Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

di Martina Tazzioli

Spostamenti di confine

Mare Nostrum chiude, al suo posto Triton-Frontex

Il Ministro degli Interni Alfano annuncia la conclusione dell’operazione Mare Nostrum nel Mediterraneo e il passaggio alla missione Frontex denominata Triton.
Dietro al dibattito sui costi (inferiori per l’Italia), sulle competenze (alla missione aderiscono più stati europei) e sulla zona di intervento (entro 30 miglia dalle coste italiane), si intravede la vera prospettiva delle politiche europee di regolamentazione dei movimenti di migranti e rifugiati: completare il processo di spostamento della gestione del confine e della protezione internazionale verso i paesi terzi, appaltando oltre lo spazio europeo doveri di accoglienza e protezione dei paesi dell’Unione.

Pubblichiamo di seguito una riflessione di approfondimento sulla connessione tra i dispositivi umanitari e quelli securitari che sottendono al passaggio da Mare Nostrum a Triton.

Spostamenti di confine

La decisione del Regno Unito di non partecipare all’operazione Triton preannuncia che questa sarà un’operazione europea solo a metà, mentre il blocco di una partenza di migranti effettuata ieri dalle autorità egiziane confermano il coinvolgimento di stati terzi nella missione per un funzionamento a tutti gli effetti delle pre-frontiere dell’Europa. Al tempo stesso, la ritirata della Gran Bretagna segnala ciò che in realtà cominciava a emergere già pochi mesi dopo l’inizio di Mare Nostrum: uno spostamento di confine.

Il primo, quando in inverno sono ricominciati i naufragi e i morti al largo delle coste libiche di cui, soprattutto all’inizio, era difficile avere i numeri precisi. Di fatti, il ‘buon spettacolo del confine’ messo in atto dalle navi della Marina Militare con i bollettini quotidiani di donne, uomini e bambini salvati, non lasciava spazio al non-spettacolo dei naufraghi a distanza
. Certo, in quel momento le navi di Mare Nostrum si spingevano fino in prossimità delle acque libiche ma non per questo evitavano ogni naufragio. Spostamento del confine proseguito contemporaneamente oltre il mare e la scena dei salvataggi con la strategia dell’ “umanitario a distanza” che si concretizzava nell’invio di aiuti umanitari nei paesi confinanti con la Siria, nell’ottica del “vi salviamo a casa vostra”. In fondo la stessa proposta dei canali umanitari rinnovata adesso anche dall’Inghilterra come vera alternativa alle operazioni di salvataggio in mare non fa che rafforzare, usando il vocabolario della facilitazione degli ingressi, quegli stessi presupposti escludenti su cui si fonda la politica dell’umanitario. Il canale come metafora spaziale mobilitata da governi, Unione Europea e agenzie per le migrazioni per ribadire un no a un’apertura incondizionata delle frontiere per coloro che in questo momento fuggono dalle guerre.
Ed é precisamente questa selettività della politica di asilo che coloro che provano ad arrivare in Europa mettono in crisi, a causa dell’assenza di uno spazio (sicuro) in cui stare come condizione ormai generalizzata tra chi si trova a lasciare il proprio paese. I movimenti nel Mediterraneo e i continui arrivi in Italia, mostrano che la protezione internazionale, e ancora prima la possibilità di uno spazio in cui stare, non possono essere diritti riservati a chi rientra nei criteri restrittivi dell’asilo. Ma soprattutto, l’umanitario-militare in tutte le sue mutazioni indica che è proprio il confine esercitato a distanza a impedire una critica senza cedimenti, che sia al tempo stesso fuori dalla trappola degli anti Mare Nostrum che del militare-umanitario contestano i costi del salvataggio delle vite dei migranti e i suoi effetti di ‘pull factor’ – ovvero l’ incentivo per i migranti a partire.

Di fatti, prima ancora di un’eventuale protezione umanitaria accordata dagli stati europei, la politica dei visti sposta, o meglio anticipa definitivamente il confine e i suoi effetti di contenimento. Un’equazione, in fondo, quella tra politica dei visti, illegalizzazione e viaggi a rischio della propria vita, che ormai ripetiamo da tempo e attorno a cui la stessa Carta di Lampedusa é stata scritta. Ma non vi sono scorciatoie da percorrere per mettere realmente in discussione e dichiarare inaccettabile la presa sulle vite delle migranti e dei migranti che amministra il funzionamento del confine militare-umanitario senza prevedere altra possibilità alcuna al di fuori di una mobilità eccezionalizzata, che per essere agita deve mettere a rischio la vita stessa per poi (forse) essere salvata. L’opposizione da parte di molte associazioni allo stop di Mare Nostrum e all’avvio di un’europeizzazione delle operazioni di intercettazione e confinamento come Triton si preannuncia essere, risponde al tentativo di alimentare, ancora una volta, misure securitarie e poliziesche di cui Mos Maiorum ha rappresentato il nuovo rodaggio. Già quest’ estate, del resto, il comando della Marina Militare di Roma aveva cominciato a cambiare il registro del proprio discorso: “Mare Nostrum” dichiarava “é prima di tutto un’operazione di sicurezza, che assicura una riduzione sostanziale del circuito di trafficanti. In fondo non si parla mai di Mare Nostrum in questo senso perché la sicurezza quando c’é, come noi garantiamo, non la si vede”.

Se da un lato non si può validare una critica di Mare Nostrum tout court senza trascinarsi insieme le posizioni dei migrantofobi e la chiusura di stati come la Gran Bretagna a ogni intervento di salvataggio, dall’altro quella scontata equazione tra regime dei visti e morti in mare deve essere sempre riaffermata anche ogni volta che chiediamo che le vite di coloro che sono governati come migranti vengano salvate. Il paradosso, stando ai criteri esistenti dell’asilo, di uno spazio e di una protezione per tutte e tutti coloro che fuggono da un conflitto e dunque per non avere uno spazio in cui stare, era stato già affermato in Tunisia dai migranti del campo di Choucha, adesso, dopo un anno e mezzo dalla sua chiusura ufficiale, rimasto un deserto ancora da circa 150 persone. A Choucha, nonostante l’invisibilità politica che UNHCR ha prodotto stabilendo che “Choucha non esiste piú”, i diniegati dall’Alto Commissariato sono rimasti prendendosi quello spazio, invivibile per chiunque vi abbia trascorso anche solo due ore, e rifiutandosi di andarsene proprio per rivendicare uno spazio in cui stare altrove e una protezione per tutti coloro fuggiti dalla Libia.

Il ‘passaggio’ a Triton, la trasmutazione del militare-umanitario in un nuova nuova versione delle politiche di contenimento, ci mette sotto gli occhi la capacità trasformativa della razionalità e ancor piú delle pratiche di restrizione della mobilità di alcuni e alcune. Una duttilità appunto sperimentata per due settimane con l’operazione Mos Maiorum, quando é stata data la caccia a migranti in tutta Europa. Vite da salvare in mare, adesso ormai solo a distanza, lasciando ‘pulito’ quello spazio europeo che stando alla politica della ‘giusta e misurata migrazione’, ultimamente a sud si era popolato di presenze che attendevano di riuscire a proseguire il viaggio verso il nord Europa. Gli stessi soggetti dell’umanitario che, una volta sul territorio, diventano corpi in movimento da identificare, cacciare, ed espellere. Sarebbe però affrettato concludere che si tratta di un potere che si limita a respingere gli indesiderati. Basta infatti pensare ai modelli di schedatura di Mos Maiorum che gli agenti di polizia sono stati chiamati a seguire ogni qualvolta fermino un migrante: criteri relativi al ‘chi é’ (nazionalità, genere, età, statuto di rifugiato o meno) combinati a caselle sul ‘cosa e come fa’ (mezzi di trasporto usati, rotte seguite, destinazione finale, somma sborsata per il viaggio e punto di ingresso nell’UE). Dati che, insieme a molti altri catturati da sistemi di monitoraggio e di controllo ‘real-time’ come Eurosur, vanno ad assemblare nuovi profili migratori e risk-analysis maps per dettare gli spazi e le modalità delle future operazioni di cattura, contenimento e selezione dei movimenti delle e dei migranti. Mappe e statistiche con cui gli stati provano a spiare, rincorrere e anticipare percorsi di mobilità: l’umanitario e il securitario sono in questo senso compartecipi di una politica dei numeri che prova ad avere una presa sulle vite impedendo o restringendo l’accesso al territorio europeo, la sua percorribilità o il mero stare ai soggetti dell’umanitario divenuti ben presto presenze irregolari nello spazio europeo. Di fatti, gli ibridi che si sono manifestati in questi ultimi mesi, tra politiche di respingimento e politiche di salvataggio non devono stupire e rispondono all’affannato tentativo dell’Unione europea e degli stati membri di ritrovare un meccanismo di governabilità dello spazio interno europeo. E se il Mediterraneo é certamente al centro del dibattito sull’europeizzazione o meno delle politiche di confinamento, oggi la provenienza delle persone che attraversano quel mare ci rimanda immediatamente a contesti di guerra che impongono di considerare quell’ ‘oltre confine’ come costitutivo delle stesse geografie mediterranee. In questo senso, la lotta dei rifugiati di Choucha e il loro continuare a chiedere uno spazio, disobbedendo all’ordine di sgombero a cui tra pochi giorni procederanno le autorità tunisine, non può essere considerato semplicemente a margine delle politiche europee di esternalizzazione: la lotta di Choucha, di chi da quel deserto di tende non é disposto ad andarsene fino a che un effettivo spazio non gli verrà concesso, riporta al centro della scena del buon spettacolo dell’umanitario gli effetti di confine, visibili del resto solo quando con lo sguardo ci si sposta oltre quella scena. Inoltre, rivendicare uno spazio di movimento e di esistenza é in ultima analisi ciò che ritorna in molte delle lotte attuali dei migranti in Europa ma che di fatto indicano gli stessi movimenti di attraversamento che avvengono nel mar Mediterraneo, pur senza alcuna esplicita rivendicazione.

Provando dunque a disconnettere uno dei due termini – l’ umanitario – della coppia securitario-umanitario, o militare-umanitario che sia, si rischia di riproporre il discorso sulle ‘tragedie in mare’ rispetto alla cui intollerabilità ci si trova a essere d’accordo con quegli stessi attori responsabili delle politiche di imbrigliamento della mobilità. Senza voler perdere di vista le differenze che ci saranno tra l’operazione di contenimento Triton e i salvataggi di Mare Nostrum in prossimità delle acque libiche, si può tuttavia provare a esercitare un duplice rifiuto: quello dello spostamento del confine oltre alla scena del ‘buon spettacolo’ del salvataggio e, insieme, il rifiuto di una presa umanitaria-militare sui soggetti che prolunga anche oltre gli scenari di guerra l’impossibilità di uno “spazio di esistenza” e di libero movimento. La visibilità ricercata dai migranti stessi molto spesso ormai localizzabili in mare grazie ai telefoni satellitari, insieme alla recente attivazione del safe-alarm network, che garantisce un numero di emergenza sempre attivo per i migranti in caso di difficoltà incontrate durante la traversata, deve tuttavia far riflettere sul modo in cui la visibilità dell’umanitario (il buon spettacolo del confine) viene strategicamente rigiocato. La questione sarà eventualmente capire come non schiacciare queste pratiche di appropriazione della mobilità entro forme di un umanitario sussidiario o che semplicemente si propone di agire ‘dal basso’. Una rete di supporto alle pratiche e alle lotte per la mobilità che sappia rifiutare e disobbedire prima di tutto all’eccezionalizzazione delle vite che la presa militare-umanitaria ci presenta come inevitabile.