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Storie di vita

di Valentina Maltese

Quando si avvicina uno straniero e noi lo confondiamo con un nostro fratello, poniamo fine a ogni conflitto. Ecco, questo è il momento in cui finisce la notte e comincia il giorno.
Paulo Coelho

Non ce la posso fare!”, mi ripetevo a metà settembre 2015, quando una delle coordinatrici della coop. D. dove avevamo appena iniziato a svolgere il nostro anno di servizio civile, mi ha proposto di tenere il corso di lingua italiana ai ragazzi richiedenti asilo e protezione internazionale del progetto SPRAR di F.
Non mi sentivo all’altezza e umanamente non sapevo come affrontare persone che… “chissà quante ne avevano passate nella loro vita”.

Ricordo la prima volta in cui li ho incontrati. Per comodità, avevamo deciso di dividere i ragazzi in due gruppi: uno di principianti e analfabeti e l’altro di persone che già avevano una certa dimestichezza con la lingua.
Arrivati in classe, alcuni di loro neanche mi guardavano in faccia, altri salutavano solo Y. (servizio civilista come me, ma uomo) e M. (tirocinante), altri facevano fatica a dirmi il loro nome con voce sommessa e altri ancora avevano un sorriso contagioso.

Il primo approccio lo abbiamo vissuto arrancando: lo scoglio principale era ricordarsi tutti i nomi per cercare di fare meno brutte figure possibili e iniziare la conoscenza col piede giusto. Il secondo problema, con alcuni di loro, era comunicare e cercare di comprendersi, fare in modo che o in italiano o in inglese o in francese le sei ore che passavamo insieme alla settimana fossero utili. Prendere confidenza con ragazzi di cui non sapevamo assolutamente niente, provenienti da paesi di cui non conoscevamo nemmeno la storia è stato un percorso impegnativo ma pieno di soddisfazioni. La fiducia che cammin facendo, lezione dopo lezione si è costruita fra di noi ha ripagato tutti gli sforzi iniziali. Le parole, gli sguardi e i gesti che col tempo hanno contribuito a creare un vero e proprio scambio reciproco ci hanno infine appagato.

Gli aspetti più interessanti e fondamentali dello stare a contatto con questi “ragazzoni” sono stati proprio la grande apertura e intesa che da entrambe le parti si sono create. Io e Y. non sapevamo niente del contesto da cui essi provenissero, che tipo di vita avessero prima di arrivare qui da noi e cosa volesse dire vivere la nostra città da rifugiato. Ha suscitato per cui una grande curiosità in me, il fatto di voler scoprire qualcosa in più sulle persone con cui mi rapportavo, e alle quali stavo insegnando in qualche modo a “cavarsela” un po’ meglio in Italia.

Una delle prime persone che ha intrapreso questo “viaggio” con me è stato L., un ragazzo gambiano di diciotto anni che vive in Italia da circa un anno e otto mesi.

L. ricorda bene il mare, il mare in Gambia e il mare della Sicilia, che è diventata la sua “casa” per circa un anno prima di arrivare a F. “Le persone del sud sono più aperte e simpatiche” mi dice quasi sottovoce.

Con gli altri ragazzi, e in particolare col suo compagno di casa K., si trova bene qui a Forlì ma a Trapani aveva trovato la sua seconda dimora. Indicandomi il tempio di Segesta come suo luogo italiano preferito e dicendomi che conosce più italiani in Sicilia e più persone straniere qui a Forlì, sottolinea questo suo forte legame col sud. L. è così, parla poco anche in classe ma nasconde una discreta conoscenza di ciò che lo circonda. Calibra le parole e interviene anche a lezione nel momento giusto con la sua opinione, ben formulata anche in italiano. Opinione che lascia intendere il fatto che alle spalle egli abbia diversi anni di scuola sia in Gambia che in Italia. Mi racconta che ha conseguito la terza media e che ha iniziato ad avvicinarsi alla lingua italiana grazie ad un’associazione volontaria in Sicilia. Nonostante questo, le parole più difficili da pronunciare in italiano sono quelle che iniziano con il suono “sv”, “Da noi non c’è quel suono”, mi spiega. Gli piace tanto la storia ed era contento di venire in Italia proprio perché è “un paese ricco di storia e cultura” e proprio come tanti ragazzi della sua età odia la matematica. Quando parliamo del suo passato e di come è arrivato in Italia, è difficile proseguire, la sua riservatezza prevale. Mi racconta che la prima cosa che ha visto arrivando in Italia con la barca sono state le montagne, e non le acque della Sicilia. Lo hanno colpito le montagne che forse non aveva mai nemmeno visto in vita sua. Non mi racconta molto altro dei suoi trascorsi, ma quando parliamo del suo presente e della sua esperienza in Italia, ha le idee ben chiare. “Non so se mi sposterò da qui, dipende da dove troverò lavoro, non posso vivere senza niente”. Mi dice scherzando che gli italiani sono strani: “vogliono sapere tutto di te ma al contrario non ti raccontano mai di sé stessi”.
Sostiene che le differenze fra coloro che si sono spostati in Italia e quelli che sono rimasti in Africa si vedono anche nelle piccole cose. Gli africani si salutano sempre fra di loro ma qui queste abitudini si perdono. Le persone si “italianizzano” e tutti sono troppo presi a fare altro. “Anche a me ora non piace più così tanto salutare!”. L. è anche uno dei ragazzi che fin dall’inizio ci ha seguito nel progetto di integrazione attraverso il calcio e come altri suoi amici ci ha creduto e ci crede molto, la definisce “una cosa buona per integrarsi nella società”. Mi saluta dicendomi che ormai è partito dall’Africa da tre anni, era ancora minorenne, e quando gli chiedo se è cambiato in tutto questo tempo, lui semplicemente mi risponde “sono cresciuto”.

Lo stesso giorno intervisto un altro ragazzo gambiano, che a differenza di L. fa ancora un po’ fatica con la lingua italiana, anche se dimostra sempre tutta la grinta e la positività di cui c’è bisogno in queste situazioni. S. ha sempre un sorriso contagioso ma consapevole. E’ un po’ più grande di L. e mi chiede se possiamo fare l’intervista in inglese. Un po’ titubante all’inizio, sarà proprio lui stesso verso la fine a chiedermi di non fermarci, di fargli altre domande per l’intervista, perché “ci ha preso gusto”. Proviene dalla seconda città più grande del Gambia, Brikama. Una delle prime cose di cui parliamo è il suo paese. Mi dice che tutto ciò che ha a che fare con esso ha un posto speciale nel suo cuore. L’acqua è una delle risorse principali del Gambia a cui è particolarmente legato specialmente quando si parla del fiume. Abbiamo l’oceano Atlantico, il fiume Gambia, che nasce dal Fouta Djallon. Amo il Gambia. I suoi occhi brillano quando parla del tempo che passava con i suoi amici in spiaggia.
S. è in Italia da circa un anno e sei mesi, ma non ha sempre vissuto a Forlì. Ha passato il primo periodo nella comunità di A., un piccolo paesino sull’Appennino Tosco Emiliano. E’ rimasto lì per circa un anno. Quando gli chiedo se gli piacesse o meno vivere lassù, la risposta è quasi scontata: “A. è un piccolo paesino, molto piccolo, in cima ad una montagna. Ci sono solo persone anziane per lo più, i giovani si vedono solo nel week end. E’ noioso. Mi piace F., anche se non al cento per cento.”
Mi dice con sicurezza che il suo colore preferito è il bianco perché è il colore della pace. Un uomo in pace, è proprio quello che sembra, con la tranquillità che contraddistingue i migliori “rastamen”, come lui ama definirsi. Il suo cantante preferito è “suo zio” (come lo chiama sempre lui) Bob Marley.
Dalle parole di S. si capisce sempre che ogni cosa è ponderata e non nasconde equilibrio e responsabilità nella sua vita, anche quando mi racconta del momento in cui è sbarcato in Italia: “Ho avuto una buona impressione riguardo agli italiani. Sono state le prime persone a salvarci dal mare, ci hanno portato dal mare in Sicilia. Il mare può un incubo, specialmente quando le condizioni atmosferiche non sono le migliori. Ci hanno salvato alle sette di sera e verso mattina il tempo era orribile, se fossimo rimasti in mare… Non lo so. Sono davvero grato, Non so nemmeno quanto ringraziarli. Qualcuno che salva la tua vita, davvero non si può ringraziare a sufficienza. Salvare qualcuno dal mare, salvare la vita a qualcuno (…).”

Anche la sua vita qui a Forlì sembra contraddistinta dallo stesso atteggiamento rilassato e pacifico. Solitamente passa ore al parco cittadino, il grande polmone verde della città: “Mi sento così rilassato li. Vado lì e passo tre o quattro ore, rilassandomi e meditando, rilassando il mio cervello. Mi piace a volte stare da solo per alcune ore. Vado con amici o anche da solo.”
Quando si parla di scuola e lavoro ha la stessa grinta, è determinato nell’imparare la lingua italiana e ad andare a scuola. Il suo italiano ha fatto passi da gigante e mi confessa che la parola più difficile da dire in italiano è “frigorifero”. Ridiamo, fatica ancora a pronunciarla. Una delle cose che più mi stupiscono è la considerazione che lui come altri dimostrano nei confronti di un paese come l’Italia, che molto spesso faccio fatica io stessa a giudicare in modo positivo. Il paese che lo ha salvato dalle acque burrascose del Mediterraneo quella sera. “Sento che l’Italia sia molto più ospitale di tanti altri paesi in Europa. Avete buona ospitalità e ho preferito venire in Italia per cambiare la mia vita dannata. Per fare questo c’è bisogno di stare in un posto con una buona dose di ospitalità altrimenti non sarebbe così facile.”
Mi pare interessante chiedere a S. come anche agli altri, che opinione hanno del concetto di razzismo. Ottengo più o meno la stessa saggia risposta da quasi tutti: “Per me il razzismo è malattia mentale (…) Non posso dire che tutti gli italiani siano razzisti, ma in qualunque società tu ti trovi, ci devono essere persone razziste e non. Se hai la mentalità razzista lo sei, se non la hai, non lo sei (…). Se ne può guarire, se si ha la consapevolezza che tutti siamo uguali e se conosci la vita degli stranieri. Se apri la mente e non ti dimostri egoista. E’ davvero una questione di egoismo.
Aggiunge anche: “il colore non fa alcuna differenza. Permettimi di farti un esempio: Tu sei bianca, io sono nero. Ma se ti fai male, il tuo sangue è rosso, il mio sangue è rosso. Quindi, qual è la differenza?
Non fa una piega penso fra me e me. Ecco il nocciolo della questione. S. ormai è a suo agio con me, parliamo di cose serie e profonde e ridiamo di episodi simpatici successi da quando è in Italia. La sensazione che avverto è di fiducia e apertura. Prima di lasciarci mi spiega il suo concetto di “adattamento” e integrazione al luogo in cui ora vive e del perché le persone si adattano e cambiano modo di fare e vivere a seconda di chi si trovano davanti e del posto in cui si trovano: “Quando ti sposti in un luogo diverso, devi essere come quelle persone. Gli inglesi dicono: “Quando vai a Roma, fai come i Romani”, Quindi devi osservare le abitudini di qui e cercare di imitarle in qualche modo, evitando i lati negativi.
Ci tiene a sottolineare che nonostante il suo comportamento e i suoi modi di fare qui in Italia si siano adattati al paese in cui vive, dentro lui non è cambiato. “Le culture e gli stili di vita sono diversi, non si può copiare la cultura di qualcun’altro abbandonando la propria e non si può copiare la vita di qualcun altro per cercare di essere come lui, è impossibile. Non bisogna cercare di essere uguali al cento per cento, ma essere in linea con le altre persone. Non è una questione di copiarsi, è una questione di integrarsi. Io sono sempre lo stesso S. di prima. Copio quando è necessario, ma solo gli aspetti positivi.”

Qualche giorno dopo riesco a convincere il primo dei ragazzi maliani ad essere intervistato. K., coinquilino di L. Hanno la stessa età e hanno vissuto insieme lo stesso percorso, in Sicilia e a F. Sono quasi inseparabili, sembrano quasi fratelli. Come L., K. è arrivato in Italia che non era nemmeno maggiorenne.
Proviene dalla città di Kidal in Mali, ma non aggiunge altro su di essa, se non che ricorda bene la moschea dove andava a pregare. E’ in Italia da un anno e mezzo circa e come al suo amico, gli piace più la Sicilia. “A Calatafimi (Trapani) mi sono fatto tanti amici italiani, una volta conosciuti, uscivamo sempre insieme e ho un bellissimo ricordo dei templi di Segesta”. K. è timido, non mi racconta molto di se, ma la semplicità e la genuinità con cui mi risponde non mi fanno demordere. In questi mesi, lezione dopo lezione e soprattutto durante le partite di calcio ha tirato fuori tutta la sua simpatia e la sua grinta. È uno di quei ragazzi che all’apparenza sembra sempre sulle sue, ma quando riesci a prendere confidenza è un uragano di dolcezza e simpatia tanto che sarebbe capace di improvvisarti un balletto africano anche in mezzo a piazza S., senza musica.
Nonostante fosse ancora adolescente al suo arrivo sulle coste siciliane, come tanti altri ragazzi che giungono qui in Italia, attraversando in barca il Mediterraneo, dimostra di sapersela cavare egregiamente anche con i pensieri per il futuro. “Adesso sto costruendo il mio futuro. Vado a scuola, faccio il corso da elettricista e imparo, per guadagnare soldi. Penso alla mia famiglia, a mia madre, nel mio paese. Ho lasciato tanta sofferenza lì e vorrei poterli aiutare un giorno avendo un buon lavoro e guadagnando soldi”.
K. è l’esempio vivente dell’ottima integrazione che è nata dal nostro progetto sportivo. Ha sempre partecipato alle partite del campionato di calcio UISP che siamo riusciti a organizzare per i ragazzi dello SPRAR quest’anno grazie al prezioso aiuto dell’associazione F. NON STOP. Sono proprio i ragazzi di F. NON STOP ad essere entrati nel cuore di K., e lui nei loro con la sua spensieratezza e gioia di vivere. Il rapporto che ho visto nascere e crescere con loro è stato davvero di esempio. Quando si vedono adesso sembra essere il loro fratello minore. E’ fantastico.
Nelle settimane successive continuo ad indagare sul vissuto, sul quotidiano e sui sogni dei ragazzi. Un viaggio attraverso storie, paesi e modi di vivere apparentemente lontani da me ma che mi regalano sorrisi, emozioni e riflessioni.

Un lunedì mattina intervisto S., un ragazzo della Guinea. S. è taciturno, non esprime in maniera dirompente le proprie emozioni come fanno altri. Con un tono di voce pacato e una discreta padronanza della lingua italiana, mi racconta la sua storia. Ha 19 anni e proviene dalla capitale della Guinea, Conakry. Lui, come tutti del resto, ama il suo paese. A Conakry c’è il mare, è infatti un porto sull’oceano Atlantico, il lembo settentrionale dell’isola di Tombo e S. mi parla di quando andava al mare con i suoi amici, delle feste in spiaggia, le nuotate e l’acqua che non era nemmeno troppo fredda. Tutto ciò gli manca molto. E’ in Italia da circa un anno. Dopo essere sbarcato in Calabria ha vissuto per un po’ di mesi anche a C., al mare. Mi racconta che in Guinea aveva iniziato gli studi e che gli piacerebbe proseguire anche qui in Italia. Contemporaneamente lavorava come falegname.
Mi dice sorridendo che la lingua italiana non è stato un grossissimo ostacolo per lui che mastica bene il francese, anche se qualche parola gli riesce sempre un po’ dura da pronunciare: “la parola “appuntamento”, non me la ricordo mai troppo bene!”. Sottolinea l’importanza dell’imparare la lingua del paese in cui ti trovi: “Adesso sono qui in Italia. La prima protezione che ho cercato in Europa l’ho presa in Italia. La lingua è importante per comunicare, parlare, cercare altri amici”.
Frequenta come la maggior parte degli altri ragazzi il CPIA di F., dove sta provando a conseguire la licenza media. L’italiano, la storia e la geografia sono le sue materie preferite e anche la matematica che mi spiega essere molto utile per il lavoro che intende continuare anche qui, ovvero il falegname.
Mi racconta brevemente del momento in cui è arrivato in Italia, la folla di persone che ha visto quando è sceso dalla barca, in Calabria. “C’erano polizia, civili, medici, giornalisti che si avvicinavano e ci chiedevano se stavamo bene, se avevamo malattie, cicatrici e ci portavano dal dottore a controllarci. Mi ricordo del freddo che faceva, era aprile”.
Quando parliamo di razzismo, come i ragazzi prima e dopo di lui, mi spiega che secondo lui il razzismo esiste dappertutto: anche in Africa. “Quando le persone ti trattano come se non fossi una persona come loro, ecco questo è razzismo”. S. ha le idee chiare su ciò che riguarda il suo futuro: vorrebbe tornare nel suo paese prima o poi, andare a trovare suo padre perché sua madre non c’è più. Mi spiega che non crede che rimarrebbe in Guinea a vivere ma che gli piacerebbe continuare a studiare per poter essere in grado di fare progetti per aiutare i suoi connazionali.

Dopo diverse interviste e dato che avevo detto ai ragazzi che se volevano gli avrei lasciato la lista delle mie domande e avrebbero anche potuto scrivermi qualcosa loro, raccolgo lo scritto di A., un ragazzo ventenne del Gambia, della città di Bansang. A. è davvero un “personaggio”, capace di ridere e scherzare ma anche di farti discorsi profondi e complicati che a volte fatico io stessa a comprendere. Qualche giorno prima mi comunica in un foglio che avrebbe piacere di scrivermi con le sue stesse mani la sua storia, in inglese, dato che il suo italiano ancora zoppica un po’. Quando mi consegna la sua storia, sorrido. Un’ esplosione di parole e simpatia, che sebbene ancora non riesca a far filare in italiano come vorrebbe, con l’aiuto del dizionario italiano-inglese che si porta sempre dietro, si fanno riconoscere. Ha persino inventato una nuova lingua, anzi un nuovo dialetto a detta sua, dove tutte le parole finiscono in “-issimo/issima”. E’ una “spugna linguistica”, assorbe tutto ciò che viene detto intorno a lui. Attraverso le canzoni di Cesare Cremonini di cui si è innamorato, quando meno te lo aspetti ti improvvisa un pezzo unendo parole a caso, ritmo rubato a qualche canzone qua e là e tanta tanta simpatia. Mi scrive che il suo colore preferito è il bianco “semplicemente perché bianco sta per pace ed è il colore più diffuso al mondo e se dovessi avere un secondo colore preferito sarebbe il verde e perché? Perché tutto ciò che noi mangiamo viene dalle piante e le piante sono verdi. Questo significa molto per me e per il resto dell’umanità.

A differenza della maggioranza è di religione cristiana ma questo non ha mai costituito un problema. Sono tutti molto rispettosi di ciascuna religione e convivono come fratelli. Mi scrive che uno dei ricordi più belli che ha del suo paese, su cui fa una lunga digressione, è l’istruzione che ha ricevuto. “La mia scuola superiore in un’isola chiamata Jan Jan Burre in un collegio chiamato Armitage Junior Secondary School. Una delle più vecchie scuole in tutto il Gambia dove la maggior parte degli uomini con cariche importanti hanno studiato. Anche il nostro attuale vice presidente è passato da quella scuola e fa parte delle scuole più famose dell’Africa occidentale e addirittura del mondo dato che è stata costruita dall’esercito coloniale inglese“.
Continua raccontandomi che la vita lì era piena di regole da seguire ma che ti servivano per raggiungere un alto livello di motivazione nella tua vita sia mentalmente che fisicamente. Infatti, dato che le giornate all’interno della scuola erano caratterizzate anche da una buona dose di attività sportiva, tutto ciò lo ha formato molto nello spirito e nel corpo. Era riuscito a raggiungere dei buoni risultati nello sport tanto che aveva anche cariche importanti all’interno delle organizzazioni sportive della scuola. “E’ stata una sfida per me. Io ero il migliore corridore di lunghe distanze nel Kunda – classi in cui era diviso il collegio, mi spiega -, qualcosa come 15 km, 7,5 km, 5000 m cioè 12 volte intorno al campo da calcio. Ero molto bravo in tutto ciò. Il migliore nella scuola. Ho gareggiato per la mia scuola nell’ “interkunda competition”.
Anche in Italia frequenta la scuola, un corso di italiano al CPIA di F. e mi ripete quanto per lui l’educazione sia al primo posto. Studiare è la chiave del successo, “Sto ancora imparando in Italia perché è importante imparare la lingua italiana. Puoi comunicare con gli italiani, se non sai parlare la lingua non c’è maniera di risolvere i tuoi problemi legati alle barriere linguistiche. Quindi devi imparare l’italiano se vuoi rimanere in Italia.

Verso le prime settimane di marzo mi arriva una richiesta da una della coordinatrice di D., per la possibilità, se i ragazzi acconsentono, di raccontare alcune delle loro storie a una classe di ragazzini delle medie di una scuola del territorio, in modo che poi gli stessi producano “libri” in parte disegnati e in parte scritti su quello che hanno ascoltato. Uno dei ragazzi dello SPRAR è favorevole. È un pomeriggio piovoso, quando I. racconta la sua storia, la storia del suo viaggio e di come si è ritrovato in Italia davanti alle facce incredule ma davvero interessate dei ragazzini. Il pomeriggio diventa un “regalo” in tutti i sensi, anche per me. Per la prima volta ascolto da uno dei miei ragazzi la storia del suo viaggio. Non senza amarezza e malinconia infatti I. ripercorre le tappe del percorso che nel 2014 lo ha fatto sbarcare dalla Libia sulle coste della Calabria. Durante il pomeriggio è un susseguirsi di emozioni. Il tutto termina all’incirca un mese dopo con la produzione di veri e propri piccoli capolavori alla cui presentazione egli stesso si emoziona. Qualche giorno dopo lo prego di raccontarmi nuovamente la sua storia, in modo da inserirla nel mio lavoro.
Fra poco compirà 26 anni, mi dice. Io rifletto, proprio come me, eppure alla “nostra” età, lui ha affrontato momenti ed esperienze che ti segnano, che ti fanno desiderare di poter tornare indietro e riscrivere la tua vita fino a quel momento.
Il suo colore preferito è il blu, senza una particolare ragione e proprio come l’altro ragazzo guineano che avevo intervistato proviene dalla capitale della Guinea, la città di Conakry e nonostante la vita li sia difficile, non esita a rivelarmi che il suo paese gli manca molto. Gli mancano l’ospitalità delle persone e il cibo fra le tante cose.
I. è in Italia da ormai un anno e cinque mesi e parla un italiano quasi impeccabile. Tutto merito della sua caparbietà nel voler imparare la lingua, come mi racconterà più tardi, da solo e fin da subito. “Non sapevo l’italiano quando sono arrivato. In Libia, c’era un signore camerunense che diceva sempre “Buongiorno”. È stata la prima parola che ho imparato. In Italia, all’inizio nel campo, quelli della Croce Rossa non ci aiutavano con l’italiano, non mi sono trovato bene. Ho imparato l’italiano da solo a casa mia col mio cellulare. Ho scaricato il dizionario e facevo le traduzioni. Mi sono comprato un quaderno a 80 centesimi. Quelli della Croce Rossa mi hanno dato una penna e piano piano le parole che conoscevo già in francese le traducevo in italiano”.
È molto legato alla città di Potenza, in Basilicata, che per più di un anno è stata la sua nuova casa, con tanto di amici e persone care che lo hanno accolto proprio nel centro di accoglienza e che quando può va a trovare.
E’ partito nel 2013 dal suo paese, la Guinea, e attraversando la Costa D’avorio, dove si è fermato qualche tempo per lavorare, poi il Burkina Faso, il Niger, si è imbarcato in Libia per arrivare infine in Italia.
Torniamo a parlare delle ragioni per le quali ha lasciato il suo paese e mi spiega che in Guinea c’era un partito all’opposizione a cui lui era legato (UFR il nome) e anche se formalmente è una repubblica, non è democratica. Il governo è composto da tanti partiti, formatisi alla morte dell’ultimo presidente ed è stata governata per più di cinquant’anni solo da due presidenti. Nel 2010 c’è stata la prima elezione democratica, non troppo trasparente, sottolinea, ma pur sempre democratica. Ora il presidente è Alpha Condé che ha fatto parte dell’opposizione per più di trent’anni. Nonostante ciò, la corruzione prevale e non è facile cambiare le cose. “Non è facile smettere di essere corrotti, dall’oggi al domani. Lui secondo me ha qualche difetto come tutti gli umani ma ha fatto anche cose buone. Me ne sono andato perché io mi ribellavo a questo. In Guinea non c’è libertà”.
Durante una manifestazione politica a Conakry è stato arrestato e portato via dalla polizia e da lì è iniziata questa lunga fuga che l’ha forzato a emigrare. Suo padre non era d’accordo con la sua decisione di partire, di spostarsi, aveva già un lavoro che lo aspettava una volta finito di studiare. Avrebbe preso le redini della sua azienda di costruzioni. Il padre, mi racconta, ce l’ha ancora con lui per questa sua decisione, lo sente poco anche ora, da quando è partito. “Le mie sorelle invece sì. Ho tre sorelle e io sono il maggiore. Sono molto protettivo nei loro confronti. Mi mancano troppo”.
Nonostante sia arrivato più tardi, mi faccio subito l’idea che I. sia una persona testarda, ma anche molto sensibile, disposta a lottare per quello in cui crede e che soprattutto non si ferma un attimo. Si dava da fare per cambiare le cose nel suo paese e si dà da fare ora in Italia per migliorare la sua vita. Ammirevole, penso.
A F. vivo con gli altri ragazzi dello SPRAR, con i ragazzi Pakistani, ma non sto mai a casa, sono sempre in giro. Ho troppo da fare”. Mi compiaccio del fatto che nonostante la sua situazione e nonostante sia da poco qui a F., la sua mente … e le sue gambe arrivino dappertutto. “Nel mio campo eravamo più di 160 ed ero amico di tutti. Perché io parlo tanto e faccio amicizia con tutti, io li aiutavo se non riuscivano a capire”. I. è l’unico dei ragazzi ad essere laureato. Ha conseguito in Guinea nel 2012 la laurea in marketing e commercio e arrivato in Italia ha sempre desiderato continuare l’università. L’università di Bologna però, non gli ha convalidato il suo titolo, per cui unendosi agli altri ragazzi ha ricominciato ad andare a scuola per conseguire la licenza media.
Continuo chiedendogli se avesse scelto preventivamente l’Italia come paese d’approdo e lui mi racconta: “Mi è sempre piaciuta l’Italia. Ne avevo sentito parlare molte volte. Sono un tifoso della squadra di calcio italiana. Sono cresciuto con l’Italia. Mi piace molto il calcio e l’Italia è molto famosa per il calcio. In confronto con tutti gli altri paesi, l’Italia è stato il solo paese che si è impegnato con i migranti, con le persone venute con la barca. Non come la Francia che fa la differenza fra immigrati politici o economici o l’Inghilterra che non fa entrare nessuno. Senza l’Italia non so dove sarei a quest’ora, forse in un altro posto, vicino a Dio”.
Mi stupisce ancora una volta quanto lui come gli altri ragazzi elogino l’Italia: “Vorrei integrarmi nella società italiana, soprattutto avere una laurea italiana. Vorrei rimanere qui a lavorare, sennò me ne sarei già andato da tanto tempo. In Francia non avrei avuto tutta questa difficoltà. Parlo già francese, per la laurea non avrei avuto bisogno dell’equipollenza, me l’avrebbero riconosciuta. L’Italia ha fatto tanto per me, mi piace, voglio restare in Italia (…) Gli italiani sono accoglienti, almeno lo sono stati con me. Siamo un migliaio di persone qui, tanti, e vengono accolti tutti comunque”.
Data la sua spiccata dose di intraprendenza ha già intessuto una fitta rete di conoscenze qui a F. Conosce persone di diverse associazioni, delle quali fa anche parte come membro attivo e con le quali collabora. Persone che tengono a lui come viceversa. E’ sorprendente continuo a ripetermi, come un essere umano sia capace di tessere relazioni sociali così importanti in così poco tempo.
Concludo chiedendogli se si sente cambiato da quando è arrivato qui in Italia: “Molto, prima ero più rigido di mentalità adesso sono più flessibile. Sono cambiato velocemente. Avevo dei pregiudizi e adesso vedo le cose in modo diverso. Sono cambiato in positivo”.

Qualche settimana dopo, durante un assolato pomeriggio al parco incontro M., e ne approfitto per fargli qualche domanda. Fin dall’inizio aveva rifiutato, penso che magari in un ambiente neutrale si senta anche più a suo agio e provo a farmi raccontare la sua storia. M. ha 28 anni e viene dal Mali, precisamente dalla capitale, Bamako. Mi sottolinea il fatto che una delle cose migliori del suo paese è che secondo lui non c’è razzismo, sono tutti uguali. M. è in Italia da un anno e cinque mesi e prima di entrare nello SPRAR a F., ha vissuto in una struttura di accoglienza ad A. Lassù gli piaceva molto. Lì, ha stretto i primi rapporti con gli italiani e quando può torna a trovarli. Durante i mesi trascorsi insieme imparo a conoscerlo e si apre sempre di più anche con me, lui che all’inizio sembrava tanto ostile, ora mi racconta della sua vita e scherza con me, come una persona che ha comunque tanto da raccontare. Mi racconta che nel suo paese ha fatto tanti lavori e che spera di trovare presto un lavoro anche qui in Italia. Il suo livello di italiano è discreto ma mi confessa che comunque impararlo è stato molto difficile. Aggiunge che desiderava venire in Italia, immaginava l’Italia ancora quando era in Mali, grazie a un telefilm che trasmettevano in TV, ambientato in Italia.

Di sicuro un po’ di soggezione la mette, è un omone alto e muscoloso. Faccio fatica a prendere appuntamento con lui da quanto è impegnato. C. è appena uscito dallo SPRAR, ma già da quando era dentro al progetto si dava da fare per “curare” il suo corpo, per usarlo nel suo lavoro. Finalmente riesco a incontrarlo. Mi dedica un po’ di tempo fra un impegno lavorativo e l’altro. Sono felice di rivederlo. Anche a lezione mi dava tante soddisfazioni. Ha un livello di italiano ammirevole, a detta sua imparato per strada, parlando con le persone e con tanta voglia di fare: “La mentalità, ciò che ti permette di capire le persone è uguale in tutte le lingue. Non è stato difficile. Io sono molto aperto con tutti, chiacchiero con la gente, studiavo da solo, con il dizionario su internet”. Un tipo che la sa davvero lunga. La sua voglia di fare lo ha portato a lavorare nell’ambito della sicurezza, come buttafuori, saltuariamente nelle discoteche prima e in un negozio di abbigliamento ora. C. fa anche il mediatore linguistico per la cooperativa D. e il restante tempo “vive” in palestra. Gli serve soprattutto per staccare dai pensieri tristi, come quelli rivolti alla sua famiglia, mi dice. Fin da quando è dentro il progetto stringe relazioni, accumula contatti e fa di tutto per seguire il suo desiderio, ottenere la licenza ufficiale come buttafuori. Ci ritagliamo una mezz’oretta nel corridoio dell’ufficio stranieri quel mercoledì mattina e mi racconta finalmente la sua storia.
C. ha 24 anni e viene da Kayes, in Mali. E’ in Italia da quasi due anni ormai. Conosce un sacco di persone. Prima di arrivare a F. anche lui stava ad A., in collina. “Lì non c’è niente, lì non potevamo fare nulla, stare sempre dentro la struttura, stavamo stretti”. Ha opinioni differenti rispetto a M., riguardo ad A. e al centro di accoglienza che li ha ospitati all’arrivo in Emilia Romagna dalla Sicilia.
E’ davvero un buon esempio per il resto dei ragazzi: vive già da solo a poche settimane dall’uscita dal progetto e si mantiene con diversi lavori. Conosce tante persone, più persone italiane che straniere qui a F., ci tiene a ribadire, e continua ad andare a scuola, per conseguire la licenza media, anche se lui in Mali stava già finendo la scuola superiore. Gli chiedo di raccontarmi un po’ del suo passato, del perché e come è arrivato in Italia. “Non ho scelto di venire in Italia, sarei voluto andare in America per studiare, se avessi potuto scegliere”, mi dice.
Un giorno, durante le vacanze di natale, al nord del Mali, è arrivato l’esercito dell’Isis. Prendevano la gente per arruolarla come soldati. Siamo stati lì con loro sei mesi, io e il mio amico. Un giorno durante una festa, siamo riusciti a scappare e con un camion siamo arrivati in Libia. In Libia è diventato peggio, laggiù non si vive, non puoi fare nulla. Mi dicevo che sarebbe stato meglio andare in Italia o morire in mare piuttosto che rimanere in Libia. Ci sono rimasto quasi tre mesi, in Libia. Ero dentro una casa, sono stato fortunato, non sono stato in prigione. Circa una sessantina di persone nella stessa camera e c’erano le pulci. Ma come si fa a vivere così? Quando sei malato non puoi andare nemmeno all’ospedale, non c’è libertà, ti puntano la pistola e vogliono tutti i tuoi soldi, quando finisci di lavorare e torni a casa. I soldati alla fine del lavoro ti chiedono tutti i soldi. Io ad un certo punto, sono riuscito a scappare a arrivare in Italia. Siamo partiti alle tre di notte e alle cinque di pomeriggio del giorno dopo abbiamo visto la marina italiana”.
In Italia invece per lui è sempre andato tutto discretamente bene. Mi racconta che si è sempre trovato benissimo con tutti senza avere troppi problemi a cavarsela: “Gli amici che ho e la gente che ho conosciuto qui, loro sono stati sempre bravissimi, non ho mai avuto problemi nemmeno col razzismo. Mi vogliono tutti bene, vogliono lavorare con me”.
Il suo progetto è di rimanere a F. finché ha un lavoro e di spostarsi nel caso non riuscisse a fare più niente in questa zona.
Parliamo dell’Africa, gli mancano la sua cultura e la sua famiglia, anche se è un ragazzo che ha sempre dimostrato di essere molto aperto e sapersi adattare bene al nuovo ambiente. C. è un chiacchierone. Si percepisce immediatamente il fatto che abbia davvero voglia di raccontare, non perde occasione per parlare. Ha un forte sentimento di gratitudine nei confronti degli italiani, che lo hanno salvato e lo hanno accolto. Nonostante non tutti la pensino così, nonostante molti italiani pensino che tutti questi immigrati rubino solo lavoro, case e aiuti sociali, “rifletti un attimino sul fatto che quando ti trovi in mezzo alla guerra, non hai niente e per forza devi emigrare. Come fai a sopravvivere sennò?”, mi sottolinea.
Concludiamo velocemente, perché deve prepararsi per andare in palestra. Gli chiedo se mai abbia pensato di voler essere un’altra persona e mi risponde: “vorrei essere solo me stesso. Sono una persona con la testa dura, quando penso di fare qualcosa poi la faccio. Vorrei diventare famoso con il lavoro nella sicurezza e lo diventerò.” Ha le idee ben chiare, non c’è che dire.

La settimana successiva incontro un altro ragazzo, da poco arrivato: il nostro nuovo acquisto calcistico. O. è un ragazzo del Gambia con la passione per il calcio. Ha 20 anni e sogna di fare il calciatore da grande. “Inschallah, voglio diventare un grande calciatore come Marco Ferrati.” Noi l’abbiamo subito arruolato nella nostra squadra di calcio. Lui faceva già parte di una squadra della città, conosciuta anch’essa tramite altri amici africani che vivono qui da una vita. La tenacia non gli manca. E’ qui in Italia ormai da due anni. Ottimo anche il suo livello di italiano, che confessa aver imparato grazie proprio a questi suoi amici residenti a F. da tanto tempo. O. proviene dalla capitale del Gambia, la città di Banjul. Parla, come tutti gli altri del resto, diverse lingue, fra le quali Pular, Foula e Wollof, e la sua lingua madre è l’inglese. Una vera ricchezza, mi ripeto io, da quando li conosco. Vive insieme agli latri ragazzi dello SPRAR e frequenta la scuola per prendere la licenza media, anche se in Gambia aveva già frequentato 12 anni di scuola. Ha iniziato da qualche settimana anche un corso di formazione per imparare a fare il magazziniere. Gli piace la scuola, “penso sia la chiave del successo”, mi spiega. Parliamo un po’ del suo passato. Mi racconta: “Io volevo venire qui, l’Italia è un paese in pace, questo era il nostro sogno, il sogno di tutti quelli che partono”, continua: “all’arrivo in Italia mi sono sentito bene, grandiosamente, dato che non ero morto in mare. Dopo due giorni in mare mi sono svegliato all’ospedale, incosciente. Non c’era acqua né cibo nel mio corpo, ero disidratato, stavo male”. Anche vivere qui, mi racconta, non se lo sarebbe mai potuto immaginare, è come un sogno che si avvera. Non è sempre facile però, a volte ci si ritrova ad avere a che fare anche con persone che non accettano il diverso, e che hanno pregiudizi nei suoi confronti. La prima cosa che nota quando conosce una persona è il modo in cui questa lo tratta. Osserva, O., osserva e calibra le parole. Allo stesso modo, in questi mesi, attraverso le occasioni di ritrovo e svago, nelle partite, alla cena dei piatti organizzata da un’associazione locale, di cui anche lui come altri ragazzi fanno parte, ho modo di conoscere anche la sua parte più allegra e spensierata. Ha la musica nel sangue, ha sempre le cuffiette alle orecchie, come tutti del resto e non esita ad improvvisare passi di r’n’b ovunque ce ne sia la possibilità.
Mi confessa che oltre a mancargli tanto la sua famiglia, gli manca particolarmente il “Benachin” e il “Cheb-ou-jen”, due piatti a base di riso che era solita cucinargli la sua mamma. Qui, con la pasta e la pizza si dà da fare ma il cibo africano è tutta un’altra cosa.
Prima di lasciarci, chiedo anche a lui se si sente cambiato da quando è arrivato in Italia, e ridendoci su mi dice che si è “scolorito”, la sua pelle, stando qui si è schiarita molto. “Qui non avete lo stesso solo che c’è in Africa. Ci sono solo tre mesi di pioggia e il resto è sole. I miei fratelli in Africa per esempio sono più scuri di me. Io sono speciale, questo è un regalo di Dio”.

Alcuni giorni dopo negli uffici della cooperativa incrocio un ex ragazzo del progetto SPRAR, N. che ora lavora come mediatore per D. Gli spiego del mio progetto di raccolta storie e gli chiedo se vuole partecipare. Acconsente e qualche giorno dopo mi racconta la sua esperienza. N. ha 35 anni e viene dalla provincia di Ballaam, del distretto Dushir, città di Pullumbrin in Afghanistan.
Non conosco N. come i miei ragazzi del corso ma quello che mi stupisce è il fatto che mi racconti la sua storia in modo così dettagliato, nonostante risultiamo essere quasi due perfetti sconosciuti. Non ha bei ricordi del suo paese. E’ cresciuto in guerra. Si trova in Italia da due anni e mezzo e vive a F. Si è molto legato alla città di F. e alle persone che ha trovato qui e che si sono comportate bene con lui e lo hanno accolto sempre. Tuttavia, prima di trovare questa “pace”, ne ha vissute tante di avventure.
La maggior parte dell’intervista verte sulla sua storia passata, sul perché ha dovuto lasciare il suo paese, che cosa faceva prima di partire e come è arrivato qui in Italia.
Ero un poliziotto nel mio paese, una persona conosciuta. Mio padre era un governatore. Mio fratello era il comandante di tutta la regione. Io ero il comandante della mia caserma. Mi conoscevano tutti. Non sono venuto qui per fare soldi, da poco ho iniziato a lavorare qui in Italia, e mia madre mi ha sempre mandato i soldi quando ne avevo bisogno. Noi stavamo bene, avevamo tutto, avevamo macchine costose, una bellissima casa e tutto quello che serviva. Ora è tutto distrutto. La nostra unica colpa era che mio fratello lavorava per il governo. Dopo che ho perso mio padre e mio fratello, mi cercavano e sono andato via. E’ stata mia madre a suggerirmi di partire per un altro paese, per continuare a vivere. Quella sera, sono entrati a casa nostra, ci hanno legato e hanno ucciso mio fratello davanti ai nostri occhi. Sento ancora quelle voci, la mamma che piangeva insieme ai bambini e mio padre che è morto perché non è riuscito a sopportare il dolore, aveva già una malattia al cuore. Nessun padre può vedere il figlio morire davanti ai suoi occhi”.
Ascolto la sua storia, provando a immaginare ciò che mi racconta e non posso fare a meno di provare grande tristezza e dolore per tutto quello che ha dovuto passare.
Gli chiedo di parlarmi del viaggio per raggiungere l’Italia perché diversamente dai ragazzi africani, la maggior parte delle persone che migrano dalle sue zone, affrontano quasi tutto il viaggio a piedi o trasportati su mezzi via terra. Difficilmente vedono il mare come gli africani.

Ho messo piede per la prima volta in Italia camminando verso Trieste. Sono partito dall’Afghanistan e arrivato in Iran a piedi. I trafficanti lì ci hanno messo dentro una macchina, eravamo 18 e siamo arrivati a Teheran. Ci hanno portato al confine con la Turchia (Tambresh-Chambres), era inverno, dicembre. Fuori c’era molta neve. Siamo partiti alla sera, verso le sette-sette e mezza e abbiamo camminato per molte ore, eravamo più di cento ragazzi. I trafficanti erano Curdi e stavano uno davanti, uno in mezzo e uno dietro a noi, per controllarci. Durante quel viaggio sono morti due ragazzi pakistani dal freddo. La mattina dopo siamo arrivati in Turchia. Siamo passati da Istanbul per il mare, abbiamo attraversato il mare di nuovo verso la Grecia. Abbiamo percorso la Grecia a piedi e i poliziotti ci hanno messo in un campo di accoglienza. Siamo rimasti lì una sera. Poi ci hanno dato un permesso di soggiorno per un mese, per andare ad Atene. Sono rimasto in Grecia tre o quattro mesi, dove ho conosciuto altri ragazzi del mio paese e siamo partiti di nuovo a piedi. Abbiamo attraversato il confine verso l’Albania. Arrivati li, abbiamo preso un autobus per Tirana, poi con un taxi siamo andati al confine col Montenegro e proseguito verso il confine con la Croazia, tutto a piedi. Siamo rimasti tre o quattro giorni nel bosco. A volte finivamo anche le scorte alimentari e l’acqua. Un giorno, mentre camminavamo, non avendo mangiato ne bevuto siamo svenuti tutti. Ci siamo risvegliati dentro l’Ospedale (eravamo in Croazia). In ospedale a Zagabria ci hanno curato, siamo stati qualche tempo in un centro di accoglienza e da lì poi siamo partiti a piedi verso la Slovenia. Aveva piovuto ininterrottamente per sei giorni, ma noi eravamo contenti perché finalmente avevamo tanta acqua a disposizione. Alla fine dopo un viaggio di due mesi e qualcosa dalla Grecia siamo arrivati in Italia, a Trieste”.
La lunga odissea di N. continua, e mi racconta che anche in Italia, prima di approdare a Forlì si è spostato parecchio: “Da Trieste poi, un gruppo di noi, è finito a Caltanissetta, in Sicilia. Alla stazione avevo incontrato diversi ragazzi del mio paese che mi avevano consigliato di andare in Sicilia. Ho preso il biglietto per Roma e poi sono arrivato in Sicilia. Li sarebbe stata più facile la vita, mi dicevano. A Caltanissetta sono stato due mesi fuori dal centro di accoglienza, dormivo sotto un ponte, vicino a uno stadio di calcio con tanti altri ragazzi che aspettavano di entrare al centro perché non avevano posto. Durante il periodo a Caltanissetta ho potuto fare i miei documenti, sono stato ascoltato dalla commissione territoriale e ho ottenuto lo status di rifugiato politico. Sono riuscito poi ad entrare nello SPRAR di F.”.
Non è facile ripercorrere anche solo mentalmente questo lungo viaggio che lo ha portato qui a F. I ricordi, soprattutto quelli tristi, che prevalgono nella sua storia, fanno ancora male, sono ancora vividi nei suoi occhi e si sentono dal tono della sua voce, dal modo in cui me li racconta.

Da quando ha preso parte al progetto SPRAR le cose sono migliorate, ha avuto una casa, in cui conviveva con altri ragazzi del progetto e ha avuto la possibilità di imparare tanto anche a scuola, sulla cultura e la lingua italiana. “Quando sono arrivato mi sembrava una lingua molto difficile, l’italiano, poi man mano sono riuscito nel mio intento. Ho iniziato con un corso al centro di accoglienza a Caltanissetta. Li, dopo un po’ i ragazzi non venivano più, andavo solo io e la maestra mi insegnava come una mamma insegna le cose ai suoi figli. Ci sentiamo ancora. Non è stato troppo difficile poi per me, avevo tanta voglia di imparare. Quando sono arrivato a F. e sono entrato nello SPRAR ho iniziato a frequentare i corsi al CTP”.
Ora N. la lingua italiana la conosce bene, tanto che la sfrutta per lavorare come mediatore. I suoi sforzi e la sua tenacia hanno prodotto ottimi frutti.
Volgiamo alla fine dell’intervista e nonostante i terribili ricordi che sono riaffiorati non mancano pensieri positivi per il suo presente e il suo futuro.
Chiedo anche a lui se si sente cambiato: “Sono sempre uguale, anche prima avevo questi pensieri. Ho bene in mente gli insegnamenti dei miei genitori, soprattutto quelli di mio padre. Lui aveva una mente molto aperta, faceva del bene agli altri e insegnava anche a me a fare cose che facevano bene agli altri. Quando riesci ad accettare le cose brutte che ti capitano starai meglio. Ho fiducia nel mio futuro”.
A me non rimane che riflettere, riflettere su di loro, su di me e ricordarmi di quanto sia stata fortunata ad aver conosciuto persone come tutti loro con tanta voglia di farcela.

Concludo infine questo mio lavoro con un’intervista che mi chiedono di realizzare per la sede centrale dello SPRAR, ma che in fin dei conti è sfruttabile anche per il nostro project work, dato che contiene più o meno le stesse domande. Il ragazzo in questione è K.. Un ragazzone maliano da poco uscito dal progetto SPRAR. K. rappresenta un altro ottimo esempio per tutti gli altri ragazzi e anche per tutti noi operatori. Insieme ad un suo amico italiano è riuscito ad aprire una pizzeria da asporto qui a F. che hanno inaugurato proprio qualche settimana fa. Ma andiamo con calma. Riesco ad ottenere un po’ del suo prezioso tempo una mattina di aprile.

K. ha 28 anni e proviene da Kidal, una città del Mali. In Mali viveva con la sua famiglia, prima di spostarsi in Libia per lavoro. Ha abbandonato la scuola a circa sette anni perché doveva andare a lavorare e inoltre aveva difficoltà a concentrarsi. In più la scuola costava cara per la sua famiglia. Ha cominciato a cercare lavoro dopo aver fatto un corso per imparare a fare il pane. Successivamente ha iniziato a lavorare come fornaio ed è diventato molto bravo. Il suo capo dopo qualche anno decide di premiarlo e insieme a lui e con l’aiuto di suo padre riescono ad aprire un forno. Un amico di famiglia, mi racconta, gli regala persino una tonnellata di farina e cominciano così la loro avventura. Ha sempre lavorato nella panificazione e anche oggi è il suo più grande desiderio: “E’ il mio destino lavorare con la farina”, mi dice scherzando. Si era spostato in Libia proprio perché aveva sentito dire che c’era molto lavoro in quel settore. Riesce quasi subito a trovare lavoro come panettiere ma durante il periodo di Gheddafi, le cose non sono più così tanto facili e lui pensa di tornare in Mali. Il suo capo lo convince a rimanere in Libia. La guerra è molto dura. Gheddafi imponeva ai migranti di lasciare il suo stato. Anche la vita di K. in Libia non è più sicura. K. mi descrive, proprio come aveva fatto C. prima di lui, la situazione di estrema difficoltà nel paese: tutto è controllato dai militari e non c’è più libertà. Al contrario, ricorda con piacere la sua vita in Mali quando era bambino, prima di partire per la Libia “non mi rendevo conto delle cose intorno a me, stavo bene con la mia famiglia e questo mi bastava. Non ti rendi conto del bene o del male che è intorno a te quando sei così piccolo. Quando ho deciso di partire per la Libia mio padre non era d’accordo, voleva che mi spostassi solo verso la capitale, Bamako”. Ma lui e la sua testa dura non accettano questo compromesso. Anche se il padre gli aveva lasciato i soldi giusti per arrivare nella capitale, lui con i suoi risparmi ha viaggiato in Algeria, Tunisia, Guinea e infine è arrivato fino in Libia, nel 2014.
Un giorno i militari libici attaccano il forno in cui lavora K. I militari sono soliti attaccare i posti di lavoro per derubarli. “Una notte sono arrivati, mentre stavamo lavorando, hanno preso il capo e due ragazzi tunisini”. K. e altri compagni riescono a scappare ma dopo qualche ora i soldati li trovano e li portano nel deserto: “nel deserto ci hanno maltrattato, ci hanno derubato e hanno abusato di noi. Ci hanno lasciato lì senza niente”. Fortunatamente K. e i suoi amici riescono a scappare dal deserto. Un vecchio amico lo ospita a casa sua per permettergli di riprendersi. Sarà proprio l’amico a suggerirgli di spostarsi verso l’Italia. L’unico problema sono i soldi. Come avrebbe fatto a pagarsi il viaggio e a sopravvivere non avendo più nessun risparmio? Dopo essere rimasto qualche giorno dal suo amico, l’uomo lo costringe ad andarsene dicendogli che non piace alla sua famiglia. Gli suggerisce quindi di dirigersi al porto per prendere il barcone che lo porterà in Italia. L’amico organizza tutto il viaggio e K. non sa nemmeno se e quanto ha pagato per lui. Lo riempie di provviste per il lungo viaggio e lo porta verso il mare. K. ricorda il viaggio, erano più di 400 persone dentro la barca: “non avevamo l’acqua da bere, per lavarci i denti, non si poteva andare in bagno, stavamo tutti stretti insieme e verso sera, dopo qualche giorno, abbiamo visto una nave italiana, quella della marina che ci ha salvato e ci ha portato a Lampedusa.
Una storia comune, ciò che avviene successivamente, comune a tanti ragazzi africani come K.
Da Lampedusa viene portato all’Hub di Bologna e da lì verso le colline romagnole, al centro di accoglienza. Resterà per circa un anno a S. S. prima e G. poi, due paesini nella collina intorno a F.
Durante il periodo a G. fa richiesta per la protezione internazionale e ottiene dalla commissione territoriale di Bologna la protezione umanitaria. Fa la domanda per entrare nello SPRAR ed entra nel progetto di F. Durante i mesi dello SPRAR K. va a scuola, al CPIA territoriale e frequenta un corso di panificazione, segue la sua grande passione e attende ora l’inizio del relativo tirocinio.

Nel frattempo, a pochi mesi dalla sua uscita succede una cosa inaspettata, insieme ad un amico conosciuto a P. riesce ad aprire una pizzeria da asporto. Il suo amico ha una lunga esperienza da pizzaiolo, ci mette l’esperienza e i soldi e anche una buona dose di fiducia. K. è contento, finalmente ha di nuovo le mani “in pasta”. Parliamo un po’ del suo futuro. Non sa ancora cosa ne sarà di lui. Al momento ha tanti amici che lo aiutano quando ha bisogno. Gli danno una mano a pagare la stanza dove vive se alla fine del mese non ce la fa con i soldi. I ragazzi dello SPRAR sono rimasti comunque nel suo cuore, sono diventati fratelli e quando possono si vedono e trascorrono del tempo tutti insieme. K. è un tipo che “si butta”, è una persona aperta ed è convinto che questo suo modo di fare l’abbia aiutato tanto anche a farsi tutte le conoscenze e le amicizie che ha oggi. Gli chiedo cosa desidera per il suo avvenire, se ha qualche sogno o desiderio in particolare: “creare una famiglia, lavorare forse qui a F., o forse no, ma mi piacerebbe vedere anche altri posti”.
Il cammino è ancora lungo ma ci tiene a ringraziare e a fare in modo che nomini nell’intervista tutti i suoi più cari amici, coloro che hanno contribuito alla sua indipendenza e integrazione sul territorio italiano.