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Senegal – Migration time. Andata e ritorno nel tempo della crisi

di Chiara Barison, dottoranda in politiche transfrontaliere all’Università di Trieste

“Sembra che ci siano tanti senegalesi in Italia” mi dice Mohamed, un bel ragazzo di 25 anni. “Anche io sto cercando di partire, ma per gli Stati Uniti. Mia mamma vive lì. Sono ormai dieci anni che non torna in Senegal”. E’ sereno Mohamed, nonostante non veda la madre da così tanto tempo, ma la sua è solo una delle tante situazioni familiari simili che si possono trovare qui. Famiglie spezzate che mantengono i rapporti solo tramite telefono e web, ruoli che si ridefiniscono, figli che crescono in fretta e quella voglia di partire che è comune a tutti, filo conduttore che lega padri e figli.

“Perché così tanti senegalesi in Italia?” , mi chiede candidamente e questa sua ingenuità quasi mi commuove. In effetti l’Italia è stata per anni una delle mete di emigrazione preferite dei senegalesi, per due semplici motivi. Il primo era che si poteva riuscire ad ottenere il permesso di soggiorno con più facilità rispetto ad altri paesi europei e, secondo, la presenza di numerose fabbriche, soprattutto nel nord est del paese, dava una garanzia quasi automatica di un posto di lavoro.
L’iter è stato lo stesso per molti senegalesi, per tanti anni. La città d’arrivo veniva solitamente scelta in base alle conoscenze familiari del migrante. Avere un membro della famiglia o un amico permetteva di essere automaticamente inseriti in delle reti sociali già consolidate che aiutavano il nuovo venuto a non sentirsi perso in un ambiente sociale nuovo, ma inserito in un social network a lui familiare. La maggior parte dei migranti entrava in Italia tramite visto turistico, per poi rimanere senza documenti. I migranti seguivano successivamente l’iter che li portava dal lavoro di ambulante, quindi come vu cumprà ad un lavoro in fabbrica, una volta ottenuto il permesso di soggiorno.

Oggi le cose stanno pian piano cambiando e lo stesso percorso migratorio sembra modificarsi visibilmente.
Mancano ormai quella sicurezza e quella certezza che si avevano fino a qualche anno fa, la sicurezza che prima o poi si sarebbe trovato il modo di avere il permesso di soggiorno, la sicurezza di trovare un lavoro, anche in nero, la sicurezza, comunque, di un salario sufficiente non solo a pagare le spese di vitto e alloggio ma anche a garantire la sussistenza della famiglia allargata, l’investimento nell’immobiliare e l’apertura di qualche piccola attività commerciale a gestione familiare che avrebbe potuto dare lavoro ai membri della famiglia rimasti in patria.
Le certezze crollano e i piani per il futuro devono essere rivisti e ripensati.

Trovare emigrati rientrati in Senegal a causa della crisi economica non è poi così difficile. Affidarsi a documenti, statistiche e dati ufficiali è da escludere. Salvo qualche studio e ricerca a livello universitario mancano dati ufficiali attendibili riguardo i flussi migratori di rientro dall’Europa. Ma accanto a questa modalità ne esiste un’altra, sicuramente molto meno scientifica, ma altrettanto efficace, che consiste nel passaparola tra la gente.
Decido così di rientrare dagli HLM, un quartiere periferico di Dakar tra i più conosciuti, dove mi trovavo con degli amici, per tornare a Pikine-Canada, nel punto di riferimento per eccellenza, la boutique di Moustapha.
Gli chiedo diretta: “Conosci dei senegalesi che sono tornati dall’Italia e che sono qui a Pikine al momento?”. Un ragazzo a fianco, di nome Ibrahima, ride: “ce ne sono tanti, basta che fai un giro tra i tuoi vicini, sono sicuro che ne incontrerai più di uno”.
Moustapha alza la cornetta del telefono e compone un numero: “Pronto” dice in italiano “vieni al negozio, ti devo presentare Chiara, la ragazza italiana di cui ti parlavo. Vorrebbe farti qualche domanda”.
Moustapha è come sempre di grande aiuto perché conosce tutto e tutti. Nella boutique il solito chiacchiericcio e come sottofondo il telegiornale in wolof trasmette la notizia del terremoto avvenuto in Italia. Il mio cellulare continua a squillare, gli amici dell’università e la gente del quartiere mi chiamano per assicurarsi che la mia famiglia in Italia stia bene.
Ad un certo punto arriva Bamba, un ragazzo di circa 35 anni, alto, robusto. E’ vestito con un bubù azzurro; al collo una collana con la foto del suo marabutto. Saluta tutti, come di rito, chinandosi leggermente e portando le mani della persona alla fronte. Il cugino di Moustapha si alza e gli cede il posto, mentre il fratello è intento a preparare il te.
“Ciao” mi dice “allora com’è il Senegal?”. “Si sta bene” rispondo “solo che fa freddo e non mi aspettavo di trovare questa temperatura proprio qua”. “E’ vero” risponde lui. Bamba parla un italiano zoppicante , capisco che era lui la persona che Moustapha si era preoccupato di chiamare. “Io abito a Treviso. Sono lì da ormai sette anni”.
“Come mai sei tornato? Sei in vacanza?” gli chiedo, cercando di non essere troppo invadente. “Diciamo di sì…..vedi, sono in cassa integrazione da tre mesi, allora ho deciso di tornare qui a trovare la famiglia, piuttosto che restare lì a spendere soldi senza lavorare”.

“Tornare per risparmiare”, questa sembra essere la motivazione comune a tanti emigrati incontrati durante questo mese di permanenza a Pikine.
“Adesso in Italia è dura, le fabbriche chiudono. Due giorni fa mi ha chiamato un amico senegalese che vive a Torino, mi ha chiesto dei soldi. Vuole tornare in Senegal con la moglie e i due figli, ma non ha soldi sufficienti per fare il biglietto. Pensa che aveva ottenuto il ricongiungimento da appena un anno. E’ triste”
.
Moustapha annuisce “E’ così, purtroppo”. Il fratello intanto fa scorrere il te da un bicchierino all’altro, ripetutamente, con movimenti quasi ipnotici, poi ne porge uno a Moustapha e uno a Bamba.
Entrambi sorseggiano in maniera rumorosa, a piccoli sorsi. Tutto qui a Pikine sembra avere questo stesso ritmo lento, pacato.
“Credi che questa crisi stia contribuendo a questi ritorni che vediamo oggi a Pikine?” continuo.
“Sicuro. Le persone sono costrette a tornare perché non riescono più a sostenere le spese di un affitto o di un mutuo. Vengono qui per due o tre mesi, stanno con le famiglie, poi ripartono. Anche io tornerò tra un mese, anche se non ho ancora fatto il biglietto. Speriamo che ci sia lavoro, altrimenti ricomincerò a fare il vu cumprà, come appena arrivato. Tanti hanno ripreso a farlo e tanti ritorneranno proprio con l’estate per andare verso Jesolo o Rimini. Con i turisti è più facile vendere e fare soldi”.

Nonostante la crisi abbia portato numerosi immigrati alla perdita del lavoro, questo non sembra essere ragione sufficiente per interrompere definitivamente i progetti migratori.
Questi stessi immigrati tornano temporaneamente a casa ma il futuro è la partenza, nuovamente, seppur con la coscienza di farlo nel rischio e nell’incertezza di trovarsi senza lavoro e magari, di perdere il permesso di soggiorno.
Troppe persone dipendono dalle rimesse che arrivano dall’estero e se le fabbriche chiudono allora agli immigrati senegalesi non resta che inventarsi nuove occupazioni, nuovi mestieri.
C’è appunto chi riprende il lavoro di ambulante lasciato anni prima; c’è chi tenta di entrare nelle numerose agenzie di vigilanza come buttafuori nei locali notturni o nei negozi delle grandi città, c’è chi decide di intraprendere attività commerciali tra Italia e Senegal, comprando e rivendendo.
Adesso sta al singolo ripiegare su un lavoro alternativo che possa garantire almeno un minimo utile a portare avanti gli investimenti iniziati con il progetto migratorio.
“Purtroppo ho dovuto fermare i lavori nel cantiere dove stavo costruendo la casa, a Golf Sud. Non riuscivo più a pagare gli operai. Ho due mogli e cinque figli e tutti vanno a scuola, senza lavoro diventa davvero difficile, ma speriamo che quando tornerò ci sarà lavoro, Inchallah” ci tiene a precisare Bamba.

Sono ormai le cinque del pomeriggio, è l’ora della preghiera. I ragazzi stendono i tappeti per terra, hanno la faccia e la mani ancora gocciolanti d’acqua, dopo averle lavate, rito necessario prima di iniziare a pregare.
Si piegano, si inginocchiano, poggiano il capo sul tappetino. Ascolto le loro voci mescolarsi e osservo i movimenti delle mani. Ad un certo punto il ragazzo che guida la preghiera sbadiglia e quello dietro di lui lo segue a ruota. Sorrido. Aspetto che finiscano di pregare per congedarmi. Ho un appuntamento con un professore di liceo, il signor Kamara.

Prendo veloce un taxi che mi porterà a Patte d’Oie, verso il centro città, dove mi aspetta a casa di un amico.
Il tragitto è lungo, come sempre, a causa del traffico che intasa la rete stradale durante tutto il giorno, solito smog denso, solito inquinamento acustico. Osservo fuori dal finestrino la strada che porta al centro, i locali notturni e i ristoranti sono notevolmente aumentati rispetto a qualche anno fa, ad ogni isolato si possono trovare fast food e pizzerie, perfino ristoranti indiani e cinesi con servizio a domicilio. Ad un certo punto l’occhio mi cade su un’enorme costruzione, l’insegna è grande e illuminata: “Meubles Don Vito” (mobili Don Vito)” mentre alla radio passano un pezzo di Eros Ramazzotti. Saranno pure coincidenze, ma il legame con l’Italia è forte, evidente, nemmeno a livello visivo può sfuggire.
Pago velocemente e scendo. Il signor Kamara mi sta aspettando sulla porta d’entrata di un condominio nuovo, mi fa salire e mi fa accomodare in un bel salotto, all’interno di un appartamento comprato da un senegalese emigrato in Spagna.
Gli chiedo subito cosa pensi dell’emigrazione, visto che lui, professore di lettere, è giornalmente a contatto con quegli stessi ragazzi che oggi preferiscono lasciare gli studi per intraprendere viaggi di fortuna verso l’Europa.
Sospira e risponde: “L’emigrazione è sicuramente da considerarsi una perdita, se la si guarda del paese da cui il fenomeno prende avvio. Una perdita perché i giovani che sono nati in Senegal, sono stati formati in questo paese, lo stato ha speso soldi per questi giovani, investendo parte delle risorse nella loro istruzione ed educazione. La risposta a questo tipo di investimento è una generazione che decide di prendere l’aereo o la nave e di partire all’estero, diventando la forza lavoro di un altro paese che, ovviamente, non ha speso nulla per la loro formazione. Quindi emigrazione come perdita per lo stato e come perdita per la società”.
“Perché perdita per la società?” gli chiedo. “ La risposta è semplice, basta andare in alcuni villaggi nella regione del Fouta, nel nord del paese, per rendersi conto che non ci sono praticamente più giovani; tutti, o quasi, sono partiti in cerca di fortuna all’estero, in Europa prevalentemente. La perdita di braccia tolte all’agricoltura è enorme. Legato a questo l’emigrazione è anche una perdita a livello economico, considerando soprattutto che non è vero che le rimesse aiutano lo sviluppo del Senegal, in quanto la maggior parte di questi soldi viene speso, non per aumentare o creare produttività, ma in azioni improduttive”.

Il professor Kamara ha ragione. L’emigrazione ha trasformato il paese, sia a livello visivo che a livello sociale. Basti pensare al nucleo principale fondante una società, la famiglia. In Senegal il concetto stesso di famiglia si è modificato e si sta tuttora trasformando ai ritmi dettati dal fenomeno migratorio.
Fino ad oggi la maggior parte degli individui che decidono di emigrare sono giovani maschi o uomini in età adulta, anche se è possibile riscontrare un certo aumento nella crescita percentuale delle donne che decidono di intraprendere lo stesso percorso. Molti di questi uomini lasciano moglie (o mogli) e figli.
Partendo nella maggior parte dei casi con un visto turistico, questi emigranti, si troveranno ben presto senza documenti e non potranno tornare a casa se non una volta ottenuto il permesso di soggiorno, restando cinque, sei, a volte dieci anni senza tornare a casa.
La famiglia allora non avrà più come figura di riferimento principale il padre ma tutto ruoterà attorno ai nonni o alle mogli.
Cresce l’importanza della figura femminile in quanto le donne si ritrovano ad essere madri e padri allo stesso tempo, nonché a volte imprenditrici esse stesse, nel dover gestire la miriade di piccole attività commerciali di cui il paese vive (piccole boutique, piccoli phone center, ristoranti, ecc…).

“Immaginiamo il dramma sociale di centinaia di donne e dei loro figli, cresciuti senza la presenza dei padri. Donne che si trovano a dover subire ed accettare l’adulterio e che commettono a loro volta adulterio, perché gli immigrati creano spesso famiglie anche nel paese dove si trovano a vivere, rischiando di trovarsi in situazioni critiche, se non paradossali, magari conducendo una doppia vita e le mogli, abbandonate per anni, si trovano magari incinte di altri uomini e vengono abbandonate per questo dal marito, trovandosi senza casa e appoggio economico. Non c’è da stupirsi che uno dei reati più comuni in Senegal sia l’infanticidio, aumentato in maniera preoccupante con la crescita esponenziale delle partenze di emigranti, in quanto donne spesso sposate con mariti partiti all’estero, per non rischiare il divorzio, decidono di uccidere o di abbandonare i figli nati da relazioni extra coniugali. Ritorniamo dunque ancora una volta al dramma sociale causato dalla piaga dell’emigrazione. Accanto a questi aspetti negativi l’emigrazione ha anche dei risvolti positivi. Le rimesse sono sicuramente l’aspetto principale perché, sebbene non vengano investite in maniera tale da creare sviluppo a lungo termine, comunque alimentano l’economia del paese e le piccole attività. Il mercato immobiliare ha avuto un vero e proprio boom: se prima di partire la casa di un immigrato era vecchia o in un quartiere periferico, una volta tornato, la stessa casa verrà ristrutturata o ne verrà comprata un’altra in uno dei tanti quartieri residenziali di Dakar e dintorni”.
La casa diventa dunque un indice attraverso il quale si capirà se in quella famiglia c’è o meno un individuo partito a lavorare all’estero, in quanto è il primo investimento che l’immigrato fa con le rimesse inviate.
Più una casa è grande e moderna, più grande sarà la possibilità che quella casa appartenga ad un ‘modou-modou’ (nella lingua wolof indica l’emigrante partito in Europa in cerca di fortuna).

L’investimento immobiliare è dunque l’aspetto positivo primario dell’emigrazione senegalese. Il secondo punto positivo è che il migrante può contribuire ad aumentare il tenore di vita della sua famiglia e, considerando che la famiglia in Senegal è una famiglia allargata, le persone che dipendono dalle rimesse di quest’ultimo sono molte. Come precisa puntuale il professor Kamara: “Questo punto è molto importante perché facendo passare la famiglia da una condizione di ‘sopravvivenza’ ad una di ‘tenore medio-alto’, un individuo può permettersi non solo di pagare i generi di prima necessità, di pagare le bollette di luce, acqua, gas, telefono ma non solo; gli extra saranno investiti in TV via cavo e Internet, potenti mezzi di comunicazione che permettono l’apertura con tutto il mondo. Un’occasione per offrire a chi resta una possibilità di miglioramento e di apprendimento notevolmente maggiore rispetto alle possibilità iniziali, prima quindi dell’esperienza migratoria. Nonostante questi aspetti non si può dimenticare la perdita importante di risorse umane formate in Senegal e che vanno a lavorare in altri paesi che non hanno investito nella loro formazione. Una volta inseriti nel mercato del lavoro di questi paesi, essendo spesso in una condizione di irregolarità, questi immigrati non avranno né una protezione sociale né avranno un giorno la pensione quindi si ritroveranno a vivere una forma di schiavitù moderna. Il giorno che non avranno più la possibilità o la forza di lavorare, il paese dove si trovano a vivere non farà altro che espellerli”.

L’investimento che pensano di fare i giovani è, secondo loro, il migliore: migliore di continuare gli studi e quindi spesso lasciano le scuole non appena terminate le scuole superiori; migliore di utilizzare quello stesso denaro speso per comprare un visto turistico per aprire un’attività, in quanto sono convinti che una volta arrivati in Europa il guadagno sarà non solo notevolmente maggiore, ma anche notevolmente più veloce; migliore anche al punto di rischiare la vita stessa, perché se il piano migratorio avesse successo, allora ci sarebbe automaticamente un salto nella scala sociale e l’idea, per quel ragazzo che mette la sua vita in balia del mare, di pensare di essere trattato e rispettato come tutti i modou-modou che ha visto per anni tornare dall’Europa con i soldi, è e rimane la rivincita più grande.
Il punto è che questi giovani non sono sufficientemente informati riguardo a ciò che troveranno una volta giunti in Europa. Sebbene i mass media senegalesi stiano ultimamente cominciando a trattare la tematica dell’emigrazione cercando di informare sulle difficoltà a cui si va incontro (un esempio è il programma “Modou-moudou double face”), i giovani sono tutt’ora insensibili a queste campagne informative, troppa è infatti la voglia di soldi veloci e la pressione delle stesse famiglie affinché almeno uno parta e possa garantire a tutti un tenore di vita più elevato.
L’idea principale è che, nonostante le difficoltà, il lavoro si possa trovare. Ma il punto è proprio questo, ormai, colpa anche della crisi internazionale, ciò che prima era ovvio e scontato, come il fatto di trovare un lavoro, anche in nero, oggi non lo è più e l’esperienza di Bamba ne è l’esempio concreto.
Se per i cittadini stessi di un paese diventa difficile trovare un lavoro che garantisca la sopravvivenza, allora per un immigrato la scommessa sarà davvero ardua ed è questo il punto che dovrebbe essere diffuso e fatto comprendere ai giovani senegalesi.

“La situazione diventa paradossale: i giovani lasciano il paese per non fare lavori che ritengono degradanti e si ritrovano a fare questi stessi lavori in Spagna o in Italia, ma in condizioni peggiori, sotto la pioggia, al freddo, trovandosi magari senza casa e senza soldi sufficienti per arrivare a fine mese.
Naturalmente ciò che li spinge è sapere che, nonostante il tipo di lavoro che si ritrovano a fare, i soldi che guadagneranno saranno di più di quelli che guadagnerebbero facendo lo stesso tipo di lavoro in Senegal.
Facendo un esempio semplice, in un mese, lavorando come bracciante in Italia, i soldi guadagnati in un mese saranno 800 euro, mentre in Senegal, dopo un’intera stagione si possono guadagnare al massimo 500 euro.
Agli occhi di molti questo è una giustificazione sufficiente per partire, ma non tengono conto, nei loro calcoli approssimativi, del costo di vita differente. Riusciranno con quegli 800 euro a vivere un mese in Italia? Quanti di quegli 800 euro verranno messi da parte o spediti alle famiglie?”
il professor Kamara ha sollevato dubbi più che giusti, ma bisogna tenere presente che qui in Senegal lo stato non ha le risorse e i mezzi necessari per poter trattenere i giovani e, da un certo punto di vista, è lo stato stesso che vuole mantenere una situazione di questo tipo perché le rimesse che gli emigrati inviano periodicamente alimentano il mercato interno.
I punti che andrebbero rivisti sono una maggior informazione che prepari i giovani a ciò a cui andranno incontro; una maggiore consapevolezza di ciò che potrebbero riuscire a fare restando; una politica volta all’investimento produttivo delle rimesse degli emigrati; un investimento che crei impresa e che, a sua volta, crei posti di lavoro.
La produzione necessita non solo di capitali importanti, ma anche di risorse umane qualificate e di strategie d’azione durevoli.
Realizzare un sistema produttivo e competitivo necessita di metodo, di pazienza e di perseveranza, contrariamente al piccolo commercio, dove ci si accontenta dei piccoli risultati immediati.
Queste forse le basi che dovrebbero essere gettate per pensare ad uno sviluppo a lungo termine del Senegal e che possa attutire una crisi che ha già messo in ginocchio un intero pianeta.

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