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Senegal – A pranzo con Diakhaté, direttore di un centro di formazione per insegnanti

da Dakar, Chiara Barison, dottoranda in politiche transfrontaliere all’Università di Trieste

“C’è una motivazione direi quasi inconscia che a mio avviso spinge tanti africani a partire. E’ come se si dicessero: l’Europa ha un debito nei nostri confronti. Può sembrare anacronistico o banale parlare ancora di colonizzazione, eppure questo periodo storico influenza ancora l’economia e l’inconscio delle persone. In fin dei conti cos’è stata la colonizzazione se non un appropriarsi di beni, persone, territori, tramite la forza? I paesi colonizzatori cercavano una fonte di arricchimento facile e veloce e qui in Africa l’hanno trovata. L’emigrazione avvenuta negli ultimi decenni sembra quasi un reclamare un diritto. Il diritto, come africani, di volere e potere migliorare la propria condizione e se la via è quella dell’emigrazione verso l’Europa, perché non farlo? Dal loro punto di vista i governi europei sembrano temere un’invasione di persone pronte a fare piazza pulita di ogni cosa, ma questa è solo una paura costruita ad arte per fare dell’ignoranza e della non conoscenza della gente, il mezzo politico più efficace.
Ciò che spinge le persone ad emigrare è solamente il bisogno di migliorare la propria condizione e di portare sviluppo nel loro paese.
Quando un contadino del nord del Senegal non riesce più a sfamare la sua famiglia coltivando la sua terra perché le regole del mercato fissate dall’Occidente sono ineguali o perché sempre l’Occidente fissa prezzi e detta leggi, come impedire a questo stesso contadino di emigrare?
Andare dove è possibile migliorarsi è un diritto di ogni uomo, è una legge umana e l’uomo stesso è l’essenza della libertà.”

Parla a bassa voce , Cheick Diakhaté, direttore di un centro di formazione per insegnanti, ma il suo tono è calmo, pacato. Abbozza un sorriso, poi fa cenno alla bonne, la domestica di casa, di servire il thieb bou djeun (riso con verdure e pesce), il piatto tipico senegalese.
Mi porge un cucchiaio e io provo in maniera non troppo convincente a rifiutare, sono le 20 e io ho ancora la pancia piena, visto che l’orario del pranzo, qui in Senegal, si aggira attorno alle 15 del pomeriggio.
“Mi sorprende Chiara questo tuo rifiuto”, continua lui porgendomi nuovamente il cucchiaio, “oramai dovresti conoscere bene il Senegal e i suoi costumi, sai che rifiutare un invito a mangiare è considerato una grande offesa, ti chiedo almeno di assaggiare”.
Come dire di no? Il mio papà senegalese ha ragione, è una questione di rispetto. Così afferro il cucchiaio e mangio assieme a lui. Lo guardo e penso che, in fin dei conti, lui rappresenta un’eccezione qui a Pikine.
Prima di tutto è sposato con una sola moglie, situazione atipica, specie nei quartieri di periferia, dove il matrimonio poligamo rappresenta la situazione familiare più comune. Secondo, ha solo 5 figli, anche questa una situazione non comune, visto che le famiglie senegalesi spesso superano la decina come numero di persone che si ritrovano ad abitare sotto lo stesso tetto. A nulla sono valsi gli sforzi del governo per portare avanti campagne di sensibilizzazione volte al controllo delle nascite.
Nei quartieri di periferia i figli sono visti ancora come una sorta di investimento per il futuro perché, come dicono gli anziani, più figli hai, più possibilità avrai di avere qualcuno che si prenda cura di te quando sarai vecchio.
In effetti se penso alle famiglie del quartiere dove vivo, tutte sono poligame, con una media di due mogli e una decina di figli.
Diakhaté rappresenta quella classe media che sta pian piano scomparendo ma che è stata anch’essa toccata dal fenomeno dell’emigrazione. Anche lui ha due figli in Europa, in Francia, per essere più precisi.
L’emigrazione non ha risparmiato nessuno, tutti hanno almeno un familiare in Europa. Questo è stato per anni l’investimento più auspicabile per un’intera famiglia, perché voleva dire un aumento delle entrate a fine mese.

“Se guardiamo all’emigrazione da un punto di vista delle relazioni umane, ciò non può che essere positivo. Esseri umani che si incontrano e si confrontano, non può che dare frutti positivi perché finché non c’è contatto difficilmente ci sarà una reale conoscenza o, al massimo, una conoscenza, superficiale, se non addirittura negativa. Se un europeo non avesse la possibilità di venire in Africa continuerebbe a pensare a questo continente come un posto abitato da selvaggi, dove le persone vivono nelle capanne e i bambini muoiono di fame circondati dalle mosche; così come, se un africano non avesse la possibilità di andare in Europa, continuerebbe a credere che lì sta il vero “El Dorado”, il posto dove la gente si rotola nell’oro. Ma oggi c’è qualcosa che sta cambiando, si vede, si percepisce. Le persone sono disilluse, si sacrificano pagando prezzi altissimi e tutto questo solo per partire verso l’Europa, credendo che lì sarà poi facile trovare lavoro e fare soldi. La gente arriva a mettere da parte fino a 6.000 euro per comprare un visto, in un paese dove lo stipendio medio è di 300, per poi trovarsi in Europa, non solo in uno stato di irregolarità, ma anche di attesa, senza avere nulla in mano”.
“Meglio a questo punto restare in Senegal e investire quei soldi risparmiati con tanta fatica.
Il punto è che non esiste in Senegal un sistema sociale che possa aiutare queste persone a scegliere e a investire correttamente. Manca una guida politica forte, senza dimenticare che il tasso ancora alto di analfabetismo gioca un ruolo importante. Le persone, infatti, non solo non sanno come investire e non hanno nessuno che possa spiegarglielo, ma hanno anche paura di mettere i soldi in banca. C’è un problema di informazione e di formazione che possa ridare fiducia a queste persone. E’ dunque normale che si avventurino con tanta facilità e superficialità”
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Sospira e riprende a mangiare. Con il cucchiaio taglia pezzi di manioca e di pesce e me li mette davanti, un gesto di rispetto nei confronti dell’invitato. Io continuo a mangiare con lui e annuisco, nulla di più vero, sarà la crisi economica, sarà che l’emigrazione non garantisce più quelle rimesse che si avevano fino a qualche anno fa, ma la gente di Dakar sembra davvero essere rassegnata.
L’emigrazione d’altronde è cambiata e si vede. La gente non torna più con i soldi, non si aprono più facilmente cantieri per la costruzione di case, anzi sono molti di più quelli che rimangono fermi per mancanza di rimesse o che addirittura vengono chiusi.

“Oggi gli emigranti tornano in vacanza dall’Italia con la macchina, viaggiando per giorni interi e attraversando il deserto per poi rivendere quella stessa macchina e comprarsi il biglietto di ritorno” mi dice ridendo “per la festa del Tabaski ne ho viste parecchie di situazioni così, al limite del grottesco”. D’altronde la crisi passa anche attraverso questo. “Le persone vivono situazioni drammatiche perché si sono indebitate per migliaia di euro per comprare un visto turistico e si ritrovano in un paese straniero in uno stato di clandestinità, senza un lavoro fisso e sicuro, non riuscendo a mandare i soldi a casa e non potendo ritornarvi finché il debito con i creditori non è saldato. Ecco allora che l’emigrazione diventa anche dramma che misto alla disillusione porta l’uomo a non sperare, a non avere più nessun progetto e un uomo senza progetti è un uomo che non ha più futuro”.

Già, come sempre il mio papà senegalese sa essere profondo e concreto, mettendo sempre a fuoco la realtà in cui si trova a vivere.
Eppure il suo tono non tradisce negatività rispetto al futuro, anzi, lui stesso si dice fiducioso:
“La crisi economica si è fatta sentire, le famiglie hanno dovuto fare i conti con un taglio delle finanze provenienti dalle rimesse dei parenti all’estero e questo vuol dire anche cominciare a pensare ad un’alternativa. Oggi i senegalesi pensano al futuro in termine di sviluppo; devono farlo se vogliono sopravvivere; è ora di riflettere su cosa fare quando i rubinetti verranno chiusi davvero” continua Diakhaté “noi siamo sempre stati un popolo che ha fatto propria “l’arte dell’arrangiarsi”, oggi, dobbiamo farlo ancora di più.
Fino a poco tempo fa, per esempio, alcuni lavori erano confinati solo ad una certa categoria di persone. Oggi i giovani sono riusciti a superare questa categorizzazione, non importa che tipo di mestiere fai, l’importante è trovarne uno, dalla parrucchiera al calzolaio, dal meccanico allo spazzino. Se solo il governo provvedesse ad un piccolo aumento dei salari, tanti giovani sarebbero più soddisfatti delle loro condizioni e molti di meno penserebbero di partire”
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“Lei crede che l’attuale crisi possa contribuire ad un arresto delle partenze verso l’Europa?” gli chiedo diretta. “Io credo di sì” mi risponde e continua: “Tutto sommato questo periodo ci servirà da lezione e non mi riferisco solo a quanto accennato prima, cioè al fatto che è ora di pensare ad una forma di sussistenza diversa rispetto alle sole rimesse o al fatto di non categorizzare più i mestieri, ma c’è un altro fattore molto importante e che io ritengo possa essere la chiave di una possibile svolta rispetto al problema dell’emigrazione, il ruolo giocato dalle donne.
Fino a un paio d’anni fa le ragazze avevano come obiettivo principale il matrimonio, ma non con un uomo qualsiasi, con un emigrato. Non importava se poi il marito sarebbe ripartito per un numero imprecisato di anni o se lo avessero rivisto un mese ogni chissà quanto, l’importante era raggiungere lo status sociale di “moglie di modou-modou”, che, in termini concreti equivaleva a dire, più soldi e comodità. Oggi le ragazze stanno pian piano aprendo gli occhi. Il matrimonio con un connazionale partito all’estero in cerca di fortuna rimane ancora un obiettivo, ma non così forte come prima”
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“Questo perché si stanno rendendo conto che i mariti restano ancora anni e anni senza tornare a casa, solo che la differenza sta nel ritorno; mentre una volta c’erano i soldi, e anche tanti, oggi gli emigrati tornano con poco, a volte solo con qualche regalo”.
“Vale la pena allora restare sole per un numero indefinito d’anni per un paio di scarpe o una borsa? O meglio avere un regalo in meno ma un marito sempre accanto? Le giovani cominciano ad optare per la seconda scelta e a preferire giovani che rimangono al paese e che magari hanno un lavoro, non da cambiare radicalmente le loro vite, ma almeno sicuro e che permette di vivere.
A questo punto si colloca l’ipotesi, bizzarra ma interessante: gli uomini perché emigrano? Per realizzarsi socialmente. E attraverso cosa passa questa realizzazione? Attraverso un miglioramento economico che porterà poi a sposarsi la ragazza più bella e ad ingraziarsi parenti e amici.
Il matrimonio è un tasto importantissimo, specie in Senegal. Le persone investono tutto su di esso. Ecco perché potrebbe essere la chiave per un regresso nelle partenze verso l’Europa.”

“Perché non introdurre finalmente le donne nel dibattito sull’emigrazione?Alla fine gli uomini emigrano per avere una donna e una casa. Se quindi l’idea di matrimonio della donna si modificasse, questo potrebbe contribuire a cambiare le cose. Se le donne cominciassero a preferire davvero gli uomini che rimangono a quelli che partono o che sono all’estero, allora sono convinto che ci sarebbe un’inversione di tendenza e i ragazzi ci penserebbero due volte prima di avventurarsi in un progetto migratorio”.
“Per trovare risposte concrete bisogna analizzare seriamente ogni benché minima ragione socio-economica alla base delle partenze, perché sono poi queste le motivazioni che spingono i giovani a partire”.

Rimango perplessa per un attimo, poi rifletto sulle dinamiche alla base della società senegalese. In effetti il mio papà senegalese ha ragione, e se fossero proprio le donne la chiave del cambiamento?
Sorrido e prendo il bicchierino di té che mi viene dato. E’ tempo anche per noi di mettere da parte gli argomenti seri e rilassarci un po, “sénégalaisement” (alla senegalese).

Vedi anche:
Senegal – La crisi e i movimenti migratori a ritroso
Senegal – Dakar – Pikine. La tematica migratoria vista dal punto di vista dei senegalesi a Pikine e Thiaroye

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