”

Lo confermano le testimonianze di alcuni migranti eritrei detenuti in Egitto raccolte da MEDU, dove i migranti sono spesso detenuti senza separazione dai carcerati per crimini comuni. Unica distinzione, il colore della divisa: bianca per i migranti, blu per i condannati per reati comuni, rossa per i condannati a morte. A., 28 anni, proveniente dall’Eritrea, è uno di loro. Nel suo Paese ha svolto la professione di agronomo fino al 2009, quando è stato costretto a fuggire. Prima in Sudan, dove ha vissuto presso il campo profughi di Shagarab per due anni. Poi, dopo aver raggiunto Khartoum, è stato sequestrato dai trafficanti e condotto nel Sinai. Sequestrato per quattro mesi, insieme ad altre settanta persone, bendate e sottoposte a percosse e violenze quotidiane, A. viene liberato solo in seguito al pagamento del riscatto da parte dei familiari: 40.00 dollari la somma richiesta dai sequestratori, 5.000 quelli che la famiglia di A. riesce a pagare. Alla frontiera tra Israele ed Egitto, estremamente debole e con “i piedi rotti” per le violenze subite durante il sequestro, viene arrestato dall’esercito egiziano, e trasferito prima presso una prigione nel Sinai, poi in un altro carcere egiziano dove è rimasto detenuto per oltre tre anni.

Ciascuno di questi migranti avrebbe diritto a presentare domanda di asilo politico e a ricevere protezione, ma solo dopo aver raggiunto l’Europa o uno stato firmatario della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati. L’Italia è uno di questi, ma, come già accennato, per molti dei migranti forzati sbarcati nell’ultimo anno, in particolare siriani ed eritrei, essa non rappresenta la destinazione finale del viaggio. I profughi tentano infatti di raggiungere altri paesi, in particolare la Germania e la Svezia, dove trovano spesso ad attenderli familiari e conoscenti, un sistema di accoglienza dignitoso e migliori opportunità di lavoro e di inserimento sociale. Nonostante il Regolamento Dublino, riguardante la gestione delle domande di protezione internazionale nell’Unione europea, attribuisca l’onere dell’esame della richiesta di asilo al primo paese in cui il migrante fa ingresso e in cui viene sottoposto al rilievo delle impronte digitali, quest’anno la maggior parte dei migranti sbarcati sulle coste italiane si è allontanata dai centri di primo soccorso prima di essere sottoposta a questa procedura ed ha poi proseguito il viaggio attraverso la penisola verso le destinazioni finali[8]. A conferma di ciò, secondo quanto riportato ad ottobre dal Sottosegretario agli Interni Manzione, nell’ultimo anno sarebbero state 45mila le richieste d’asilo in Italia (27.930 nel 2013) a fronte di 150mila migranti sbarcati sulle nostre coste[9]. In un paese di destinazione finale come la Germania, invece, le domande d’asilo sono state 77.109 nel primo semestre del 2014, con un incremento del 59% rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente[10]. Il passaggio nella penisola italiana – che per alcuni profughi dura solo pochi giorni, per altri anche più di un mese e ha come tappe principali Roma e Milano – avviene però in condizioni assai critiche, spesso senza poter accedere, neanche nel caso dei più vulnerabili, ad alcun servizio di assistenza e/o accoglienza.

Del resto, in assenza di una strategia nazionale da parte del governo, l’approccio e le risposte messe in atto nelle due principali città italiane sono stati profondamente diverse. Se a Milano il Comune, con il sostegno della Prefettura, ha predisposto delle strutture di accoglienza che da ottobre 2013 a settembre 2014 hanno ospitato temporaneamente 43mila migranti in transito[11] – per lo più siriani ed eritrei -, lo stesso non è accaduto a Roma, dove migliaia di profughi eritrei nel corso del 2014 hanno trovato come unica accoglienza quella prestata dai connazionali all’interno di già sovraffollati edifici occupati e insediamenti precari. Così l’edificio di Selam Palace, occupato da anni da oltre seicento rifugiati etiopi, eritrei, somali e sudanesi, è arrivato nel corso dell’anno ad ospitare in media oltre mille persone al giorno, aprendo le porte a uomini, donne e bambini sbarcati da pochi giorni, se non addirittura da poche ore. La “Comunità la Pace” di Ponte Mammolo, storico insediamento di baracche abitato da circa ottanta rifugiati eritrei, è arrivata ad accogliere nei momenti di maggior afflusso nei mesi di luglio e agosto oltre duecento connazionali al giorno in arrivo dalle coste siciliane e diretti verso il Nord Europa. In entrambi gli insediamenti, come anche nell’edificio di Collatina, i nuovi arrivati – compresi nuclei familiari con bambini piccoli – hanno trascorso e trascorrono giorni o settimane in condizioni estremamente critiche, condividendo i pochi materassi e i già insufficienti servizi igienico sanitari, senza poter disporre dei beni di prima necessità e a volte anche di pasti regolari, stipati nei garage degli edifici occupati, in baracche sovraffollate, o addirittura nelle aree parcheggio, come nel caso di Ponte Mammolo.

Di notte dormiamo a turno nelle baracche, per dare i posti a tutti, soprattutto alle donne e ai bambini” raccontava a giugno S. giovane profugo eritreo a Ponte Mammolo.

Sono proprio queste condizioni di vita a causare o ad aggravare la maggior parte dei problemi di salute riscontrati dai medici di MEDU. Nessun allarme epidemia, né malattie di importazione dunque, bensì il quadro sanitario di una popolazione giovane con problemi di salute legati, nella gran parte dei casi, alle pessime condizioni alloggiative ed igienico-sanitarie in cui sono costretti a vivere in Italia, alle condizioni estreme del viaggio oppure alle torture e ai trattamenti inumani e degradanti subiti nel proprio paese o durante il tragitto per raggiungere l’Europa.

“In Libia ho vissuto per più di due mesi in una piccola casa, con altre trecento persone circa, tra uomini e donne, divisi da una parete sottile. Ogni giorno venivamo picchiati con un tubo dell’acqua con all’interno un filo di ferro, finché non siamo riusciti a pagare il costo della traversata”, spiega H., (Eritrea), arrivato a Roma da poche ore e in Sicilia da qualche giorno, mentre un medico del team di MEDU gli chiede la ragione della profonda ferita che gli attraversa la schiena.

Sono state 283 i pazienti stranieri visitati da MEDU presso gli insediamenti di Ponte Mammolo e Collatina dal mese da giugno a ottobre 2014. Tra di essi vi erano 258 migranti eritrei dei quali il 96% era giunto in Italia da meno di un mese (in media da 10 giorni) e il 93% ha dichiarato di essere diretto verso altri paesi europei. Tra i pazienti eritrei il 70% era rappresentato da uomini, il 13% da donne e il 17% da minori d’età tra cui cinque bambini con meno di 5 anni. L’età media complessiva è risultata essere di 24 anni. La totalità dei migranti eritrei è giunta in Italia imbarcandosi in Libia e ha subito qualche forma di grave deprivazione o violenza nei paesi di transito. Per questi pazienti la maggior parte dei sospetti diagnostici rilevati sono da riferirsi alle critiche condizioni di vita affrontate in Italia e durante il viaggio e la permanenza in Libia: infezioni della pelle, infezioni respiratorie acute, lesioni e ferite cutanee, traumatismi.
Nella capitale d’Italia persiste dunque una seria questione umanitaria già segnalata da Medici per i Diritti Umani nel corso dell’anno (vedi report Roma capitale dei rifugiati. Urgente dare assistenza ai migranti forzati più vulnerabili.), vale a dire la presenza di un consistente flusso di migranti forzati in transito verso altri paesi europei, spesso sbarcati solo da pochi giorni, a cui non viene garantita alcuna soluzione d’accoglienza dignitosa e che trovano come unico rifugio spazi alloggiativi all’interno dei grandi insediamenti urbani informali, spesso drammaticamente inadeguati e già al limite della capacità ricettiva. Si tratta sovente dei migranti più vulnerabili, donne e minori, già provati nel fisico e nella psiche da viaggi drammatici e dalle violenze subite.
“Sono rimasta alcuni mesi in Libia prima di imbarcarmi per l’Italia. Adesso sono incinta ma desidero interrompere la gravidanza. Non mi voglio fermare in Italia ma cercare di raggiungere l’Inghilterra.”racconta W. (Eritrea), giovane di 21 anni, violentata in Libia e al quarto mese di gravidanza mentre viene assistita dagli operatori di MEDU a Ponte Mammolo.

Recentemente, per altro, anche a Roma sono stati lanciati da più parti allarmi circa le possibili conseguenze sanitarie per la cittadinanza causate dell’arrivo di un numero sostenuto di migranti appena sbarcati in Italia e provenienti in particolare dall’Africa sub-sahariana. A questo proposito Medici per i Diritti Umani intende ribadire con chiarezza che non è una popolazione di migranti con un’età media inferiore ai venticinque anni a portare con sé malattie o problemi sanitari quanto piuttosto la mancata predisposizione di adeguate misure di accoglienza a poter provocare problemi di salute individuali e collettivi altrimenti gestibili e prevenibili. Del resto, la tutela della salute può essere realmente garantita solo cominciando ad assicurare standard alloggiativi ed igienico-sanitari dignitosi. Medici per i Diritti Umani ritiene perciò assolutamente prioritario che da parte delle istituzioni, Comune e Prefettura in primis, vengano predisposte adeguate misure di accoglienza per i migranti forzati nella città di Roma, con particolare riguardo ai settori più vulnerabili. A questo proposito,la previsione di una diminuzione degli arrivi in vista della stagione invernale non può giustificare ulteriori inerzie e ritardi.

Lo scenario prossimo futuro appare del resto assai preoccupante. Nonostante il flusso di migranti attraverso il Canale di Sicilia prosegua a ritmo sostenuto, dal primo di novembre il governo italiano ha dichiarato chiusa l’operazione Mare Nostrum che nell’arco di due mesi verrà completamente sostituita dalla cosiddetta operazione Triton gestita dall’agenzia europea Frontex con il coinvolgimento di alcuni paesi europei. Il rischio di un ulteriore aggravamento della situazione umanitaria con nuove tragedie del mare è dunque in questo momento più che mai concreto dal momento che Triton appare un’operazione qualitativamente e quantitativamente ben più limitata rispetto a Mare Nostrum (un terzo del budget di Mare Nostrum a disposizione, operatività non più estesa alle acque internazionali ma circoscritta entro 30 miglia dalle coste italiane) e di conseguenza non in grado di far fronte in termini di salvataggio e soccorso ai perduranti arrivi di migranti forzati dalle coste del Nord Africa. Lo stesso Arias Fernàndez, direttore esecutivo di Frontex, ha dichiarato che “Mare Nostrum e Triton non sono la stessa cosa. Triton nasce per controllare la frontiera non per operazioni di ricerca e soccorso”. Sebbene sia indubitabile che l’operazione Mare Nostrum – intervento criticato in chiave anti-immigrazione da alcune forze politiche e, di recente, anche dal governo britannico in quanto avrebbe rappresentato un involontario pull factor dei migranti sul continente europeo – abbia rappresentato una risposta temporanea ad un problema ampio e complesso è altrettanto innegabile che essa si sia dimostrata un valido strumento per salvare vite umane ed evitare che il macabro bilancio delle morti nel Mediterraneo non fosse ancora più pesante.

Alla luce delle precedenti considerazioni, Medici per i Diritti Umani ritiene indispensabile e urgente che il governo italiano insieme agli altri governi dell’Unione europea provveda ad assicurare operazioni di ricerca e salvataggio in mare almeno allo stesso livello di efficacia dell’operazione Mare Nostrum. Come si evince anche dalle testimonianze raccolte in questo rapporto tale impegno non può essere in alcun modo derogabile dal momento che le condizioni oggettive da cui fugge la maggior parte dei rifugiati e le violenze subite nei paesi di transito del Nord Africa non lasciano ai migranti altra opzione che tentare la traversata ad ogni costo. Nel contempo è essenziale che l’Unione europea e l’intera comunità internazionale dimostrino volontà politica attivando risposte globali che consentano a chi fugge da guerre e persecuzioni di accedere alla protezione internazionale attraverso canali legali e senza rischiare costantemente la propria vita. A questo proposito, partendo anche da soluzioni già esistenti ma scarsamente utilizzate, appare necessario potenziare i programmi di reinsediamento dai paesi di primo asilo limitrofi alle aree di crisi e di conflitto. Medici per i Diritti Umani ribadisce infine la necessità di una revisione sostanziale del Regolamento Dublino che anche nel corso dell’ultimo anno ha prodotto risultati fallimentari sia nel tutelare i migranti forzati sia nell’assicurare un’equa ripartizione delle domande di protezione internazionale tra tutti gli stati dell’Unione europea.

Medici per i Diritti Umani (MEDU), organizzazione umanitaria indipendente, fornisce dal 2006 assistenza e orientamento socio-sanitario ai rifugiati in condizioni di precarietà nell’ambito del progetto Un Camper per i Diritti nelle città di Roma e Firenze.Le attività della clinica mobile rivolte ai migranti in transito nella città di Roma sono realizzate con il sostegno di Open Society Foundations.

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