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Rosarno, tra fuoco e schiavitù

Nel vuoto ignobile delle risposte istituzionali brilla la luce della solidarietà concreta

I dati sono chiari, verrebbe da dire triti e ritriti, raccontati, fotografati, filmati. I braccianti, africani e non, che vivono in condizioni di schiavitù in Italia, in particolare al Sud, sono tanti, tantissimi, migliaia di migliaia, in costante aumento.

I ghetti, abominio della modernità e frontiera tra l’umano e il subumano, costituiscono l’avamposto di una civiltà profondamente superficiale, frivola, incapace di interrogarsi sul perché sia ricomparsa (o forse mai scomparsa) una brutale forma di schiavitù imperniata tra una terra stuprata e una cucina simbolo del benessere (menefreghista) occidentale. Consumiamo tonnellate di cibo in una frenesia del gusto e del bello senza preoccuparci se il pomodorino è stato raccolto da un africano nelle arse terre pugliesi o se l’arancia proviene dalle mani di un bulgaro, mani sporche di terra e di sfruttamento.

Rosarno, come Rignano, Cassibile o Boreano, è proprio questo, il simbolo di un becero capitalismo che mette al centro, per l’appunto, il prodotto, facendo scomparire l’uomo. Perché di uomini si tratta. Eppure l’informazione, il circo mediatico, dei ghetti ne parla, a volte anche troppo, in particolare quando ricorre l’anniversario di qualche rivolta o quando ci scappa il morto, sempre più spesso. Siamo talmente abituati a vedere negri sfruttati e baracche sudicie che l’idea della schiavitù ci è entrata dentro come un morbo, di nascosto. Siamo talmente abituati a vederli che l’idea che quasi 500 mila braccianti vivano in condizioni di schiavitù ci sfiora appena in un momento caritatevole che può raggiungere qualche secondo.

Interviste, racconti di vita, inquadrature di una povertà da Quarto Mondo non bastano, purtroppo, per dare la misura di quello che sta accadendo, ma che in realtà accade già da anni, nel Sud della povertà della disoccupazione, della criminalità.

Ma, in una narrazione diversa, ostinata, contraria, quel Sud, non ci appartiene.

Andare a Rosarno, per l’ennesima volta, metterci la faccia, è significato anche scoprire il Sud che lotta, senza se e senza ma. Da SOS Rosarno a Medici per i diritti umani e a tutte quelle realtà che, quotidianamente, stanno sul campo per combattere l’idea che tutto debba stare immoto che tutto debba mantenere lo status quo.

Un corso di italiano nella tendopoli/ghetto di Rosarno non si ripeteva dal 2012 e la settimana intensiva di corso del Collettivo Mamadou è servita come rompighiaccio per dire che sì, è possibile, difficile ma possibile. E, nella complicata ragnatela di rapporti, il corso continuerà grazie al sostegno del Consorzio Macramè e, in particolare, per la tenacia di una calabrese doc, Giulia Serranò.

Il ghetto di Rosarno, negli anni, è cambiato ed oggi rappresenta un crogiuolo di etnie e religioni tanto da racchiudere una micro Africa, in un legame ancestrale con una terra dilaniata da guerra e barbarie tanto da imporre una migrazione che continua da decenni. È una migrazione però, nella maggior parte dei casi, di analfabeti o, come a Rosarno, di semi-analfabeti. Molti non sanno nemmeno firmare o leggere nella propria lingua.

L’insegnamento dell’italiano diventa così il modo più dinamico e veloce per rendere consapevoli migliaia di persone dei propri diritti e della propria dignità in un quadro di sfruttamento voluto dalle istituzioni e mantenuto da leggi profondamente disumanizzanti.

Links utili:
Medici per i diritti umaniFBTwitter
SOS Rosarno su FBTwitter
Collettivo Mamadou su FB[email protected]

Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.