Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

di Michele Aiello e Elena Risi

Roma – Tevere città aperta

Un reportage tra città alta e città bassa lungo le baraccopoli del fiume capitolino

Foto di Michele Aiello

Sulla riva del Tevere c’è un uomo sulla sessantina che fa la doccia all’aperto mezzo nudo. Si strofina per bene, si sente a suo agio. Venti metri sopra di lui scorre la vita del centro di Roma, mentre il fiume – la città bassa – scandisce tempi e abitudini a sé stanti, appartenenti a vite invisibili sospese nei vuoti delle istituzioni. Da quando vennero costruiti i muraglioni nel tardo ‘800, il Tevere ha cominciato a distaccarsi dal resto della città.
La Roma bassa e la Roma alta non comunicano più.

La vita sul Tevere è in alto mare

Oggi, a distanza di più di un secolo, soprattutto nelle zone più centrali della città, c’è una regola non scritta: nascondere a turisti e residenti le realtà considerate “poco decorose”. Sotto i muraglioni, alcune abitudini vengono tollerate soltanto di notte. Accanto ai ristoranti di lusso, alle case galleggianti o ai club privati ogni notte sorgono piccoli accampamenti informali. Il caposquadra del distaccamento fluviale dei Vigili del Fuoco, Romualdo Della Femina, spiega proprio questa dinamica. «Spesso quando tramonta il sole usciamo con il nostro gommone per un giro di perlustrazione – racconta mostrando una piccola imbarcazione dentro la caserma galleggiante – e vediamo diversi gruppi di persone che si preparano per la notte disponendo cartoni e sacchi a pelo. Dormire sotto i ponti è diventato un modo di dire – continua Romualdo – ma molti lo fanno davvero». Riposano fino all’alba, quando decidono di levare le tende e far sparire ogni traccia della loro presenza. Intanto cominciano a muoversi sulla pista ciclabile della riva destra lavoratori in bicicletta e appassionati di jogging.

Altre persone sono invece ben visibili durante il giorno. Sono i proprietari di abitazioni e ristoranti galleggianti e i frequentatori dei club sportivi e professionali. Giulio Bendandi è uno dei sette inquilini del Tevere che hanno costruito la casa sullo scafo di un’imbarcazione. Da ben quarant’anni vive tra Ponte Regina Margherita e Ponte Pietro Nenni. La pulizia della banchina di fronte a “casa” spetta a lui. «L’ultima piena m’ha portato su un sacco de fango – spiega con un marcato accento romano mentre armeggia con la pompa dell’acqua – me tocca passa’ la cera!». Racconta che fu suo padre, un nostalgico ufficiale della Marina, ad avere l’idea di ricavarsi uno spazio sulle acque del Tevere, quando il fiume era un luogo frequentato dalla malavita e dai clienti delle stazioni balneari. Era il periodo in cui si assisteva al lento declino delle relazioni sociali tiberine. «Mi piace vivere qui. È un mondo selvaggio a due passi dal centro urbano». Ma mentre continua a “passare la cera” sul suo “pianerottolo”, Giulio ne riconosce anche le difficoltà: «ormai il fiume è abbandonato a sé stesso».

Oggi ci sono diverse questioni che bisognerebbe risolvere per riportare il Tevere al centro della socialità cittadina. Da qualche decennio, anche le attività basilari della gestione del fiume non vengono svolte. Per esempio, Giulio ricorda che è dal 1991 che non viene effettuato il dragaggio del letto. È qui che entra in gioco la Regione, che dal 2002 ha in mano la gestione fluviale. L’Agenzia Regionale per la Difesa del Suolo (ARDIS) è l’ente pubblico responsabile del mantenimento del buon regime delle acque pubbliche. Poi c’è la Capitaneria di Porto, sempre per la gestione delle piene e dei “barconi”. Ma non è un caso se gli inquilini del Tevere si sentono “in alto mare”. Correva l’anno 1906 quando venne promulgata la Legge Regia 200, che classifica ancora oggi il Tevere come via marittima e linea navigabile di seconda classe, “dalla foce fino all’idroscalo del Littorio a monte dell’Acquacetosa”. Così mansioni e competenze si intrecciano risolvendosi in un nulla di fatto. Anche il rilascio delle autorizzazioni per le abitazioni galleggianti tiberine subisce la stessa sorte. È l’ARDIS che concede i permessi per edificare sul corso d’acqua, ma è competenza del comune di Roma la stesura di un Piano Regolatore ad hoc per l’area. Questo piano è in sospeso da anni e il risultato è un ennesimo vuoto normativo.

Il vicino galleggiante di Giulio Bendandi è Gwlym Aulend. Sono amici da tanti anni e la sua casa è ormeggiata sulla riva destra a venti metri da Ponte Regina Margherita. «L’ho costruita tutta con le mie mani – ricorda Gwlym – quando ancora non c’era la pista ciclabile e non potevo accedere alle banchine con la macchina». Come Giulio, anche Gwlym controlla costantemente il livello del fiume. Quest’anno l’acqua è salita spesso sopra le banchine, ma ora che la situazione si è normalizzata non ha problemi a invitarti a bordo: «Se vuoi possiamo aspettare un paio di giorni così che l’acqua scenda del tutto, oppure vi posso dare due galosce». Dalla chiatta lancia due stivali impermeabili che consentono un accesso a piedi asciutti nella sua affascinante abitazione su due livelli. In passato al pian terreno ha affittato una saletta per corsi di yoga e teatro. Al piano di sopra invece si è creato un confortevole soggiorno. Non sembra nemmeno di stare sul fiume per quanto è stabile la struttura. «Questa non è la mia vera casa, ma solo perché non è legale – ribadisce più volte Gwlym – se solo potessi, prenderei subito la residenza qui, a venti metri da Ponte Regina Margherita».

La concessione dei permessi non è l’unica preoccupazione che affligge gli “inquilini galleggianti”. Anche la gestione delle dighe a monte e l’innalzamento delle acque sono problemi altrettanto gravi. La legge prevede che in caso di piena il “barcone” non rimanga incustodito, perché se gli ormeggi si staccano qualcuno deve poterlo governare. Nella prassi però le chiatte vengono abbandonate durante gli alluvioni. È ancora fresca la memoria del galleggiante di Klaus Wahr, che nel 2008 si è sganciato dagli ormeggi e si è accartocciato sotto Ponte Sant’Angelo. Sono i Vigili del Fuoco che rispondono a tutte le chiamate di pronto soccorso, loro che in caso di piena perlustrano le banchine per avvisare i senzatetto addormentati che rischiano di affogare. Quando però si presentano più situazioni di emergenza contemporaneamente non hanno abbastanza personale per intervenire. «Mi è addirittura capitato di soccorrere un disperato che si era lanciato dal ponte», ricorda Gwlym. «In queste casi potrebbero intervenire i sommozzatori, ma stanno alla stazione Magliana e gli è impossibile raggiungerci con la barca per via del “salto” all’Isola Tiberina».

Le banchine “di periferia” nascondono un segreto di pulcinella

Tra vuoti normativi, inefficienze istituzionali e rimbalzi di competenze il fiume scorre marcando una distanza sempre più profonda tra città alta e città bassa. Quello che la Roma alta non vuole vedere affacciandosi dai muraglioni nelle sue zone più centrali, si trova sulle golene della periferia, quel tratto di terra che va dalla riva al ciglio della strada. Lontano dagli sguardi dei turisti e dalla Roma “pettinata”, immersi nella vegetazione fatta di canne di bambù, uomini e donne cercano la stabilità di una fissa dimora. Sono i “quartieri periferici” della Roma bassa: San Paolo, Marconi, Ostiense e Magliana scendendo verso sud, Ponte Milvio e Tor di Quinto spostandosi al nord.

Sporgendosi dal parapetto dei ponti si possono cogliere momenti di quotidiana intimità: una donna che trasporta un carrello pieno di bottiglie d’acqua, una mamma che allatta, un ragazzo che ride, una tenda con la parabola, giacche o scarpe portate dalla corrente. Non sfugge all’occhio l’enorme quantità di spazzatura. Soprattutto per questo la convivenza tra gli accampati/abitanti golenali e i residenti della zona è abbastanza complessa. Lo racconta Luciano, che vive nel quartiere Marconi da quasi quarant’anni. Si lamenta degli abitanti abusivi perché li ritiene responsabili della microcriminalità del quartiere e perché ha paura dei rischi sanitari connessi alle loro condizioni di vita. «Vivendo in quel modo rischiano le peggiori malattie – spiega Luciano – e poi sono gli stessi che salgono sugli autobus o entrano nei supermercati». Da ponte Marconi indica delle piccole costruzioni sulla cima della banchina. «Nella zona le chiamano le villette di San Paolo», spiega, ma non c’è traccia di lusso in queste baracche del Lungotevere. Sono coperte dagli alberi, ma spuntano tra la vegetazione. L’ingresso dalla strada è fatto di lamiere e i numeri civici sono scritti a mano. Concepite per ospitare gli operai che edificavano il ponte, oggi sono baracche occupate.

I mini villaggi che sorgono sul limo delle rive del Tevere hanno invece un carattere più o meno temporaneo. Alcuni accampati sono solo di passaggio in Italia, altri hanno fatto delle baracche la loro residenza “fissa”. La Polizia Municipale interviene spesso per sgomberarli. A volte i campi vengono totalmente distrutti dalle ruspe, ma gli agenti sanno già che non si tratta di una soluzione di lungo periodo. Dal canto loro, gli sfrattati non hanno alternative. Nel giro di pochi giorni tornano per costruire un nuovo campo nella stessa area o a poca distanza. È un altro dei paradossi che il fiume, scorrendo, porta con sé. Il problema lo spiega Patrizia Prosperi, tenente del NAE, il Nucleo di Assistenza Emarginati della Polizia Municipale di Roma. «Le alternative non gliele diamo perché non ci sono». I centri di accoglienza sono sempre pieni, specialmente d’inverno. «Di solito offriamo accoglienza a donne e bambini nelle prime due notti successive allo sgombero, ma nella maggior parte dei casi rifiutano di separarsi dal resto della famiglia».

L’alternativa ai campi abusivi sono quelli autorizzati, ma anch’essi sono saturi perché l’accesso non è gestito secondo le regole ufficiali. La permanenza dovrebbe infatti essere momentanea, il tempo di trovare un lavoro e una casa vera, per poi permettere l’ingresso ad altre persone. Di fatto però i primi a entrare in questi campi sono rimasti oltre i termini stabiliti e da anni non vengono assegnati nuovi posti.

Anjur, un giovane padre di famiglia di origine bosniaca, è nato in Italia. Cammina su viale Marconi spingendo la carrozzina in cui dorme la figlia. Tira dritto, guarda in basso, sembra che non abbia voglia di parlare. Poi è lui che si volta e si sfoga. «Perché non venite con me al campo? Portate una telecamera, così vedete come viviamo». La baracca di Anjur non è molto lontana. Lungo questa riva si alternano sul terreno fangoso abitazioni fatte di lamiera o tavole di legno. Alcune invece sono semplici tende da campeggio. All’ingresso del suo villaggio è stato messo un materasso per creare un passaggio asciutto sopra la melma. «In tutto siamo una trentina di famiglie», spiega Anjur. Nelle prime baracche vivono lui, la sua famiglia e altri bosniaci. «Più avanti – dice indicando di fronte a sé – vivono rom e rumeni». Tra questi si trova il capo-campo, un uomo di trent’otto anni che inizia a parlare in un italiano veloce e con poche imprecisioni. Lo chiamano “Sandokan”, ma dice di non saperne il motivo. A lui spetta decidere chi può stabilirsi nel campo, ma i nuovi arrivati devono essere “raccomandati”, meglio se da un parente. Così il boss cerca di evitare che entrino teste calde a creare problemi. Sandokan è un “capo buono”, i due prima di lui sono finiti in prigione perché istigavano alla prostituzione le donne e le ragazzine del campo. Spiega che si guadagnano da vivere soprattutto vendendo quello che trovano per le strade. «Durante il giorno prendiamo i nostri carrelli – racconta Sandokan – e andiamo in giro per la città a cercare ferro e rame. Soprattutto ferro, perché il rame è molto più difficile da trovare». Quando ne hanno accumulato abbastanza lo rivendono all’Ama e agli sfasciacarrozze.

Nel campo c’è anche Federica dell’“Arpj Tetto”, un’associazione che fornisce servizi di base ai baraccati, come servizi igienici e assistenza ai minori. Federica fa la volontaria da circa sei anni. «Prima riuscivamo a fare molto di più – confida – ma ultimamente abbiamo pochi fondi». Al campo saluta tutti per nome e quando qualcuno le passa accanto si avvicina e scherza con lei. A pochi passi, si è formato un gruppetto intorno a un tavolo per giocare a “Rummikub”, un passatempo della cultura rumena. Si sono riuniti giovani, vecchi e bambini, ma solo un paio di persone giocano, gli altri chiacchierano e scherzano tra loro.

Mentre cala la sera e la temperatura scende, si sollevano i fumi dei fuochi che vengono accesi davanti alle capanne. Sono tanti piccoli falò che emanano un odore intenso, come di plastica bruciata, che rimane addosso anche dopo ore. Non ci sono porte o muri a marcare i confini del campo, ma uscire dal villaggio di Anjur significa passare attraverso mondi paralleli. A pochi passi di distanza la contraddizione stride in ogni dettaglio, dai campi da calcio puliti e ben curati, al circolo di equitazione che si affaccia sulla riva opposta. Due mondi messi a stretto contatto quasi per sbaglio, che mostrano il contrasto tra società benestante e povertà. Mondi che preferirebbero restare lontani e si incontrano solo in occasione di fatti spiacevoli, come un furto negli spogliatoi del centro sportivo.

Il fiume che non c’è

Vivere sul Tevere è come remare contro corrente, un’impresa difficile. Qui le anime della Roma bassa coesistono come le correnti del fiume, senza che la città alta noti la loro vitalità. E mentre le istituzioni fanno orecchie da mercante, abitanti galleggianti e senzatetto/abitanti golenali sognano un fiume che non c’è.