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Reato di clandestinità e populismo del XXI secolo

di Antonio Pio Lancellotti e Stefano Bleggi

Sono bastati i capricci di Alfano e del Nuovo Centro Destra per convincere Palazzo Chigi a fare dietrofront sulla depenalizzazione del cosiddetto “reato di clandestinità”. In realtà la decisione del governo in merito alla questione, già prevista da una legge delega dell’aprile 2014, non è stata cancellata, bensì rinviata di una settimana. Uno stop che rappresenta un segnale politico di notevole importanza all’interno della visione e dei criteri che l’attuale governo applica rispetto al tema dell’immigrazione.
Erano in tanti ad invocare l’abrogazione del famigerato articolo 10 bis della Turco-Napolitano, aggravato dalla legge n. 94 del 15 luglio 2009 (il ”pacchetto sicurezza“) del Governo Berlusconi che sanciva nel agosto del 2009 l’entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato.
A sostegno della depenalizzazione si sono infatti espressi il Ministro della Giustizia Orlando, il procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo Franco Roberti, che in una recente intervista a Repubblica ha considerato l’articolo 10-bis come il peggior ostacolo alla lotta contro i trafficanti di esseri umani, ma soprattutto tanti giudici che da sempre hanno dichiarato contrarietà ad una legge che di fatto ha solamente intasato tribunali e procure. Non si tratta di motivazioni di alto profilo etico e politico, che sottendono uno spirito progressista da parte dei soggetti in questione, ma di una posizione di comodo che, nonostante tutto, è stata rispedita al mittente da parte di Renzi in persona.

Eppure il “reato di clandestinità” è stato al centro di un dibattito politico di ben altro spessore nel momento in cui è diventato legge. La sua approvazione ha segnato l’apice dell’ideologia securitaria portata avanti dal governo Berlusconi e che aveva in Roberto Maroni, ministro dell’Interno, e nella Lega Nord, che stava iniziando ad accreditarsi come partito nazionale e nazionalista, le sue principali punte di diamante. In tanti si erano mobilitati per contrastare l’introduzione della legge o per chiederne la sua abrogazione immediata. Ricordiamo, tra le altre cose, un appello promosso dall’Associazione Giuristi Democratici, che ha visto tra i primi firmatari Stefano Rodotà, Gustavo Zegrebelsky, Livio Pipino ed altri noti esponenti del mondo giuridico, contro l’introduzione dei reati di ingresso e soggiorno illegale dei migranti, lanciato quando ancora il disegno di legge n. 733-b era all’esame del Senato. Da segnalare anche un appello sottoscritto da diversi artisti ed intellettuali (tra cui Dario Fo, Franca Rame, Andrea Camilleri, Gianni Amelio, Moni Ovadia e Wu Ming), che addirittura paragonava il reato di clandestinità alle leggi razziali emanate dal fascismo nel 1938, trasferendo “il soggetto passivo della discriminazione dagli ebrei alla popolazione degli immigrati irregolari”. L’ASGI, l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, l’aveva definitoun reato inutile previsto da una cosiddetta ”legge manifesto”, che al pari delle grida manzoniane, vuole affermare astrattamente che la clandestinità è reato, perché così si dà l’illusione che lo Stato è forte (con i deboli), poi non importa se non serve a nulla, l’importante è dare all’elettorato il “tranquillante messaggio” dello stigma del “clandestino”, della costruzione normativa del “nemico” e della devianza. L’identificazione clandestino uguale delinquente è così compiuta nell’immaginario collettivo. Quel che importa è il messaggio che si veicola. Ma questo messaggio è un messaggio razzista. Questa è l’utilità vera del reato di clandestinità.
La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 249 del 8 luglio del 2010, ha dichiarato illegittimo l’aggravante di clandestinità nei reati, inizialmente previsto dalla legge, pur confermando il resto dell’impianto legislativo.

I tentativi di contrastare la presenza del nostro ordinamento di una legge spiccatamente razzista e discriminatoria sono andati anche oltre la semplice mobilitazione dell’opinione e si sono espressi nelle piazze e nelle lotte sociali, fornendo stimoli importanti per l’autodeterminazione dei migranti nel nostro Paese e per il loro protagonismo nella cartografia dei conflitti. Un esempio lampante è stata la giornata di sciopero dei migranti del 1 marzo 2010, che ha visto decine di piazze italiane riempirsi di migranti ed autoctoni e che aveva tra le parole d’ordine la lotta al “razzismo istituzionale”, con esplicito riferimento alle politiche sull’immigrazione dell’allora governo di centro-destra. E’ però il tragico naufragio di Lampedusa nel 2013 che riporta all’attenzione dell’opinione pubblica il reato di ingresso e soggiorno illegale. Ricordiamo che la Procura di Agrigento, mentre ancora si cercavano i dispersi e si contavano le vittime, aveva avuto lo scrupolo di iscrivere nel registro degli indagati i naufraghi sopravvissuti. La tragicità degli eventi ha riaperto il dibattito su un reato altrimenti dimenticato da media e politici. Il successivo, pessimo e lungo, tira e molla parlamentare, invece che abrogare l’articolo 10-bis così come è stato concepito nel 2009, ha dato un anno e mezzo di tempo al governo per renderlo un illecito amministrativo, mantenendo il rilievo penale alle condotte per chi violi gli ordini di allontanamento ed il divieto del reingresso.

E’ innegabile che oggi ci troviamo di fronte ad un contesto profondamente mutato, nel quale le cifre e la portata complessiva delle migrazioni forzate da un lato contengono il portato di una crisi economica e climatica che ha assunto un carattere permanente e dall’altro si intrecciano sempre più con le nuove forme della guerra globale che, soprattutto nell’ultimo periodo, stanno destabilizzando il Medio-Oriente ed altre aree dell’Asia e dell’Africa. Ma è soprattutto il contesto politico ad essere mutato e ad avere assunto il populismo come modus cogitandi della nuova governamentalità post-democratica italiana ed europea.
Esplicativa in tal senso è la frase con cui il premier ha motivato il dietrofront governativo sull’abrogazione della legge: “bisogna evitare di trasmettere all’opinione pubblica dei messaggi che sarebbero negativi per la percezione di sicurezza”. Le cosiddette “valutazioni di opportunità politica” fanno chiaramente riferimento all’utilizzo strumentale dei fatti di Parigi e di Colonia e dimostrano ancora una volta come il pendolo della storia stia sensibilmente virando a destra. Guardando in casa dei Paesi nord europei queste politiche populiste, profondamente di destra, stanno mettendo in discussione i principi di accoglienza ai rifugiati, ripristinando i controlli delle loro frontiere e ponendo limiti sui diritti alle prestazioni sociali per gli immigrati. In Francia la proposta di legge per privare la cittadinanza ai condannati per terrorismo più che un deterrente verso i potenziali adepti di Daesh è un segnale di avvertimento a tutti i musulmani francesi, ma soprattutto è un messaggio di intesa con l’elettorato della destra nazionalista.

E’ dunque necessario ripensare alla radice il nostro modo di intendere e di intervenire nelle questioni che riguardano razzismo e xenofobia, trasformando il potenziale di quel sentimento umanitario e solidale, che si è espresso e organizzato dal basso in tutti i territori e in tutte le frontiere dell’Europa fortezza, in una reale onda d’urto dei diritti e della solidarietà in grado di rompere quel legame dialettico tra populismo reazionario e costruzione retorica di un’opinione collettiva che incanala nell’odio etnico le tensioni sociali contemporanee.

Stefano Bleggi

Coordinatore di  Melting Pot Europa dal 2015.
Mi sono occupato per oltre 15 anni soprattutto di minori stranieri non accompagnati, vittime di tratta e richiedenti asilo; sono un attivista, tra i fondatori di Libera La Parola, scuola di italiano e sportello di orientamento legale a Trento presso il Centro sociale Bruno, e sono membro dell'Assemblea antirazzista di Trento.
Per contatti: [email protected]