1. L’Italia sotto accusa. Il 27 gennaio 2011 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, riunita a Strasburgo, ha individuato gli stati che presentano “major systemic deficiencies”, deficienze sistematiche nella legislazione e nelle prassi di polizia che producono le più frequenti violazioni della Convenzione Europea a protezione dei diritti fondamentali della persona, “which are causing repeated violations of the European Convention on Human Rights”. Questi paesi sono la Bulgaria, la Grecia, la Moldavia, la Polonia, la Romania, la Russia, la Turchia e l’Italia. In particolare, i contesta a questi stati di non rispettare o di ritardare il riconoscimento delle sentenze della Corte Europea di Strasburgo, casi di morte e trattamenti disumani applicati a persone sottoposte a privazione della libertà personale, oltre a misure detentive di durata sproporzionata o al di là di quanto previsto dalla legge.
L’Assemblea del Consiglio d’Europa, prendendo atto che le misure di allontanamento forzato si rivolgono tanto contro i migranti economici che nei confronti di richiedenti asilo, ha rilevato poi come alcuni paesi, tra i quali l’Italia, ignorino le richieste contenute nelle misure urgenti adottate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo ai sensi dell’articolo 39 della CEDU, al fine di bloccare le deportazioni di persone che potrebbero essere esposte a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. “Some states which had ignored its clear instructions not to deport individuals who might be at risk of torture or ill-treatment. Such “interim measures”, usually involving failed asylum seekers or irregular migrants whose expulsion is imminent, are intended to give the Court time to consider their complaints. States should “fully comply with the letter and spirit” of these requests”.
L’assemblea ha inoltre espresso una grave preoccupazione per il rapido incremento delle richieste di misure provvisorie per bloccare espulsioni o trasferimenti in base al Regolamento Dublino 2, che assegna al primo paese di ingresso in Europa la competenza a ricevere e ad esaminare le richieste di protezione internazionale, richiamando la circostanza che alcuni stati – come la Grecia – non possono essere considerati paesi sicuri (safe for returns) per ricevere immigrati espulsi, allontanati o trasferiti da altri stati membri dell’Unione Europea.
Con la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo relativa all’applicazione del “Regolamento Dublino” tra Belgio e Grecia (sentenza 21.01.2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia), si è affermato che il Regolamento Dublino 2, n. 343 del Consiglio, adottato il 18 febbraio 2003, non impedisce che gli Stati, in alcuni casi, al fine di garantire il rispetto dei diritti fondamentali affermati dalla Convenzione deroghino all’applicazione dei criteri generali di competenza nell’individuazione del Paese che deve decidere sulla richiesta di asilo. Secondo la sentenza, è stato il Belgio a violare la Convenzione dei diritti dell’uomo e non può trincerarsi dietro il rispetto di obblighi internazionali come l’attuazione del Regolamento Dublino proprio perché, avendo dati certi sulla situazione dei richiedenti asilo in Grecia, non avrebbe dovuto procedere all’espulsione di un cittadino afgano trasferito ad Atene. Lo ha deciso la Grande Camera della Corte di Strasburgo che si è pronunciata con sentenza del 21 gennaio 2011 (M.S.S. contro Belgio e Grecia, 30696/09), precisando che lo stesso Regolamento n.343 del 2003 impone il rispetto della Convenzione di Ginevra e contempla precise eccezioni nell’applicazione dei criteri di competenza per l’esame della domanda di asilo, se nel Paese che sarebbe competente non sono garantiti i diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale. La Corte, ha ritenuto che, il Belgio, decidendo di consegnare un cittadino afgano- che vi era transitato- alla Grecia, primo stato di ingresso nell’area Dublino, ha violato l’articolo 3 della Convenzione che vieta i trattamenti disumani e degradanti, nonché gli articoli 13 ( diritto ad un ricorso effettivo) e 46 ( forza vincolante ed esecuzione delle sentenze CEDU) della stessa Convenzione. La Corte ha anche condannato la Grecia per le gravi violazioni relative al trattamento dei richiedenti asilo e ha stabilito misure per indennizzare il ricorrente.
In precedenza la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, seconda Sezione, il 18 novembre 2008, emanava un provvedimento d’urgenza ai sensi dell’articolo 39 CEDU, nel quale si ravvisava la possibile violazione dell’art. 34 della CEDU intimando allo Stato italiano di sospendere l’espulsione di un cittadino afghano verso la Grecia fino al 10 dicembre 2008 (CEDH-LF2.2R, EDA/cbo, Requete n°55240/08, M. c. Italie). Nella motivazione del provvedimento di sospensiva la Corte faceva riferimento ad una sua precedente decisione nel caso Mamatkulov et Askarov c. Turquie (n 46827/99 et 46951/99) paragrafi 128 e 129 e dispositivo numero 5, nella quale si sanzionava il mancato rispetto del diritto ad un ricorso individuale ai sensi dell’art. 34 del Regolamento di procedura della stessa Corte.
Anche l’Italia, come la Grecia, non può essere ritenuta dunque un paese sicuro per i richiedenti asilo. Negli ultimi mesi una serie di decisioni di Tribunali amministrativi tedeschi hanno bloccato i trasferimenti forzati di migranti richiedenti asilo verso l’Italia, in applicazione del Regolamento Dublino 2.
Secondo l’orientamento prevalente in Germania, chiaramente espresso in queste decisioni, il quadro legislativo, e soprattutto le prassi applicative, quindi i comportamenti della polizia italiana in frontiera, non corrispondono agli standard di garanzia imposti dal diritto comunitario e riconosciuti dal diritto tedesco, infatti “in Italien nicht an den zu fordernden und bei Einfügung des § 27a AsylVfG vorausgesetzten union- bzw. völkerrechtlichen Standard heranreichen. Insbesondere ist fraglich, ob die Antragsteller ihre Asylgründe in Italien noch uneingeschränkt vorbringen können”. In particolare, si dubita fortemente. da parte dei giudici tedeschi, che i richiedenti asilo possano esporre senza limitazioni indebite le ragioni sulle quali si basa la loro istanza di protezione internazionale.
Nelle decisioni dei tribunali amministrativi tedeschi si sottolinea pure la penosa condizione abitativa cui sono costretti i richiedenti asilo in Italia, peraltro costretti assai spesso alla condizione di senzatetto.”Im Hauptsacheverfahren ist zu prüfen ist, ob Italien ein Asylverfahren gewährt, dass mit den Standards Europäischen Flüchtlingsschutzes zu vereinbaren ist. Trotz der bevorzugten Behandlung von Dublin-Rückkehrerinnen und -Rückkehrern kommt es in Italien bei der Bereitstellung von Wohnraum angesichts der völlig überlasteten Aufnahmekapazitäten zu Fällen von Obdachlosigkeit.
Le sentenze, rintracciabili nel sito www.asyl.net , sono ben quattro solo nel mese di gennaio di quest’anno, e impongono di non considerare l’Italia come un “paese sicuro” ai fini dell’applicazione del regolamento Dublino 2, in quanto non si può costatare con la necessaria certezza che le domande di asilo possano essere presentate in Italia nel rispetto delle garanzie offerte dalle direttive comunitarie e dal Regolamento Eurodac.
– VG Köln, Beschluss vom 10.01.2011 – 20 L 1920/10.A – (6~S., M18053)
– Verwaltungsgericht Minden, Beschluss vom 22.6.2010 (12 L 284/10.A)
– VG Köln,Beschluss vom 11.01.2011 – 16 L 1913/10.A – (8~S., M18052)
– VG Darmstadt, Beschluss vom 11.01.2011 – 4 L 1889/10.DA.A – (5~S., M18057)=41633&cHash=af5fb2319e]
Le decisioni dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, e la più recente giurisprudenza dei Tribunali amministrativi tedeschi, impongono quindi di non considerare l’Italia un “paese sicuro” per i richiedenti asilo, al pari della Grecia, e sarebbe auspicabile che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo decida al più presto sui ricorsi presentati dopo i respingimenti collettivi in Libia del 6-7 maggio 2009 e sui ricorsi inviati da numerosi afghani che, dal 2008 in poi, erano stati respinti alle frontiere portuali dell’Adriatico proprio verso la Grecia.
2. Dopo i respingimenti collettivi, la esternalizzazione dei controlli di frontiera.
Intanto il Ministero dell’interno italiano continua a comunicare con cadenza settimanale il rimpatrio di alcune decine di immigrati irregolari, in genere una cinquantina di persone provenienti da diversi paesi del Maghreb, soprattutto Egitto e Tunisia, verso paesi che hanno stipulato da tempo accordi di riammissione con l’Italia. E’ scesa invece una cappa di silenzio sulla situazione dei migranti arrestati in Libia, che negli ultimi mesi sembra siano stati espulsi verso i paesi di provenienza a sud della Libia, o lasciati fuggire, dietro il pagamento dei compensi sempre più elevati ai trafficanti, verso l’Egitto, in particolare verso la zona di frontiera con Israele nel deserto del Sinai. In quest’ultima zona, come è noto centinaia di eritrei provenienti dalla Libia sono stati vittime degli abusi più feroci, molte donne sono state abusate e alcuni hanno subito l’espianto d’organi o sono stati uccisi. Tutte conseguenze della “porta chiusa” loro in faccia, conseguenza dell’accordo Italia-Libia, un accordo che non prevede alcuna soluzione per i potenziali richiedenti asilo arrivati in Libia da paesi nei quali non possono fare più ritorno, pena la morte, gli arresti arbitrari, le torture e i trattamenti inumani più atroci.
Le ultime notizie sui rapporti di buona collaborazione dell’Italia con i governi dei paesi nordafricani di transito, oltre alla Libia, in particolare con l’Egitto di Moubarak e con la Tunisia di Ben Ali, risalgono allo scorso anno. In una Audizione di Maroni al “Comitato interparlamentare Schengen” del 14 aprile 2010, il ministro affermava che a livello comunitario “nell’ambito delle priorità geografiche, infatti, la parte dedicata all’Africa è stata potenziata, accogliendo proprio le proposte italiane, con uno specifico riferimento alla necessità di assistere quei Paesi nel contrasto dell’immigrazione illegale”, ma il punto d’intesa maturato a livello europeo “ non è sufficientemente incisivo sul fronte degli impegni comunitari da assumere con la Libia. È per questo che nella dichiarazione congiunta italo-francese, approvata nel vertice del 9 aprile (2010), abbiamo voluto ribadire in una logica di continuità con la nostra azione la priorità alle politiche di rafforzamento delle frontiere esterne dell’Unione europea, nonché la previsione di pattugliamenti congiunti delle acque territoriali e la collaborazione in materia di accordi di riammissione con i Paesi terzi”. Queste le parole testuali di Maroni, ma come i fatti adesso confermano, su questo ed anche sul progetto di Unione Euromediterranea, si trattava sooltanto di millantato credito. Sulle politiche di espulsione e respingimento verso i paesi del Maghreb la Francia, come l’Unione Europea, stanno lasciando isolato il governo italiano.
3. Il caso Libia. Dai respingimenti collettivi alle pattuglie congiunte.
Con specifico riferimento ai casi di respingimento collettivo verso la Libia, ancora oggi sotto accusa davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in occasione della sua audizione parlamentare, il ministro Maroni forniva notizie assai interessanti, anche ai fini dei processi attualmente in corso, affermando che “ il 5 maggio 2009 sono state avviate le operazioni di pattugliamento, previo svolgimento di appositi corsi presso la scuola nautica della guardia di finanza di Gaeta, a favore di 81 tra ufficiali e personale di truppa libici. Queste operazioni prevedono, sulla base di una pianificazione settimanale e nell’ambito di aree operative predefinite, l’attivazione da parte della guardia costiera libica di un dispositivo « pronti a muovere » con copertura nelle ventiquattro ore, per viaggi della durata massima di dieci ore di navigazione, dispositivo che consente di ottimizzare le risorse a disposizione. Questo dispositivo, cui concorrono le sei unità navali con a bordo militari della Guardia di finanza in qualità di osservatori, è supportato dalla Marina militare libica”.
Secondo Maroni “la proficua collaborazione avviata ha dato i suoi frutti, giacché nel 2009 sono stati riconsegnati alle autorità libiche 834 clandestini intercettati nelle acque internazionali (i famosi « respingimenti »), mentre nel 2010 non è stato necessario effettuare alcuna operazione di riconsegna. L’efficacia di questo accordo emerge anche dai dati, che evidenziano la drastica riduzione degli sbarchi di clandestini. Dal 5 maggio al 31 dicembre 2009, da quando è stato attuato il dispositivo, sono arrivati in Italia 3.185 clandestini, a fronte dei 31.281 sbarcati nello stesso periodo dell’anno precedente, con una riduzione di circa il 90 per cento. Di questi 31.281 sbarcati nel 2008, 3.185 nel 2009, i cosiddetti «respingimenti » hanno riguardato 834 persone, mentre le altre non sono proprio partite dalla Libia”.
Secondo quanto affermato dal ministro dell0interno, “tale trend positivo trova conferma nei dati dell’anno in corso ( 2010). Al 4 aprile risultano sbarcati in Italia 170 clandestini rispetto ai 4.573 dell’analogo periodo del 2009, con una flessione di oltre il 96 per cento. La maggior parte di questi clandestini è giunta sul nostro territorio portata da barche, da pescherecci e non da barconi, e la maggioranza non dalla Libia, ma dalla Tunisia e da altri territori”.
Come riferiva Maroni nella sua relazione al Comitato interparlamentare Schengen, “il ruolo primario assunto dall’Italia nell’ambito dei rapporti tra l’Unione europea e la Libia è stato ampiamente riconosciuto dalla stessa Commissione europea, che ha voluto l’Italia come capofila del progetto « Sahara med » di cooperazione di polizia con la Libia, cofinanziato dalla stessa Unione europea con 10 milioni di euro, oltre ai 600.000 euro dell’Italia, per la prevenzione e la gestione dei flussi di immigrazione irregolare dal deserto del Sahara al Mar Mediterraneo, attraverso il potenziamento del capacity building delle forze di polizia libica. L’iniziativa è stata presa in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e con la Grecia, intende fornire assistenza e consulenza tecnica alle autorità libiche per un periodo di tre anni ed è già stata avviata fin dallo scorso mese di febbraio” (2010). Sempre secondo il ministro dell’interno , “per quanto concerne le risultanze dei recenti accordi bilaterali sottoscritti con i rappresentanti dei Paesi africani ai fini del controllo dei flussi clandestini, anche in relazione all’imminente entrata in vigore del nuovo codice dei visti Schengen, l’Italia ha da tempo avviato un dialogo permanente con i Paesi dell’Africa e del Mediterraneo, ritenendo di fondamentale importanza lo sviluppo e il rafforzamento della cooperazione con i Paesi di origine e di transito dei flussi di immigrazione illegale. Tale collaborazione si basa su una serie di punti: l’attuazione di programmi di assistenza tecnica, che prevedono la cessione gratuita di mezzi e tecnologie da impiegare nella lotta all’immigrazione clandestina, nonché di attività di formazione e addestramento del personale e di visite di studio, il distacco di ufficiali di collegamento e lo scambio di personale, l’attivazione di canali diretti per lo scambio di informazioni strategiche, operative e investigative, il coinvolgimento delle forze di polizia dei Paesi terzi rivieraschi nei dispositivi di pattugliamento in mare”. Tra le più recenti iniziative di collaborazione operativa assunte dall’Italia in questo contesto quelle con Algeria, Nigeria, Ghana, Niger, Senegal, Gambia, Sudan Somalia, Eritrea, Etiopia, oltre alla Libia.
Solo il governo italiano continua a ritenere che dalla Libia non arrivino migranti richiedenti asilo, una circostanza ben nota invece al Parlamento Europeo che nella sua risoluzione del 17 giugno 2010, sulla base dei dati forniti dall`ACNUR, richiama proprio gli eritrei come la componente più consistente dei migranti detenuti nei centri libici, “selon le HCR, 9 000 réfugiés – principalement palestiniens, iraquiens, soudanais et somaliens – ont été enregistrés en Libye, dont 3 700 sont demandeurs d`asile, essentiellement en provenance de l`Érythrée; que les réfugiés risquent constamment d`être déportés vers leurs pays d`origine et de transit en violation des critères de la convention de Genève, et d`être ainsi exposés aux persécutions et à la mort; que des cas de mauvais traitements, de torture et de meurtres ont été rapportés dans les centres de rétention pour les réfugiés, ainsi que des abandons de réfugiés dans les déserts situés aux frontières entre la Libye et les autres pays africains”. L’Italia è rimasta sorda di fronte alle richieste di fare arrivare nel nostro paese i potenziali richiedenti asilo trattenuti in Libia, come gli eritrei, che così non hanno avuto altra via di fuga che tentare di raggiungere Israele attraversando l’Egitto. L’intesa con Gheddafi si è “cementata” proprio sulla gestione dei flussi migratori, ed i vantaggi economici si stanno realizzando, con la quasi certa assegnazione ad una ditta italiana dell’appalto per la costruzione dell’autostrada che dovrebbe unire le città libiche che si affacciano sul Mediterraneo. E altre ditte italiane stanno fortificando con sistemi di controlli elettronico la frontiera meridionale della Libia con il Chad ed il Niger.
L`Italia continua così a sostenere le politiche ricattatorie di Gheddafi, accompagnate magari dal sequestro occasionale di qualche peschereccio mazarese, bloccato dai libici in acque internazionali, oppure da “piccoli incidenti” come le aggressioni a colpi di mitraglia ad altri pescherecci italiani mentre pescavano in acque sulle quali i libici, proprio dopo gli accordi con l’Italia, rivendicano la loro sovranità. Neppure un cenno -nelle informative di Maroni- sulla sorte dei migranti rinchiusi nei centri di detenzione libici ( che lo stesso Maroni afferma di avere visitato e di avere trovato in buone condizioni). Quegli stessi immigrati, in gran parte eritrei, che sono stati poi liberati da Gheddafi, per essere quindi espulsi alla scadenza dei permessi provvisori per lavoro, concessi dalle autorità libiche per soli tre mesi, di fronte alla indignazione della comunità internazionale dopo le violenze perpetrate dalla polizia nelle carceri di Misurata e di Brak, nell’estate del 2010. E si deve registrare ancora la chiusura della sede dell`ACNUR a Tripoli, il cui personale è stato accusato l’ 8 giugno 2010 di svolgere attività illegali, una sede che al governo italiano era servita proprio per legittimare, anche in Parlamento, la politica dei respingimenti collettive e la collaborazione con le forze di polizia libiche. E, a luglio del 2010, una maggioranza trasversale in Parlamento aveva ratificato l’invio di militari italiani in Libia. Ed ancora oggi si vorrebbero finanziare organizzazioni non governative per procedere anche in Libia nelle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera e delle procedure di asilo, magari con l’etichetta dei “rimpatri volontari assistiti”. Intanto in Europa, ed in particolare in Italia, il numero dei richiedenti asilo è in drastico calo, dalla Libia non passa più nessuno. Di fatto il diritto d’asilo, che comprende anche il diritto di accesso al territorio ed il diritto di accesso alla procedura, è stato cancellato dalla Costituzione italiana e dalle Direttive comunitarie, come le vite di tanti migranti in fuga da guerre e persecuzioni di ogni genere.
La dipendenza che il governo italiano subisce nei confronti della Libia è intanto diventata tale che qualsiasi protesta sulla violazione dei diritti umani potrebbe avere come immediata ritorsione il blocco dei rifornimenti di gas e petrolio che quel paese ci garantisce. I dossier di Wikileaks confermano adesso quanto viene denunciato da anni, la stretta commistione tra accordi commerciali e le politiche di collaborazione nel blocco delle rotte dell’immigrazione irregolare. Violenze sempre più gravi, dentro ed adesso anche fuori la Libia, in Egitto ma sempre riconducibili alle decisioni di espulsione del governo libico, senza che i politici italiani avvertano la necessità di revocare gli accordi di respingimento e di riammissione stipulati con Gheddafi. Ma le responsabilità non sono soltanto italiane, anche se l’Italia si sta mostrando il paese guida, all’interno dell’Unione Europea, per sollecitare politiche sempre più repressive nei confronti dei migranti.
Il Parlamento europeo aveva affermato a giugno che “que toute coopération ou accord entre l`UE et la Libye doit être subordonné à la ratification et à l`application par la Libye de la convention de Genève sur les réfugiés et des autres conventions et protocoles majeurs en matière de droits de l`homme; ed aveva incaricato il suo Presidente “de transmettre la présente résolution au Conseil, à la Commission, aux États membres, ainsi qu`à l`Assemblée générale des Nations unies, au Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés et aux autorités libyennes”, ma le altre istituzioni dell’ Unione Europea non hanno mosso neppure un dito per impedire alla Libia di proseguire nelle sue continue e gravissime violazioni dei diritti della persona umana, ed anzi la Commissaria Cecilia Malmstrom, dopo un suo viaggio a Tripoli, sta continuando a premere per un accordo tra Unione Europea e Libia per il contrasto dell’immigrazione clandestina, come se dimenticasse che la maggior parte dei migranti che, negli anni passati, arrivavano in Italia dalla Libia erano richiedenti asilo. Un accordo operativo appare però assai lontanto dopo che Gheddafi ha alzato la posta del ricatto che vorrebbe imporre all’Europa. Ma intanto l’Europa, come l’Italia, rimane distante dalle tragedie che si consumano nei paesi di transito. Nei prossimi mesi saranno tutte da valutare le conseguenze dei sollevamenti popolari nei paesi del Maghreb sui movimenti migratori e sugli spostamenti dei richiedenti asilo provenienti da altre regioni. Dopo la “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia, le crisi dei regimi dittatoriali in Algeria ed Egitto, governo verso i quali la Libia ha rivolto un continuo sostegno, potrebbe determinare il futuro isolamento del governo libico e la fine delle sue relazioni privilegiate con l’Europa. Ma è assai preoccupante la saldatura tra gruppi appartenenti al fondamentalismo islamico e le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico e la tratta dei clandestini, come si sta verificando a Rafah, al confine tra Egitto ed Israele. Le prime vittime in territori abbandonati alla violenza delle bande armate saranno proprio gli immigrati irregolari, i richiedenti asilo, le donne, i soggetti più giovani e vulnerabili che si troveranno tra due fuochi, da una parte i trafficanti , dall’altra la polizia, o quello che ne rimarrà dopo i sovvertimenti politici e militari che si annunciano in molti paesi del Maghreb.
4. I rapporti dell’Italia con la Tunisia e l’Algeria nel contrasto dell’immigrazione irregolare.
La Tunisia, che già aveva firmato un accordo di riammissione con il nostro paese nel luglio del 1998, a seguito di un viaggio a Tunisi dell’allora ministro dell’interno Napolitano, era stata oggetto di una particolare attenzione da parte del governo italiano, proprio quando accanto alla tradizionale componente di migranti economici, cominciavano ad arrivare da quel paese centinaia di giovani in fuga dalla durissima repressione poliziesca ordinata da Ben Ali a seguito della sommossa popolare di Redeyef, la scintilla che doveva portare dopo quasi due anni alla fuga del dittatore tunisino ed a nuove elezioni. Del resto fino ai primi giorni del 2011 non sono mancate le dichiarazioni di sostegno a Ben Ali da parte di autorevoli rappresentanti del governo, come Frattini.
Il 28 gennaio 2009 veniva raggiunta a Tunisi una intesa tra il ministro dell’Interno Maroni, accompagnato dal capo della polizia Manganelli, ed il collega tunisino Rafik Belhaj Kacem al fine di garantire identificazioni più rapide per i cittadini tunisini presenti nei Cie italiani e il rimpatrio dei migranti provenienti dalla Tunisia che in quel periodo erano riusciti a raggiungere Lampedusa. Persone che fuggivano dalla durissima repressione seguita alla protesta dei minatori e degli strati emarginati della popolazione di Gafsa, uno dei distretti più poveri del paese governato da Ben Alì. L’incontro consentiva di raggiungere un’intesa su alcuni punti specifici ( fonte Ministero dell’interno):
“1) intensificazione della lotta al fenomeno della tratta degli esseri umani e di ogni forma di organizzazione criminale che sfrutta l’immigrazione clandestina;
2) definizione di un piano che prevede da un lato la semplificazione e l’accelerazione delle procedure necessarie all’identificazione degli immigrati tunisini presenti nei Cie italiani, e dall’altro il rimpatrio graduale e costante di coloro che sono già stati identificati e che si trovano attualmente nelle strutture di Lampedusa, entro il termine massimo di due mesi;
3) prosecuzione dell’azione di sostegno alla Tunisia, come già previsto dagli accordi che si sono succeduti a partire dal ’98, per prevenire e contrastare il fenomeno dell’immigrazione illegale”
. Veniva inoltre, avviato un progetto che, attraverso l’utilizzo di fondi europei e il sostegno di organizzazioni internazionali, doveva incentivare forme di rimpatrio assistito. Dopo quell’intesa i rimpatri verso la Tunisia si sono moltiplicati, malgrado crescesse il numero dei migranti che presentavano una richiesta di protezione internazionale. Ma la situazione in Tunisia veniva ritenuta compatibile con la garanzia dei diritti fondamentali della persona, una opinione del governo italiano che i fatti di questi ultimi giorni stanno smentendo con tutta evidenza.
In quell’anno l’attivismo di Maroni e di Frattini si rivolgeva anche verso l’Algeria. Il 22 luglio 2009, la conclusione ad Algeri di un memorandum of understanding a firma dei capi delle polizie dei due Paesi costituiva, secondo il ministro Maroni, “il rafforzamento della già ottima collaborazione in atto in materia di lotta alla criminalità transnazionale sotto ogni forma e in particolare al traffico di esseri umani. Sinora infatti si è registrata massima collaborazione nel rapido svolgimento da parte delle rappresentanze diplomatico-consolari algerine in Italia delle operazioni di identificazione dei loro connazionali giunti clandestinamente nel nostro Paese, operazioni propedeutiche al loro rimpatrio, unitamente al rafforzamento dei dispositivi di sorveglianza marittima algerini”.
Sempre secondo lo stesso Maroni ,“la collaborazione si è tradotta nell’azzeramento degli sbarchi in Sardegna e nella disponibilità a riaccogliere gli immigrati partiti dalle coste algerine e intercettati in mare. Ben 51 clandestini intercettati in acque internazionali sono stati consegnati all’Algeria nel corso di due distinte operazioni nel giugno e agosto 2009. Il memorandum prevede uno scambio di informazioni e di esperienze, formazione, visite di studio e stage tematici, nonché attività di consulenza e assistenza nei diversi settori di interesse. Avrà una durata di due anni rinnovabili e consentirà il distacco in Italia di ufficiali di polizia algerina”. E’ evidente che l’esempio da seguire per il governo italiano è quello della “collaborazione” tra Italia e Libia. Per tutto il 2011 quindi, in Algeria saranno dislocati agenti di collegamento tra la polizia italiana e quella algerina per contrastare la partenza degli “harragas”, i ragazzi che cercano di bruciare la frontiera per raggiungere l’Europa, per molti di loro l’unica prospettiva di sopravvivenza. E dopo le ultime manifestazioni di piazza seguite da una raffica di arresti, si può avere la prova evidente del tasso di democraticità del governo algerino, e delle forme di repressione messe in atto. Si deve quindi garantire a tutti gli algerini che ne facciano richiesta un esame equo ed imparziale delle domande di protezione internazionale, ed innanzitutto evitare la pratica dei respingimenti collettivi o i rimpatri forzati quando siano a rischio i diritti fondamentali della persona.
5. La tragedia dei profughi eritrei fuggiti dalla Libia in Egitto.
Dopo la celebrazione dei “successi storici” conseguiti nella “guerra all`immigrazione illegale”, con la chiusura quasi completa delle rotte dalla Libia e dall’Algeria verso Lampedusa e la Sardegna, ancora una volta la tragica realtà dei fatti ha inchiodato alle loro responsabilità quanti hanno anteposto ragioni di natura economica e facili vantaggi elettorali al rispetto dei diritti umani e della stessa vita dei migranti.
Il sequestro di centinaia di migranti eritrei, somali, sudanesi, in Egitto nel corso del 2010, le torture alle quali vengono sottoposti quotidianamente per estorcere altro danaro alle loro famiglie, le sei vittime note, e le altre probabilmente ignote, che si devono già contare, come i giovani eritrei uccisi nei mesi scorsi con una fucilata alle spalle, colpiti dalle guardie egiziane mentre tentavano di raggiungere la frontiera israeliana, sono conseguenze dirette ed evidenti del blocco di ogni via di fuga dalla Libia verso le coste italiane. Come al solito, in assenza di canali di ingresso legale, la chiusura di una rotta comporta immediatamente l’apertura di altre vie per l’immigrazione irregolare. Aumentano soltanto i costi e dunque i profitti delle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico di esseri umani. Quelle stesse organizzazioni che i governi annunciano di volere contrastare con misure che peggiorano soltanto la condizione di chi è costretto all’immigrazione irregolare, tra questi un numero sempre più elevato di richiedenti protezione internazionale.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in un comunicato urgente del 7 dicembre 2010 esprimeva forte preoccupazione per il gruppo di 250 persone, inclusi circa 80 eritrei, che da oltre un mese sono tenute in ostaggio dai trafficanti nel deserto del Sinai, in Egitto. Secondo le informazioni trasmesse all’UNHCR dall’agenzia Habeshia, i trafficanti hanno chiesto 8 mila dollari di riscatto per il rilascio di ciascuno degli ostaggi i quali sono sottoposti ad abusi e privazioni. Alcuni di loro si trovano in queste condizioni da mesi. L’UNHCR ha preso contatto con il governo egiziano ma la risposta è rimasta sul piano della correttezza dei rapporti diplomatici .
In particolare, dal Ministero dell’Interno egiziano sono state date rassicurazioni sugli sforzi messi in atto per localizzare gli ostaggi e organizzare il loro rilascio. Dopo queste dichiarazioni, nulla. Ogni anno migliaia di persone cercano di attraversare il confine egiziano per recarsi in Israele e spesso si affidano a trafficanti beduini che non tengono in alcun conto la loro sicurezza. Molte di queste persone sono migranti, mentre altri provengono da paesi di origine di rifugiati proprio come l’Eritrea. Secondo le linee guida dell’UNHCR, la maggior parte degli eritrei in fuga dal loro paese dovrebbero essere considerati rifugiati. Nel suo comunicato l’UNHCR continua a sollecitare le autorità egiziane affinché sia consentito ai suoi funzionari l’accesso a coloro che vengono arrestati durante il viaggio allo scopo di determinare quali tra questi siano da considerare rifugiati e bisognosi di protezione internazionale. In questi giorni nei quali in Egitto comandano le bande armate, mentre Moubarak si ostina a mantenere uno stato d’emergenza che dura da decenni, la vita dei profughi eritrei, e di qualsiasi altra nazionalità, è ancora più a rischio, ma non sembra che qualcuno nella comunità internazionale se ne sia accorto, ed il nostro paese continua a comminare espulsioni con accompagnamento forzato anche nei confronti degli egiziani, come dei tunisini e degli algerini, in violazione delle garanzie offerte dalla direttiva comunitaria 2008/115/CE sui rimpatri.
Cosa fa l’Egitto per impedire che i migranti in fuga dal Corno d’Africa vengano sequestrati, torturati ed uccisi dalle bande dei trafficanti che in quel paese hanno campo libero. Nulla. Cosa fa la Libia ? Si limita a fare fuggire verso l’Egitto quei migranti che non trova più conveniente detenere, magari quegli stessi migranti che l’Italia ha respinto negli anni passati, o quelli che le guardie libiche più recentemente sono riuscite a riprendere in acque internazionali, con le motovedette ed il personale della guardia di finanza garantiti dal governo italiano. E cosa fa il nostro governo, il ministro degli esteri Frattini, il capo del governo così “intimo” di Mubarak, di fronte al sequestro degli eritrei nel Sinai egiziano ed alle torture che sono state denunciate anche dal Vaticano? Silenzio, ipocrisia e ancora un rilancio della politica della paura, della paura degli immigrati, una facile strumentalizzazione che già in passato ha garantito un sicuro successo elettorale. Anche sulla pelle di quei migranti che i trafficanti egiziani marchiano a fuoco. Se non si annega più tra Zuwara e Lampedusa, si muore nei deserti africani o nel Sinai, nella terra di nessuno tra Israele ed Egitto. Ed anche quando i migranti riescono a fuggire dalle bande di predoni o pagano per salvare la loro vita, la polizia egiziana li arresta e tenta di rinviarli nei paesi di origine, anche quando sono a rischio di subire torture o trattamenti inumani o degradanti, vietati dalla Convenzione di Ginevra ( art.33- Principio di non refoulement). Il “Land Center for Human Rights” del Cairo, già il 28 giugno 2006, in un rapporto su “Europe and illegal migration in Egypt between responsibilities and duty”, rilevava : “how Egyptian security forces inhumanely deal with the phenomena of illegal migration, especially with the young people migrating who are considered as victime to the wrong doing of the illegal migration mafias.
6. La collaborazione tra il governo italiano e l’Egitto di Moubarak.
Il governo italiano non è ancora intervenuto sul governo libico e su quello egiziano nei casi di sequestro di migranti eritrei, somali e di altre nazionalità, che potrebbero essere riconosciuti ovunque come titolari del diritto di asilo e della protezione temporanea ma rimangono bloccati nel deserto del Sinai, alla mercé di bande di trafficanti che – se i parenti non pagano le somme richieste – li utilizzano anche per il traffico di organi. Eppure l’Egitto, in materia di immigrazione, è da sempre un partner privilegiato dei vari governi che si sono succeduti nel nostro paese. Dopo avere perduto mesi nei quali poche associazioni hanno denunciato gli abusi dei trafficanti nel Sinai e della polizia egiziana, l’attuale situazione che si registra in quella regione impone un rilancio dell’allarme per gli eritrei bloccati nel Sinai, persone che potrebbero essere ancora uccise o trafficate.
Le espulsioni ed i respingimenti collettivi verso l’Egitto sono continuati ancora per tutto il 2010. Dopo la messa a regime degli accordi che prevedono non più i respingimenti collettivi in Libia, ma l’intervento delle motovedette italo-libiche con a bordo esponenti della Guardia di Finanza, nella veste di “osservatori”, l’Italia ha dato nuovo impulso alla collaborazione con il governo egiziano, allo scopo di espellere o respingere verso quel paese il maggior numero possibile di immigrati irregolari, senza curarsi della possibilità che tra questi ci possano essere richiedenti protezione internazionale. Dal mese di marzo del 2007 centinaia di cittadini egiziani irregolarmente giunti in Italia, o salvati in mare da mezzi della nostra marina militare e poi condotti nell’isola di Lampedusa, o sulle coste pugliesi, sono stati rimpatriati in Egitto, dopo un riconoscimento sommario da parte di agenti consolari di quel paese, senza avere la effettiva possibilità di presentare una richiesta di asilo. Anche in questo caso si è trattato di espulsioni collettive, vietate dall’art.4 del Protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Dopo il rimpatrio in Egitto gli stessi migranti espulsi dall’Italia sono stati sottoposti ad una dura detenzione ed a violenze di ogni genere.
Alcuni risultano addirittura scomparsi. Certo tutti avranno dichiarato la loro identità e nazionalità.
Come denunciato dall’ACNUR, dall’ASGI e dalla Caritas di Catania, dopo lo sbarco sulle coste della Sicilia orientale del 26 ottobre 2010, sono stati rimpatriati 68 migranti (con un volo diretto a Il Cairo), 44 minori sono stati inseriti nel circuito delle comunità alloggio protette, altri 17 migranti sono stati arrestati con l’accusa di essere trafficanti. Gli immigrati dichiaravano di essere palestinesi, ma secondo le forze dell’ordine erano egiziani. “Indipendentemente dalla loro nazionalità – ha dichiarato il direttore della Caritas Catania – non è stato concesso loro il tempo e la possibilità di istruire una pratica per l’iter di asilo politico, come da normativa, lasciando poi valutare la situazione a chi è competente nel giudizio. E questo avviene in uno Stato di diritto”. All’aeroporto di Catania era presente un agente consolare egiziano che effettuava i riconoscimenti, mentre in un altra stanza alcuni avvocati attendevano invano che qualcuno presentasse richiesta di protezione internazionale. Una richiesta evidentemente troppo pericolosa per chi, grazie alle scelte del ministero dell’interno del nostro democratico paese, era stato già identificato dal proprio ufficio consolare.
Nel corso del 2010 si è registrato dunque un altro “salto di qualità”nella collaborazione tra Italia ed Egitto, dopo la chiusura, grazie all’intervento in quel paese di unità militari italiane, nel 2004, della “rotta di Suez”, un operazione che aveva comportato la riconsegna al governo cingalese di migliaia di tamil in fuga dalla guerra civile. Pratiche di cooperazione di polizia tra Italia ed Egitto queste, che avevano esposto alla tortura, e forse alla morte, molti di coloro che erano stati deportati dal Cairo a Colombo. In un paese che non riconosce ancora il reato di tortura sembra sempre più “normale” che i migranti in fuga, soprattutto nei paesi di transito, possano essere seviziati ed uccisi. Ed anche quando si tratta di cittadini provenienti proprio da questi paesi, come gli egiziani, se lo scopo è quello di respingerli in massa, non si rispettano neppure le procedure previste dalla legge e dalle direttive comunitarie.
Le operazioni di riammissione tra Italia ed Egitto, con voli diretti da Catania e da Roma al Cairo, sono rese possibili dall’accordo di collaborazione firmato proprio nel gennaio del 2007 dal governo italiano, in persona del sottosegretario agli esteri Intini e alla presenza del viceministro all’interno Lucidi, accordo che, in cambio di qualche migliaio di posti riservati ai lavoratori egiziani nelle quote ammesse annualmente con i decreti flussi, consentiva forme di attribuzione della nazionalità, se non della identità personale e dell’età, assai celeri, spesso sommari, grazie anche alla collaborazione di funzionari e interpreti egiziani presenti in Italia. Una volta giunti in aeroporto in Egitto non mancavano certo alla polizia egiziani i mezzi, fino alla pratica abituale della tortura, per accertare identità e provenienza dei malcapitati espulsi dalla polizia italiana.
Da questo punto di vista, la politica estera italiana è assolutamente coerente, malgrado il cambio dei governi. Già nel 2005, infatti, tra il governo italiano e quello egiziano esisteva un “Accordo di cooperazione in materia di flussi migratori bilaterali per motivi di lavoro”, siglato al Cairo il 28 novembre 2005 dall’allora ministro del lavoro Roberto Maroni. Nel testo dell’accordo si prevedeva che i due governi, al fine di “gestire in modo efficiente i flussi migratori e prevenire la migrazione illegale”, si impegnano a facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoratori migranti da e per l’Egitto. Il governo italiano, dal canto suo, si impegnava a valutare l’attribuzione di una speciale quota annuale per lavoratori migranti egiziani. Nel protocollo esecutivo si leggeva che il ministero del Lavoro e delle politiche sociali italiano comunicheranno all’omologo egiziano i criteri, ai sensi della normativa italiana, per redigere una lista di lavoratori egiziani disponibili a svolgere un’attività lavorativa subordinata anche stagionale in Italia. La lista dovrà essere pubblicata sul sito web del ministero del Lavoro italiano”. Non si sa quanti lavoratori egiziani siano effettivamente arrivati in Italia con un visto di ingresso, anche perché il governo italiano ha ridotto drasticamente i decreti flussi annuali, ed ha sbarrato qualunque possibilità di ingresso per lavoro. Un regalo immenso fatto alle organizzazioni criminali che “commerciano” i migranti nel loro viaggio e poi li sfruttano, riducendoli in condizioni di servitù, quando una volta giunti in Italia devono pagare I loro debiti. Un trattamento più crudele è invece riservato ai richiedenti asilo, che “valgono” di più. Se I loro parenti non pagano, torture fino alla morte, come sta avvenendo in questi giorni nel deserto del Sinai, e per qualcuno persino l’espianto forzato di organi, una vera ignominia sulla quale la comunità internazionale non può continuare a tacere.
7 .Verso nuove politiche comunitarie, e forse a livello interno, in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare.
L’Italia deve denunciare gli accordi di respingimento e di riammissione con la Libia e con l’Egitto perché non garantiscono il rispetto dei diritti umani dei migranti. Certo è difficile attendere dal governo italiano e dai vertici delle forze di polizia alcuna umanità, dopo anni di stretta collaborazione con le autorità algerine, tunisine, egiziane e libiche. Sono troppi i rapporti delle agenzie internazionali come HRW, MSF ed Amnesty che il governo italiano ha irriso giungendo ad attaccare sistematicamente l`Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e gli avvocati che difendono coloro che, dopo avere subito un respingimento collettivo, di massa, di fatto una deportazione, vietata da tutte le convenzioni internazionali, riescono a presentare un ricorso contro l`Italia davanti alla Corte Europea dei diritti dell`Uomo. Se qualcuno volesse dare un segno di discontinuità rispetto alle politiche disumane praticate in materia di immigrazione ed asilo sarebbe questo il momento, ma le forze di opposizione sembrano solo degli spettatori infastiditi davanti alle tragedie che si consumano quotidianamente sulla pelle dei migranti ai confini, ormai esternalizzati in Africa ed in Asia, della fortezza Europa.
Si deve esigere da parte di tutta l’Unione Europea una iniziativa urgente in modo che tutti i paesi di transito, ed in particolare la Libia e l’Egitto garantiscano una protezione effettiva a tutti coloro che fuggono dal loro paese, come nel caso dei profughi ancora in questi giorni sequestrati dalle organizzazioni dei trafficanti nel Sinai. Un territorio che ormai è sfuggito a qualsiasi controllo, dove le bande armate imperversano, dove migliaia di migranti, giovani, donne e banbini sono stati abbandonati al loro destino per la colpevole inerzia degli stati che, quando ancora era possibile, non hanno fatto nulla per la loro liberazione.
Di fronte a fatti tanto gravi cresce la responsabilità delle istituzioni internazionali. Attendiamo ancora le decisioni della Corte di Strasburgo sui ricorsi presentati dopo i respingimenti collettivi in Libia effettuati dall’Italia il 6 e 7 maggio del 2009, e sui ricorsi inviati dai migranti afghani e di altre nazionalità, alcuni dei quali minori di età, respinti alle frontiere portuali dell’Adriatico, in particolare da Venezia e da Ancona, verso la Grecia. Intanto il sequestro di migranti eritrei in Egitto, nel deserto del Sinai, dopo gli abusi e le violenze di Misurata, di Sebha, di Brak e di altri centri di detenzione in Libia, come lo stillicidio di vittime tra coloro che dalla Grecia cercano di raggiungere i porti dell’Adriatico, oppure sono costretti a scegliere la rotta turca verso la Grecia e la Bulgaria, costituiscono una pietra tombale sulla dignità di tutte le persone che hanno contribuito, direttamente o indirettamente, a produrli, ma anche una macchia sull’onore di tutti gli italiani che non si ribellano a queste politiche di morte e di deportazione.
Riferimenti bibliografici
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