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Senegal – La nuova frontiera dell’emigrazione passa per internet.

di Chiara Barison, dottoranda in politiche transfrontaliere all’Università di Trieste

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E’ una domenica come tante a Pikine Canada, a casa la stessa routine settimanale, la bonne (la domestica che aiuta nei lavori di casa) che arriva alle 7.30 e che bussa ripetutamente finché il primo non si sveglia e le apre; le donne di casa che spazzano la sabbia accumulatasi durante le notte nell’atrio e davanti alla porta; la gente che fa avanti indietro lungo la stradina portando sotto braccio lunghi filoni di pane; le signore all’angolo sedute che chiacchierano avvolte nei loro bubù colorati aspettando clienti per vendere il loro iaboi (il pesce più economico), la manioca, i peperoncini, le patate, le melanzane, i pomodori.
I bambini sono già per strada, giocano, si rincorrono, mangiano piccoli panini riempiti con spaghetti, carne e verdura.
Salgo nella terrazza di casa, dove c’è il bagno, ricostruito dal figlio maggiore, emigrato in Italia da ormai dieci anni. Le mattonelle sono nuove e la tipica latrina che si può trovare in molte case dei quartieri di periferia è stata sostituita da un water all’occidentale, una doccia e un lavandino.
Peccato che alla bella visuale non corrisponda poi una vera e propria funzione “all’europea”. Lo sciacquone infatti non funziona e spesso, la mattina, non c’è acqua corrente a causa dei periodici tagli che il comune fa per risparmiare.
Bisogna dunque armarsi di pazienza, riempire secchi d’ acqua dalla grande cisterna dove viene raccolta l’acqua di riserva e arrangiarsi come meglio si può. In fondo i bagni a Pikine e dintorni sono, come li definisce Corina, una ragazza italiana che vive a Dakar da ormai tre anni, decisamente roots.
Questione di abitudine. Mi affaccio dal balcone e saluto i vicini che chiamano Ciara, Ciara, dopo due anni, non riescono ancora a pronunciare il mio nome, ma la cosa non mi dispiace affatto, mi ricorda tanto la cantante hip hop americana. Il sole batte forte, finalmente sta arrivando il caldo tanto atteso. Mi giro e osservo la piccola bonne di casa, dodici anni appena, china a fare il bucato.
Davanti a lei, disposti ordinatamente tre grandi bacinelle riempite di acqua e detersivo (venduto in bustine da 100 CFA, all’incirca 20 centesimi di euro l’una e chiamato Madar) e cumuli di vestiti ammassati, pronti per essere lavati.
La osservo, è piegata ad angolo retto, strofina forte lenzuola, pantaloni, magliette. La osservo e penso che in fondo è solo una bambina, ma così donna nei modi, lava veloce, con la forza di una di quelle donne del sud Italia, che nel dopo guerra facevano la stessa cosa.
Mi guarda e sorride, non possiamo comunicare, non parla francese perché non è andata a scuola e il mio wolof è ancora troppo debole per poter riuscire ad impostare una conversazione.
Stende con cura le lenzuola al sole poi si ripiega e continua nel suo lavoro, io continuo a guardala e vedo spuntare dalla gonna, a livello dei fianchi, uno, due, tre gri-gri, una specie di collane di spago, di solito date da uno dei tanti marabutti maghi guaritori come protezione dal male.

Torno giù e vado a scaldarmi dell’acqua per farmi un caffé veloce, oggi ho appuntamento con un ragazzo di Thiaroye, un quartiere popolare non lontano da Pikine, conosciuto per essere uno dei più pericolosi e malfamati di tutta Dakar.
El Che, così si fa chiamare Cherif, un ragazzo di 26 anni, in onore di Che Guevara, come ci tiene a precisare, “siamo entrambi due rivoluzionari”, mi aspetta davanti la grande moschea di Thiaroye.
Io arrivo con uno dei tanti car rapide, i tipici autobus gialli e blu che girano per tutta Dakar e dintorni. Sono leggermente in ritardo, ma Cherif non sembra infastidito, in fondo in Senegal è quasi normale non rispettare gli orari degli appuntamenti.
E’ vestito con una maglietta con la foto di Che Guevara, di due taglie più grandi, un paio di jeans, scarpe della Nike e un cappellino Roca Wear con la visiera leggermente spostata sulla destra, da vero rapper.
Se non fosse per il quartiere in cui ci troviamo, Il Che potrebbe essere uno dei tanti ragazzi che si possono incontrare in un qualsiasi quartiere degli Stati Uniti.
Mi saluta con un abbraccio e mi fa fare un giro per il suo quartiere. Devo essere sincera, Thiaroye è decisamente più vivo di Pikine, non ci sono marciapiedi, tutto è circondato da sabbia, le case sono semplici, povere; quasi tutte hanno porte aperte da cui si possono intravedere le corti interne, i bucati stesi all’aria, le pecore che circolano liberamente, i bambini, le signore sedute davanti agli ingressi, intente a farsi le trecce le une con le altre, i ragazzi sdraiati sotto gli alberi a riposare o seduti sui muretti intenti a preparare il te.
Dalle piccole boutique semi vuote viene sparata musica a tutto volume, mbalx, hip hop, zouk, raggaeton. Impensabile pensare ad un angolo tranquillo in uno dei tanti quartieri di periferia di Dakar.

I bambini ci raggiungono a gruppetti, mi tirano la maglietta, mi salutano “Bonjour toubab” mentre Il Che ride e mi dice: “per loro è una novità vedere una toubab qui”.

Il Che è uno dei tanti ragazzi strappati alla strada da Matador, uno dei rapper più conosciuti del Senegal, che da anni si batte per il recupero dei ragazzi di strada di Thiaroye e Pikine, attraverso l’hip hop e il lavoro del centro culturale da lui diretto, Africulturban, che si propone ormai da anni di sviluppare la cultura hip hop.
Il centro organizza corsi di alfabetizzazione, di francese, di avviamento professionale, ma non solo, accanto a questo, mette a disposizione sale e materiale per tutti quei giovani che vogliono sviluppare le loro capacità artistiche nel rap, nei graffiti, nella break dance, nello slam.
Il centro pullula di ragazze e ragazzi, che si ritrovano ogni giorno e creano. Quando guardo tutto quello che sono capaci di inventarsi dal niente mi chiedo cosa davvero potrebbero fare se avessero un po’ di sostegno in più.

“L’hip hop siamo noi giovani, come puoi vedere se io e i miei amici siamo qui oggi è per una ragione e questa ragione è l’hip hop, appunto. Può sembrare strano per chi non conosce davvero questa cultura urbana, ma l’hip hop può essere un mezzo utile per il recupero di quartieri come Thiaroye, perché attraverso il rap si possono sensibilizzare i giovani su differenti tematiche sociali e si possono strappare alla vita di strada, come è successo a me”.
Continua il Che: “Vedi, Thiaroye è il quartiere che più amo al mondo ma è il quartiere più caldo e quello più pericoloso, la gente qui è povera, ma io, come tanti altri giovani, crediamo che sia possibile recuperarlo, gettare le basi per uno sviluppo che possa farlo uscire dal degrado in cui si trova. Il 9 maggio organizzeremo, con il centro Africulturban, un concerto rap dove i giovani del quartiere potranno esibirsi liberamente e la tematica sarà “Gioventù, igiene e sviluppo”. E’ tempo che Thiaroye si sviluppi e questo sviluppo deve necessariamente passare attraverso i giovani. E’ nostro compito allora unire tutti questi giovani, diventare una solo persona, avere lo stesso coraggio e un obiettivo comune. Noi vogliamo riuscire a sensibilizzare i giovani del quartiere a proposito di alcuni punti che riteniamo fondamentali come l’unione, perché solo unendo le forze potremmo raggiungere uno scopo; l’igiene, l’educazione e la cultura, perché solo attraverso questi elementi si possono gettare le basi di uno sviluppo durevole. Un popolo ignorante e lasciato in balia dell’anarchia non può che vivere (o meglio sopravvivere) nella povertà”.
Lo ascolto e annuisco, finché arriviamo in una delle tante case di Thiaroye. Ad aspettarci un gruppetto di ragazzi, tutti sui vent’anni. Sono seduti in dei materassi gettati a terra, alcuni fumano una sigaretta, altri chiacchierano tra di loro; accanto un piccolo stereo e come sottofondo il raggae hardcore di Sizzla.

Sono tutti ragazzi di Thiaroye, che alla vita di strada, al furto, allo spaccio, alle aggressioni hanno preferito il rap. Non hanno niente, non hanno mezzi, ma tanta buona volontà. Loro, tutti, ci credono ad un recupero del quartiere.
Mi elencano tutti i loro coetanei morti in strada, accoltellati, o tutti quelli che sono in prigione.
“Quando non c’è niente l’unica strada che pensi si possa percorrere è quella del crimine. Se la tua famiglia non ha di che mangiare, allora sei pronto a tutto pur di portare a casa quel minimo che potrà servire a tua madre per sopravvivere. Io voglio fare in modo che non sia questa la sola soluzione per i giovani del mio quartiere. Voglio che capiscano che ci sono altre vie percorribili, come la scuola, l’istruzione o l’arte. Tutti loro possono costruirsi un futuro e Matador ne è l’empio concreto, lui è uno di noi, un ‘boy’ di Thiaroye, uno di quelli che ha vissuto ‘la strada’ e che dalla strada ha saputo uscirne e creare qualcosa”.

Già, il Che ha ragione e vedere tutti questi ragazzi lì, pronti a lavorare per una causa comune, mi da un motivo per sperare in positivo.
Ad un certo punto gli faccio la domanda che più mi preme: “Cosa ne pensi di tutti quei giovani di Thiaroye che sono emigrati in Europa o negli Stati Uniti?”.
Il Che abbassa gli occhi, gira e rigira il piccolo ciondolo d’avorio a forma di continente africano che porta al collo. Gli altri lo guardano, aspettano di sentire la sua risposta. Lui sorride e mi dice: “Il Senegal di oggi è un paese che va male, in cui è difficile vivere, dove i mezzi non sono accessibili ai più. Ti sei mai chiesta allora come fanno le famiglie ad arrivare a fine mese? E’ solo grazie ai nostri fratelli, amici, parenti che sono emigrati in Europa, che ci aiutano, che ogni fine mese inviano soldi alle famiglie e che ci permettono di sopravvivere. In questo senso l’emigrazione non solo è positiva, ma è necessaria. Ovviamente i lati negativi ci sono e sono tanti, primo tra tutti il fatto che tanti giovani lasciano il paese per andare a lavorare in altri paesi, e questa è una grande perdita per la società. Questi giovani devono pensare a ritornare per costruire il paese, perché non è possibile costruire un nuovo Senegal stando all’estero. Io sono contro l’emigrazione, specie quando fatta in clandestinità. Oggi l’emigrazione è cambiata, si è evoluta, è passata ad un altro stadio. Non si emigra più con le imbarcazioni di fortuna, né con i visti turistici comprati a migliaia di euro, no, i giovani si sono fatti furbi. Oggi l’emigrazione passa attraverso la rete”.

Spalanco gli occhi, è la prima volta che sento questo discorso, mi incuriosisco e gli chiedo di spiegarmi di cosa parla.
“ Sì, hai sentito bene, parlo di Internet. I giovani africani saranno pure poveri, ma sanno bene come utilizzare la tecnologia a disposizione. I senegalesi sanno che la via più facile per partire è entrare in Internet e chattare. Così facendo si possono conoscere delle ragazze e l’obiettivo è trovarne una disposta ad una relazione, magari con una buona situazione alle spalle. Sì, il tempo che occorre investire è tanto, si parla di anni, ma da queste relazioni virtuali si possono creare relazioni che possono portare a matrimoni e matrimonio vuol dire documenti. Sai quanti sono partiti così? Pochi mesi fa un mio caro amico è partito per il Canada, dove ha raggiunto sua moglie, conosciuta proprio su Internet e sposata qui a Dakar. Non è calcolo o cattiveria, è solo un pensare alla tua famiglia. E’ un sacrificarsi per il bene di chi ami, per dare a tutti loro la possibilità di vivere meglio. Anche io ho conosciuto così la mia attuale fidanzata. E’ tedesca, è un anno che ci scriviamo e ci telefoniamo. A dicembre verrà qui, a Dakar e speriamo che la relazione andrà bene, magari riuscirò a partire anche io, Inchallah”.

Sono perplessa, la tranquillità con cui il Che mi spiega la nuova modalità messa in atto dai giovani nella speranza di lasciare il paese è discutibile, semplicemente perché utilizza i sentimenti altrui e trovo la cosa poco pulita. Ma se rifletto mi rendo conto che forse anche io, al posto loro, farei lo stesso. In fondo noi europei non ce ne rendiamo conto perché siamo liberi di andare dove vogliamo, nel momento in cui volgiamo, ma la maggior parte degli abitanti di questo pianeta sono imprigionati a casa loro, nell’impossibilità di viaggiare e spostarsi. Non dobbiamo allora stupirci se la gente farà tutto il possibile e l’immaginabile per fare quello che invece è permesso ad altri.
I governi hanno attuato tutte le politiche pensabili per arginare, controllare e limitare l’immigrazione, ma non sono mai riusciti a risolvere il problema.
“Io credo che i problemi legati all’emigrazione si risolverebbero se si aprissero le frontiere”. Il Che anticipa il mio pensiero. In fondo è la sola politica che non è mai stata applicata e ci credo veramente anche io, vietare ha da sempre spinto le persone ad infrangere le regole. Permettere la libera circolazione, che poi sarebbe un diritto fondamentale di ogni essere umano, potrebbe essere la chiave della risoluzione di uno dei problemi più complicati della nostra epoca.

Mi alzo, è quasi sera e io devo andare verso il centro. Saluto tutti, il Che si alza con me e mi accompagna fuori, guidandomi tra le mille piccole stradine sterrate del suo quartiere. Ferma un taxi, negozia, poi mi fa cenno di salire.
Lo saluto e salgo. Il taxi è simile a mille altri, il parabrezza crepato, le porte rotte, quella di sinistra, che dà sulla strada, bloccata; quella a destra è l’unica da dove è possibile uscire. Dallo stereo la radio trasmette canti religiosi. Il tassista mi chiede da dove vengo e perché mi trovavo proprio a Thiaroye, raro, mi dice, che lui passi da quelle parti con il sui taxi. Appena gli dico che sono italiana mi racconta dei suoi due fratelli in Italia, uno, il più piccolo, sposato con una dottoressa, “viene ormai da dieci anni l’estate qui a Dakar, ha perfino portato in Italia il figlio della prima moglie senegalese di suo marito”.
Ecco, ci mancava solo questo, rido e guardo fuori dal finestrino il paesaggio scorrermi davanti agli occhi. Chissà quale sarà il prossimo step dell’emigrazione, quale sarà la prossima trasformazione sociale, per il Senegal e perché no, per l’Italia. Guardo e rifletto, mentre un’altra giornata sta per finire, uguale a tante altre, qui a Dakar.