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Riforma del T.U. in materia di immigrazione: un commento alle note del Ministro Amato

A cura dell'Avv. Paolo Cognini

Le “Note per la riforma del Testo Unico dell’Immigrazione” elaborate dal Ministro dell’Interno per la Commissione Affari Costituzionali del Senato, non sono un testo di legge: ogni valutazione in merito, di conseguenza, non può che essere approssimativa e dovrà successivamente essere verificata sull’articolato di legge. Ciononostante dal testo delle note è possibile cogliere alcune coordinate di fondo dell’intervento normativo che il Governo in carica sta “confezionando” in materia di immigrazione.
Nelle considerazioni che seguono, oltre ad esaminare le modifiche più rilevanti prefigurate dal ministro, ho voluto, senza alcuna pretesa di lungimiranza, ipotizzare anche alcuni dei possibili effetti ad esse ricollegabili.

Decreto flussi: quote piu’ flessibili ed allargamento dei poteri di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri
Tra le proposte di riforma del T.U. in materia di immigrazione, il ministro Amato ha inserito la triennalizzazione del decreto flussi. Secondo il ministro tale modifica consentirà un programmazione più realistica delle necessità di medio-lungo periodo e faciliterà ai lavoratori non comunitari la pianificazione del proprio inserimento lavorativo in Italia. Le argomentazioni addotte a fondamento della modifica proposta appaiono, tuttavia, poco credibili considerato che nella vigente normativa esiste già uno strumento preposto all’elaborazione di una previsionale di respiro triennale: si tratta del “documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato”, previsto dall’art.3, co.1, del D.Lgs.286/98.
E’ evidente che la necessità di rendere più puntuale e stringente la programmazione triennale potrebbe essere risolta intervenendo sul già previsto documento programmatico.
Perchè, allora, si ricorre alla triennalizzazione del decreto-flussi? Per una ragione molto semplice: il problema che il ministro si propone di risolvere non è tanto il miglioramento degli strumenti programmatici di medio-lungo periodo, quanto, piuttosto, la flessibilizzazione delle quote annuali attraverso la semplificazione delle procedure per il loro adeguamento in itinere. Come enunciato dal Ministro la triennalizzazione del decreto-flussi sarà accompagnata dalla possibilità di una revisione annuale delle quote, che verrà attuata secondo una procedura particolarmente “snella”: il Presidente del Consiglio dei Ministri potrà, infatti, aumentare o ridurre tali quote attraverso una procedura che sostanzialmente si riduce alla consultazione del Comitato per il Coordinamento ed il Monitoraggio, organismo di emanazione governativa istituito dalla Bossi-Fini.
E’ vero che il ministro prefigura un allargamento dei soggetti che saranno presenti all’interno del Comitato, ma, ciononostante, le procedure per l’adeguamento delle quote annuali subiranno una evidente contrazione a vantaggio dei poteri di intervento del governo. In sostanza, a giudizio di chi scrive, il decreto flussi triennale finirà, in linea di massima, con lo svolgere la medesima funzione attualmente assegnata al Documento programmatico, mentre l’effettiva definizione delle quote annuali finirà con l’essere ancora più concentrata nell’esecutivo, che, con maggiore agilità, potrà estenderle o ridurle secondo una procedura fortemente semplificata e sulla base delle priorità che di volta in volta andrà ad individuare.

Liste di ingresso per lavoro presso le rappresentanze diplomatiche: un dispositivo pericoloso
Come rilevato da più parti, l’idea di predisporre una sorta di “lista di collocamento” presso le rappresentanze diplomatiche italiane non è affatto nuova: si tratta di un istituto già presente nella normativa vigente (vedi art.21, co.5, T.U. e art. 32 D.p.r.394/99).
La novità consisterebbe, eventualmente, non tanto nell’ideazione dell’istituto, quanto piuttosto, nelle sue modalità di funzionamento e nella sua effettiva attivazione.
Ma è veramente auspicabile l’attivazione di “liste di collocamento” sui generis presso le ambasciate italiane? Sicuramente i problemi connessi all’attivazione di tale istituto alla luce delle modalità prefigurate dal ministro, non sono di poco conto. Intanto va rilevato, con un giusto senso di realismo, che molte rappresentanze diplomatiche e consolari italiane nel mondo non brillano certo per trasparenza.
Chi in questi anni ha lavorato nel settore, conosce bene gli elementi di criticità che si registrano presso le rappresentanze diplomatiche, costantemente accompagnati dall’enorme difficoltà a conseguire riscontri certi ed imputabili dell’operato dei funzionari: non in ultimo vanno segnalati i numerosi casi di richieste illegittime (anche di natura economica) avanzate nei confronti dei cittadini non comunitari per l’assolvimento delle procedure finalizzate all’ ingresso in territorio italiano.
Un altro aspetto di estrema preoccupazione mi sembra che vada individuato nell’idea stessa di “selezione in loco” della mano d’opera, un meccanismo che tende a ridurre ulteriormente le implicazioni umane del fenomeno migratorio a vantaggio di quelle eminentemente produttive. Come chiarito dal ministro (e come già prefigurato dall’attuale art.23 del T.U., inserito dalla Bossi-Fini), nella formazione delle graduatorie di lista costituirà titolo preferenziale, non solo l’anzianità di iscrizione, ma anche l’aver frequentato corsi di formazione al lavoro organizzati nel Paese di provenienza da enti pubblici o privati italiani (ed, eventualmente, anche stranieri).
E’ evidente che l’intero sistema potrà decollare solo se tali corsi garantiranno una buona remunerazione all’ente organizzatore e se l’ente organizzatore riuscirà ad accreditarsi come un soggetto credibile di pre-selezione della mano d’opera. Una pre-selezione dove le conoscenze formalmente acquisite dal lavoratore avranno sì un ruolo, ma, probabilmente, non esclusivo: è facile immaginare che tale selezione sarà condizionata anche dalla valutazione, non ufficiale, di altre “caratteristiche” del lavoratore, in particolare di tutte quelle che incidono sulla sua generale “affidabilità”.
In sostanza, la prospettiva di una effettiva attivazione del sistema delle liste di ingresso per lavoro risulta realisticamente fondata su tre requisiti, certo non rassicuranti:
. appetibile remunerazione dei soggetti preposti alla formazione e selezione della mano d’opera (che comporterà anche consistenti costi di iscrizione ai corsi);
. garanzia di qualità ed affidabilità della mano d’opera;

. possibilità per i soggetti preposti alla formazione e selezione della mano d’opera di acquisire funzioni, più o meno mascherate, di intermediazione nel mercato del lavoro non comunitario.
A tale ultimo aspetto appare, almeno in parte, finalizzata la proposta di reintrodurre l’istituto dello sponsor, pensato in forma ben diversa rispetto alla versione originariamente disciplinata dalla Turco-Napolitano.

Lo sponsor: i rischi di intermediazione nel mercato del lavoro
Dalle note del ministro Amato sulla proposta di riforma emerge chiaramente che la riproposizione della figura dello sponsor non ricalca affatto l’originario istituto previsto dalla Turco-Napolitano. Originariamente la prestazione di garanzia per l’accesso al lavoro poteva essere effettuata dal singolo cittadino, italiano o straniero regolarmente soggiornante, il quale, previa prestazione di garanzia per la copertura dei costi di sostentamento ed assistenza sanitaria, poteva richiedere l’autorizzazione all’ingresso del lavoratore non comunitario affinchè questi provvedesse direttamente alla ricerca di un’attività lavorativa nel mercato del lavoro interno.
L’istituto dello sponsor, così come riformulato dal ministro Amato, non consentirebbe più al singolo cittadino di prestare la garanzia: il ruolo dello sponsor sarebbe riservato esclusivamente ad enti pubblici o privati (come, ad esempio, associazioni imprenditoriali e professionali). Secondo la procedura tracciata dal ministro, l’ente garante, acquisite le domande formulate dai datori di lavoro nei limiti delle quote-flussi, provvederebbe a richiedere il nullaosta all’ingresso scegliendo i lavoratori tra quelli iscritti nelle liste che abbiamo trattato nel punto precedente. Non a caso nelle note sulla riforma si specifica che lo sponsor “aiuterà” il datore di lavoro sia nell’iter burocratico, sia nella scelta del lavoratore. Una volta che il lavoratore avrà conseguito il “permesso di soggiorno per inserimento nel mercato del lavoro” (di durata annuale), lo sponsor provvederà ad affidare il lavoratore in prova all’imprenditore: se la prova avrà esito positivo, il permesso di soggiorno per inserimento verrà convertito in permesso di soggiorno per lavoro subordinato; se la prova avrà esito negativo, il lavoratore tornerà nella disponibilità dello sponsor che potrà “proporlo” ad altro datore di lavoro.
Decorso un anno, il lavoratore che non sia riuscito a convertire il permesso di soggiorno sarà tenuto a lasciare il territorio nazionale.
Una simile procedura, nell’ambito della quale l’ente garante e le liste di ingresso risultano tra loro coordinati, mi sembra che tenda ad assegnare allo sponsor il ruolo di vero e proprio soggetto di intermediazione nella gestione della mano d’opera migrante, con tutti i rischi che ne derivano a carico del lavoratore.

Espulsioni e centri di permanenza temporanei
Sotto il profilo delle espulsioni il primo dato da registrare riguarda il mantenimento delle sanzioni penali per la mancata ottemperanza all’ordine di allontanamento dal territorio nazionale. Pur affermando la necessità di una revisione di tali sanzioni, anche alla luce dei pronunciamenti in materia della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, il ministro ribadisce espressamente la necessità che il sistema sanzionatorio mantenga la sua natura penale con la conseguente qualificazione dei comportamenti di inottemperanza come reati.
Al fine di favorire l’effettiva esecuzione dell’espulsione viene, inoltre, ipotizzato una sorta di “sistema premiale” in base al quale l’immigrato che collaborerà fattivamente alla propria espulsione (per esempio consentendo di individuare la propria esatta identità e nazionalità), potrà essere compensato con una riduzione dei tempi di divieto di reingresso nel territorio italiano (attualmente pari a 10 anni). Tale sistema premiale sarebbe accessibile per una sola volta ai soggetti ritenuti non pericolosi: in tutte le altre ipotesi il sistema delle espulsioni resterebbe pressochè invariato. Anche per quanto riguarda i Centri di Permanenza Temporanea, lungi dal prospettare una loro chiusura, il ministro ne ribadisce l’irrinunciabilità sia come strumento di repressione e controllo, sia come strumento di deterrenza e prevenzione.
Nel capitolo dedicato ai Cpt (che in futuro si chiameranno Cpta – Centri di Permanenza Temporanea ed Assistita) il ministro afferma che sarà possibile depotenziarne l’utilizzo prevedendo che il trattenimento a carattere detentivo non sia più conseguenza automatica del decreto di espulsione, bensì strumento riservato ai soli casi di accertata pericolosità sociale. Sull’onda di tale ragionamento si ipotizza una distinzione tra “Centri per l’esecuzione dell’espulsione” a carattere strettamente detentivo, riservati ai soggetti “più inclini all’illegalità e di più elevata pericolosità sociale”, e “Strutture di accoglienza”, riservate agli irregolari in condizioni di bisogno, finalizzate, anche a tutela della “salute pubblica”, a garantire la necessaria assistenza fino all’esatta definizione della posizione giuridica dell’irregolare.
In ogni caso, entrambe le tipologie di strutture potrebbero essere collocate nel medesimo sito, che verrebbe così ripartito in sezioni più “dure” e meno “dure” (esattamente come accade in un carcere). Si tratta di un capitolo molto confuso in cui l’unico elemento che emerge con chiarezza riguarda il sicuro mantenimento dei Cpt. Per il resto mi sembra che, tra le righe, emerga un sistema di espulsione e detenzione amministrativa che funzionerebbe più o meno in questa maniera:
1. All’immigrato fermato in posizione irregolare, qualora non risultino a suo carico determinati procedimenti penali, viene dapprima proposta una sorta di “espulsione partecipata” che, in cambio della sua collaborazione, consente di ridurre i tempi del divieto di reingresso;

2. Se l’irregolare non collabora, viene considerato incline all’illegalità e pertanto suscettibile di essere rinchiuso nel Cpta;
3. La detenzione amministrativa può essere da subito disposta a carico dell’irregolare che risulti sottoposto a determinati procedimenti penali o che risulti aver già goduto del beneficio dell'”espulsione partecipata”: in questo ultimo caso sarebbero previste anche pesanti ed aggiuntive sanzioni penali;
4. L’irregolare fermato in stato di bisogno o che, comunque, presenta caratteristiche di “minore allarme sociale” (è il caso, ad esempio, della condizione di irregolarità che si sia originata dalla scadenza, senza rinnovo, di un precedente titolo di soggiorno), viene assistito in una struttura di accoglienza fino alla cessazione delle eventuali esigenze sanitarie e fino alla definizione della sua esatta posizione giuridica; successivamente viene “smistato” secondo le ipotesi precedenti;
5. Tutte le procedure sono caratterizzate da un ampio margine di discrezionalità nella valutazione della “pericolosità sociale” o della “tendenza all’illegalità” del soggetto fermato;
6. La mancata ottemperanza all’ordine di allontanamento dal territorio nazionale integra una violazione di natura penale, le cui caratteristiche dovranno essere adeguate alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione.
Oltre a riaffermare la necessità dei Centri di Permanenza Temporanea, il ministro Amato conferma anche il mantenimento dei Centri di Identificazione per Richiedenti Asilo, che propone di rinominare “Centri per Richiedenti Asilo”.

Altri aspetti
Complessivamente il tracciato che emerge dalle note del ministro sulle ipotesi di riforma appare ben lontano dall’abrogazione della Bossi-Fini: semmai potremmo dire di essere difronte ad una razionalizzazione delle modifiche introdotte nel 2002, chiamate oggi a fare i conti con la giurisprudenza, le direttive europee e la loro concreta applicazione sperimentata negli ultimi 4 anni. Ovviamente un intervento di razionalizzazione produce anche ricadute positive sull’assetto normativo: ciononostante rimane invariata la struttura portante di tale assetto, con tutte le abissali problematiche che denunciamo da anni.
Per quanto riguarda le ulteriori modifiche ipotizzate nelle note del ministro Amato, si segnalano:
1) Per il conseguimento della carta di soggiorno saranno sufficienti 5 anni di permanenza regolare (contro i 6 attualmente previsti): si tratta di una modifica indotta da una direttiva europea del 2003;
2) Per ricongiungersi con i genitori non sarà più necessario dimostrare l’assenza di altri figli nel Paese di origine o di provenienza: anche in questo caso si tratta di una modifica indotta da una direttiva europea del 2003. Va, tuttavia, sottolineato che il diritto a ricongiungersi con i propri genitori resta un diritto “condizionato”: sarà comunque necessario dimostrare che i genitori non dispongono nel Paese di provenienza di un “adeguato sostegno familiare”;
3) Il termine minimo semestrale di iscrizione al Centro per l’Impiego del lavoratore non comunitario che ha perso il posto di lavoro sarà portato ad 1 anno (questa parte appare però confusa e bisognerà verificare il testo di legge);
4) Verrà estesa la durata dei permessi di soggiorno e reintrodotta la possibilità di un rinnovo pari al doppio di quello previsto per il primo rilascio.
5) I termini per la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno verranno tutti unificati nel termine di 60 giorni: in pendenza del rinnovo, qualora la domanda sia stata presentata nei termini previsti, il permesso di soggiorno manterrà la propria validità.

Sbarchi: controllo del Mediterraneo centrale ed intesa strategica con la Libia
Riprendendo le espressioni già utilizzate dal suo predecessore, il ministro Amato definisce il problema degli sbarchi una “questione epocale” che deve trovare una strategia di gestione in sede europea. Dopo aver fornito alcuni dati statistici sulla dimensione del fenomeno, il ministro rilancia la centralità di un’azione sinergica tra i vari Paesi della UE volta al controllo del Mediterraneo centrale. Nel quadro di tale strategia viene ribadita la necessità di una vasta intesa tra l’Unione Europea e la Libia per “…collaborare al contrasto dei flussi che passano per il territorio e per permettere la partenza del pattugliamento congiunto europeo a ridosso delle coste nordafricane…”. Lascia sinceramente di stucco l’assenza di qualsiasi riferimento alle gravissime e documentate violazioni dei diritti umani che i rapporti di “collaborazione” tra Italia e Libia hanno sino ad oggi prodotto nel contrasto e nella repressione dei flussi migratori.

Cittadinanza: il requisito dell’ integrazione sociale e linguistica
Nelle note sulla riforma il ministro Amato cita anche il disegno di legge sul conseguimento della cittadinanza italiana, ai sensi del quale sarà possibile ottenere la cittadinanza dopo 5 anni di residenza: avrà la cittadinanza italiana anche il bambino che nasce da genitori stranieri residenti in Italia da almeno 5 anni.
Il requisito dei 5 anni di residenza non sarà, tuttavia, di per se sufficiente: come precisa il ministro, tale requisito dovrà concorrere con una verifica della “reale integrazione linguistica e sociale dello straniero”. Si tratta di un requisito che suscita gravi preoccupazioni, inevitabilmente destinato ad operare in un ambito di estrema discrezionalità. Chi e come misurerà il livello di integrazione del migrante? Quanta “italianità” bisognerà dimostrare di aver assorbito per avere la cittadinanza? Su quali prove verrà strutturato l’ “italianometro”?
Credo, sinceramente, che si tratti di un requisito inaccettabile, figlio di retaggi culturali che dovremmo respingere a priori, perchè a priori va respinta l’idea che l’acquisizione della cittadinanza debba passare attraverso la verifica della compatibilità della persona con un dato back-ground socio-culturale.
Forse è proprio partendo da questo, da un’idea radicalmente diversa della cittadinanza e dei diritti di cittadinanza che è possibile, nell’epoca in cui stiamo vivendo, ripensare alla radice gli strumenti di gestione dei fenomeni migratori ed il rapporto tra noi, parte della fortezza europea, ed il resto del mondo.

Avv. Paolo Cognini
Redazione MeltingPot Marche

Avv. Paolo Cognini (Ancona)

Foro di Ancona.
Esperto in Diritto Penale e Diritto dell’immigrazione e dell’asilo, da sempre impegnato nella tutela dei diritti degli stranieri.

Socio ASGI, è stato docente in Diritto dell'immigrazione presso l'Università di Macerata.

Autore di pubblicazioni, formatore per enti pubblici e del privato sociale, referente della formazione del Progetto Melting Pot Europa.


Studio Legale
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