Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Sul “Dossier Caritas 2016: Africa occidentale – Divieto di accesso”

Photo credit: Benedetta Crimella

Africa. Africa… Terra di tutti e terra di nessuno insieme. Africa violentata, Africa derubata. Africa dei colori, Africa della natura incontaminata. Africa. Teatro di grandi ingiustizie, campo di battaglia, gemma di rara bellezza. Africa. Oggi, in quest’era di tumulti sociali e politici, l’Africa si trova nel mirino di un’accesa questione che ha interessato tutta la comunità internazionale, l’Europa in primis: uno smisurato e incontrollabile fenomeno migratorio. Giova sicuramente precisare, tuttavia, che nel 2015 lo stock di migranti più numeroso è stato registrato in Asia e che l’Africa non sembra essere il continente più mobile: gli spostamenti non sono peraltro sempre dovuti a guerre o povertà, né si può omettere, in barba ai più, la sua funzione di terra di destinazione.

Un dato sorprendentemente elevato ci offre poi la fotografia di una realtà troppo poco spesso palesata: il 52% dei migranti africani, circa 18 milioni di persone, non salpa mai verso una nuova terra promessa, anzi, la ricerca entro i confini continentali. Il Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite (UNDESA) fornisce un’interessante chiave di lettura; l’Europa risulterebbe, numeri alla mano, solo la seconda meta prescelta dai migranti africani, seguita dall’Asia, Nord America e, fanalino di coda, Oceania.
schermata_del_2016-12-29_12_12_43.png

La Caritas italiana compie, con il dossier “Africa occidentale – Divieto di accesso. Flussi migratori e diritti negati (.pdf)“, un lavoro di esegesi argomentando alcuni tra i grandi topics (e dogmi) nati attorno al problema delle migrazioni, riempiendo di significato l’esigenza di affermare il diritto alla libertà di movimento e al contempo promuovendo lo sviluppo umano. Esigenza culturale, certo, che mira a riconoscere la diversità come punto di forza e non anello debole; pastorale, invero, giacché le parole di Papa Francesco ci ricordano che la comunità cristiana abbraccia “ogni nazione, razza, popolo e lingua“; politica e in quanto tale richiede una illuminata lungimiranza e una imprescindibile cooperazione internazionale che si basi sul riconoscimento e sulla tutela dei diritti umani fondamentali.

L’Unione Africana (UA), con l’African Common Position on Migration and Development e il Migration Policy Framework for Africa, adottati entrambi del 2006, si è dotata di strumenti normativi atti alla regolamentazione della migrazione volontaria e forzata nel continente. Insieme all’invito rivolto agli stati membri dell’UA di formulare politiche migratorie nazionali, il Framework mette in luce la natura strategica delle migrazioni interne, avvertite come un mezzo per far fronte alla recessione economica ed ecologica.

Questa tendenza a muoversi entro gli stessi confini africani è più evidente in Africa occidentale (Mali, Burkina Faso, Senegal, Costa d’Avorio), in Eritrea; tutto l’opposto accade in zone quali l’Africa del Nord, l’Africa del Sud e l’Africa centrale, caratterizzate da grandi movimenti extra continentali.
Molto gettonati dai migranti “interni” sono anche gli Stati produttori di petrolio, come il Gabon e la Libia, prima che da punto di arrivo si trasformasse in un punto di snodo verso l’Europa.

Apprendiamo con grande sorpresa che il fenomeno migratorio in Africa è una questione molto più interna che internazionale, sebbene quest’ultima sfaccettatura stia assumendo sempre più rilievo, tanto da poter affermare che dal 1980 ad oggi il numero di africani che sceglie di partire verso altri lidi si sia triplicato. Il corridoio migratorio Africa –> Asia è in costante crescita. Purtroppo, la natura economica degli spostamenti non è la sola ad aver preso piede. L’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) ha denunciato la presenza crescente di vittime di tratta, anche di tipo sessuale, provenienti dai Paesi africani (tratta delle donne nigeriane).

L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) rileva un aumento della migrazione anche dall’Africa dell’Est (Gibuti, Etiopia, Eritrea, Somalia e Sudan) verso lo Yemen. Il conflitto in atto e la debolezza del Governo yemenita sembrano favorire l’ingresso di migranti economici, in cerca di una via per arrivare in Arabia Saudita.

Stati Uniti e Canada hanno invece favorito la migrazione di persone professionalmente qualificate, consentendo un aumento della migrazione africana dal 5%, dato registrato nel 2000, al 7% nel 2015. Da non sottovalutare è l’indubbia presenza di politiche di accoglienza più favorevoli rispetto a quelle europee e, last but not least, la Green Card Lottery, che se da un lato consente di beneficiare del sistema migratorio, dall’altro spiana la strada all’ennesima piaga del continente africano: la Brain Drain, altrimenti detta “fuga dei cervelli”.

Mentre la migrazione negli Stati Uniti è per la maggior parte di provenienza dalla Somalia e dai Paesi anglofoni dell’Africa sub-sahariana (Camerun, Kenya, Zimbabwe, Tanzania), quella verso il Canada vede un’alta percentuale di nordafricani, Egitto e Marocco in testa. I nuovi arrivati sono per lo più persone il cui status di rifugiato è già stato riconosciuto da altri Stati, e che hanno quindi regolare accesso alla zona, o da richiedenti asilo reinsediati. Geograficamente lontana, ma simile per tipo di migrazione, anche l’Oceania, principalmente l’Australia e la Nuova Zelanda.

Nonostante le cifre sempre più da capogiro, la meta prediletta resta tuttavia il vecchio continente: la rotta Africa – Europa è quella per cui si registra l’incremento annuo maggiore. Già nel 2015, gli Stati membri hanno contato più di 1.800.000 migranti “irregolari” che solo successivamente hanno regolarizzato la loro situazione. Nel 2015 l’Italia risulta essere all’undicesimo posto nella graduatoria dei Paesi che ospitano più migranti (6 milioni nel 2015). Insieme alla Spagna è il Paese in Europa che ha visto il maggior incremento di numero di migranti negli ultimi quindici anni.

Il grande dilemma rimane sempre quello di distinguere, tra i richiedenti asilo, i migranti economici da quelli che fuggono da situazioni di pericolo. È in questo tipo di flusso che l’Africa sub-sahariana gioca un ruolo preponderante: tra gennaio e marzo 2016 più del 50% degli arrivati via mare, la via maggiormente attraversata per l’arrivo in Italia, provengono dai Paesi dell’Africa sub-sahariana.

schermata_del_2016-12-29_12_27_10.jpg

Tra i diversi fattori, quello economico, insieme con il ricongiungimento famigliare, restano i principali motivi della migrazione in Africa occidentale. Essa consta di 15 Stati tutti facenti parte dell’ECOWAS ed è la seconda regione più popolosa dell’Africa, dopo la regione orientale. Gode di un clima decisamente arido, quasi desertico nella parte più meridionale. Dal punto di vista economico, paesi quali Nigeria, Niger, Ghana e Costa d’Avorio si affermano nel settore primario ed estrattivo. La Sierra Leone ha subito un decadimento a seguito dell’epidemia di ebola che ha dilaniato il Paese negli anni 2014-15.

L’Africa Occidentale si piazza al secondo posto in termini di crescita economica, con tassi superiori alla media africana e dei Paesi OCSE, tuttavia tale crescita si fonda su economie instabili; il settore terziario subisce un’espansione disomogenea e determinata soprattutto dall’ingerenza di imprese straniere che effettuano un vero e proprio accaparramento delle risorse.

La disuguaglianza nella ripartizione dei benefici è particolarmente forte in Africa occidentale. Diverse le cause: cattiva redistribuzione delle ricchezze, crescita demografica, bassi tassi di educazione secondaria, instabilità interna, apertura dei mercati. Si assiste così non solo alla deprivazione sistematica dei diritti di alcuni gruppi sociali vulnerabili, ma anche a bassi livelli di sviluppo economico e soprattutto umano. In Nigeria, ad esempio, nonostante un reddito pro-capite medio che ammonta ai 5.991 USD annui, il 62% della popolazione vive oggi con meno di 1,25 USD al giorno.

Il fenomeno migratorio è particolarmente sviluppato sul fronte interno: circa l’84% degli spostamenti è interno alla regione con Ghana e Costa d’Avorio come Paesi di destinazione. Sostanzialmente la migrazione interna avviene entro quei Paesi in cui la richiesta di lavoro è alta, mentre è alta l’affluenza di studenti e lavoratori qualificati verso i Paesi OCSE.

Nonostante la facoltà dei cittadini ECOWAS di spostarsi liberamente tra i Paesi membri e risiedere in essi per un massimo di 90 giorni, vi sono non pochi problemi di adattamento con la normativa interna. Nel 2015 Mali e Nigeria hanno adottato una politica nazionale sulle migrazioni dopo l’approvazione dell’Approccio comune sul processo migratorio del 2008.

In generale sul fronte migrazioni si registra un vuoto normativo e ciò è fonte di discriminazione e mancata integrazione nel Paese di arrivo; questa situazione dà il destro all’irregolarità, alla corruzione e, quel che è peggio, alla tratta di esseri umani. La migrazione “irregolare” è un fenomeno in crescita e si manifesta nell’ingresso in Paesi terzi senza autorizzazione o con una autorizzazione temporanea, il cui termine viene ignorato; con documenti falsi o abusando del sistema d’asilo. Sembra che le troppe restrizioni legate alle politiche migratorie stiano facilitando le migrazioni “irregolari“, dando vita a nuovi tipi di canali.

La Libia, negli anni’90, era la prima destinazione dei migranti interni dell’Africa occidentale grazie alla presenza di giacimenti petroliferi e alla presenza di Gheddafi. Oggi si è tramutata in un punto di partenza con un incremento della migrazione qualificata verso USA, UK e Paesi del Golfo, mentre quella meno qualificata si dirige verso Italia e Spagna. L’Europa ha intensificato i controlli sui confini e sta al contempo stringendo accordi con i Paesi d’origine per cercare di regolare gli spostamenti e tentare di limitare le violazioni dei diritti umani. Ad esempio, in Libia i migranti sono sottoposti a soprusi per il pagamento della somma per la traversata.

L’Africa è poi molto sensibile ai cambiamenti climatici; questo, assieme a quanto detto fino ad ora, produce degli effetti nefasti sulla vita e sulle attività umane. La penuria di terre coltivabili e delle risorse idriche si traducono in una riduzione delle risorse agricole e di allevamento. La punta dell’iceberg è rappresentata dall’abbassamento dei livelli di sicurezza alimentare, per non parlare poi delle malattie legate all’innalzamento delle temperature e più migrazione. E proprio la migrazione è molto influenzata dai cambiamenti climatici e i casi, soprattutto in Africa occidentale sono in aumento. Purtuttavia non esiste ancora una politica per la protezione e gestione delle migrazioni ambientali.

schermata_del_2016-12-29_12_39_08.jpg

Potrebbe sembrare la causa di più banale individuazione, ma come abbiamo potuto appurare è in coda alla lista: il conflitto. Un conflitto, di qualsiasi natura esso sia, dal conflitto armato a persecuzione diffusa, è ascrivibile alle cause della migrazione forzata. La Nigeria detiene il primato di sfollati interni dovuti a conflitti violenti; presenta non solo una grande diversità etnica, ma anche dal punto di vista religioso il Paese è spaccato in due. Il 1999 ha visto il ristabilirsi della democrazia, assieme alle migliaia di persone che sono rimase vittime di violenti scontri in varie parti della Nigeria. Una piaga del Paese la identifichiamo in Boko Haram, che mina la sicurezza della popolazione che risiede per lo più nel Nord-est, Camerun e Ciad; i continui attacchi di questa violenta organizzazione ha creato almeno 127mila sfollati interni.

Tuttavia, la migrazione in Niger non è solo un fenomeno interno dal momento che è proprio in Niger che si registra il più alto tasso di domande d’asilo in Europa, con quasi 32mila richieste nel 2015. Circa 8.385 di queste domande hanno dato esito negativo, probabilmente perché i richiedenti protezione internazionale sono stati tacciati di essere migranti economici e, pertanto, non aventi diritti di protezione internazionale.

Che dire poi del Mali, teatro di un conflitto iniziato nel 2012 e che ha visto la sua fine nel 2015, non senza però difficoltà. Il governo ha firmato un accordo con la coalizione di gruppi armati, ma il processo di pace è lento e ostico, causa le divergenze tra le parti firmatarie. Lentamente, seppur con costanza, il Mali assiste al ritorno dell’amministrazione e delle forze dell’ordine in alcune località, soprattutto nelle regioni del nord. Dove le forze dell’ordine non si sono ancora reinsediate, cresce la violenza dovuta alla minaccia jihadista e a nuovi gruppi armati estranei al processo di pace. Questi scontri purtroppo ostacolano il ritorno dei 138mila rifugiati maliani presenti nei confinanti Burkina Faso, Mauritania e Niger e dei 61mila sfollati interni, costretti a barcamenarsi in situazioni disumane, con conseguenti problemi di tipo sanitario. I siti di ritorno sono isolati e l’accesso ai mercati è ostacolato dall’insicurezza e dal banditismo. Nel 2015, i rifugiati maliani che hanno chiesto asilo in Europa ammontano a 8mila.

schermata_del_2016-12-29_12_32_14.jpg

Un ulteriore caso limite è rappresentato dal Gambia, Paese più piccolo dell’Africa, in cui la situazione politica è disastrosa: è governato da 22 anni dal presidente Yahya Jammeh e dal suo partito. E’ assente la libertà di stampa, le elezioni non sono state ritenute né libere né eque. Libertà civili e diritti politici rasentano quasi i minimi storici. Nel 2014 è stato messo in atto un golpe, purtroppo fallimentare, che ha invece dato adito a vere e proprie persecuzioni perpetrate ai danni degli oppositori diretti e delle loro famiglie. Sono stati registrati atti di sparizioni forzate, arresti arbitrari… La lista è cruda e interminabile. Nel 2013, il Gambia contava almeno 71mila emigrati, i cui Paesi di destinazione erano Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Nigeria. Le richieste d’asilo giunte in Europa nello stesso periodo hanno fatto del Gambia il quarto Paese africano per richieste. Non è da sottovalutare un altro dato, ovvero che una buona fetta di migranti gambiani è di tipo economico, nonostante i frequenti conflitti interni.

Quando si parla di migrazioni, non si può trascendere da fattori quali la famiglia, la religione, la storia e le tradizioni delle miriadi di comunità che popolano l’Africa.
La famiglia svolge un ruolo primario: quando nel Paese di origine c’è un forte legame con la famiglia, pochi fratelli, non vi sono anziani contrari alla migrazione e un capo famiglia con un livello primario di educazione, è più facile che si manifesti la migrazione, in particolar modo, regolare (senza escludere del tutto quella irregolare, sebbene quest’ultima sembri derivare da situazioni di partenza più vulnerabili).

Non è strano che anche la religione sia un fattore da considerare nell’analisi del fenomeno migratorio: l’appartenenza ad un determinato credo è stata spesso determinante nella decisione di partire verso l’Europa, o per spingere la persona nella trappola della tratta umana. Nella volontà divina risiede la chiave del successo o dell’insuccesso del progetto migratorio di una persona; i capi religiosi, poi, sono dei veri e proprio consiglieri. I migranti confidano nella loro protezione spirituale e, nei viaggi più pericolosi, la fede in queste figure e nel divino diventa ancora di salvezza, se non altro psicologica, per gli uomini e per le donne che affrontano le proprie colonne d’Ercole.

I media, i social media (ma più in generale ogni mezzo d’informazione) aiutano e al contempo illudono i viaggianti della speranza, prospettando ora una nuova Canaan ora, sebbene più raramente, la realtà dei fatti. A favore dei mezzi di comunicazione si deve ammettere che questi facilitano le comunicazioni dei migranti con le rispettive famiglie rimaste nei Paesi d’origine, riducendo il gap emotivo di chi parte e di chi, ob torto collo forse, è rimasto.

In alcuni Paesi, la figura del migrante è diventata sinonimo di uomo di successo e ciò è dovuto anche al fatto che, tra la miriade di persone che vive alla giornata, c’è anche chi ce l’ha fatta. C’è chi ha trovato l’America grazie all’aiuto di migranti già presenti sul territorio del Paese di arrivo o per altre vie ed è ritornato a casa recando doni e con una posizione di rilievo.
Ma come, con quali mezzi, il migrante è messo nella condizione di poter partire?

Abbiamo spesso citato due modalità: la prima attraverso canali regolari, mentre la seconda, per via irregolare.
La politica migratoria in Italia è figlia dell’ultimo decennio del secolo scorso e si sviluppa principalmente attorno a tre assi principali: l’integrazione degli immigrati in situazione regolare, la protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati, la gestione delle frontiere con il fine di lottare contro l’immigrazione irregolare. Nel 2002, al Consiglio Europeo di Siviglia si inizia a parlare di sicurezza legata all’immigrazione, focalizzandosi sul rimpatrio degli immigrati irregolari. Studi hanno dimostrato che il ritorno è una parte del processo migratorio, sebbene fin troppo spesso questo sia ostacolato dalla difficoltà di giungere ad un tale livello di sicurezza economica da consentire un glorioso ritorno o direttamente la partenza.
schermata_del_2016-12-29_12_45_50.jpg
Giungere nel Paese di destinazione per vie regolari, non è tuttavia sinonimo di ingresso sicuro: anche per coloro che arrivano con un visto tramite aereo, esiste il rischio di vedersi rifiutato l’ingresso nel paese. Questo fenomeno spiana la strada alla migrazione “irregolare“, che pur essendo spesso la seconda scelta, si trasforma alle volte nell’unica strada possibile. E’ qui che entrano in gioco i trafficanti: la Libia è uno dei principali punti di snodo e da lì, insieme ad un giro di migliaia di dollari guadagnati sulla disperazione della gente, ci sono le organizzazioni criminali. Come Caronte traghettano queste anime sulle coste europee. La popolazione semi-nomade dei Tuareg è al centro del traffico di migranti e lo sfrutta come fonte di arricchimento.

Ad Agadez in Niger, essi collaborano con le organizzazioni criminali ed è lì che vi sono almeno 18 casi di transito per migranti che ospitano circa 500 migranti per volta. I controlli sono anche meno rigidi data la situazione politica interna e regionale. I migranti trafficati sempre più spesso diventano vittime di tratta di esseri umani e finire per essere sfruttati sessualmente o sottoposti ai lavori forzati. Il lavoro forzato è alle volte utilizzato per ripagare il debito che i migranti hanno nei confronti dei trafficanti, con il rischio che il trafficante costringa il malcapitato a lavorare anche una volta estinto il debito. La tratta a scopo sessuale consiste nella prostituzione di adulti o minori contro la loro volontà, attraverso l’uso della forza o di altri mezzi coercitivi ed è una delle principali forme di sfruttamento. Alcune donne possono diventare vittime nel corso della migrazione: i trafficanti possono costringerle ad avere rapporti sessuali con ufficiali di polizia come forma di pagamento in cambio di un passaggio facilitato.

Allo stesso modo, i trafficanti possono approfittare della disperazione delle donne migranti che terminano i fondi durante il viaggio, offrendo assistenza in cambio di favori sessuali. Ed è proprio la connivenza delle autorità statali che aiuta le organizzazioni criminali in determinati momenti del viaggio, come l’attraversamento del deserto, a rendere ancora più drammatica tutta questa trafila.

Che dire, dunque, del “problema” delle migrazioni? Si potrebbe iniziare col dire che non è un problema. O meglio, non è la migrazione in senso stretto a rappresentare un cruccio della benpensante società civile, dal momento che abbiamo appurato che questa reca anche molti benefici. Spiegano i rappresentanti del REMIDEV, la Rete Migrazione e Sviluppo presente in diversi Paesi dell’Africa occidentale che “la diaspora invia enormi somme di denaro, contribuendo ad alleviare la povertà di molti nuclei poveri, ma anche stimolando l’economia locale, sostenendo le riserve valutarie nel Paese e incentivando la cooperazione economica tra il Paese di invio e quello di ricezione”.

Sono le sue modalità, gli agghiaccianti esiti di tanti viaggi della speranza, i sogni infranti nelle acque del Mediterraneo o tra le grinfie del trafficante di turno a rappresentare una grande disastro umanitario, disastro che vede la Caritas molto attiva a livello regionale. Abbé Alphonse Seck, segretario generale di Caritas Senegal, individua dei punti sostanziali su cui agire: in primis assicurare assistenza ai migranti in arrivo o di passaggio nelle grandi città dell’Africa occidentale, garantendo il rispetto dei diritti di uomini e donne indistintamente; effettuare un lavoro di lobby a livello politico e accompagnare le istituzioni pubbliche nella stesura di politiche rispettose del diritto alla mobilità e nella riallocazione delle risorse verso i veri bisogni della popolazione locale.

La Caritas di Gao, invece, ha creato nel 2009 la “Maison du Migrant”: si tratta di una casa per migranti in difficoltà, che dal 2014 ospita anche rifugiati siriani i quali giungono in Europa senza passare da Turchia e isole greche. La Caritas di Gao inoltre collabora poi con l’AME, Associazione Maliana degli Espulsi, che si occupa di fornire prima accoglienza per i migranti rimpatriati dal Maghreb nel tentativo di giungere in Europa in modo irregolare. In Senegal il PARI – Punto di Accoglienza per Rifugiati e Immigrati – è operativo da 21 anni all’interno della Caritas diocesana di Dakar. Il PARI è efficace grazie alla sua collaborazione con organizzazioni come l’UNHCR e Amnesty International.
A livello politico, Chiesa e di Caritas si sono attivate tramite il Simposio delle Conferenze Episcopali dell’Africa e del Madagascar (SCEAM) e la rete MADE-Afrique.

Considerando il movimento umano come un impulso fondamentale allo sviluppo spirituale, all’unità delle culture e all’universalità della fratellanza, la Commissione Giustizia, Pace e Sviluppo dello SCEAM ha istituito da qualche mese un gruppo di lavoro dedicato alle migrazioni africane. Suo compito è quello di stilare documenti di orientamento sia per i vescovi chiamati a prendere decisioni socio-politiche che toccano anche il fenomeno migratorio, sia per la classe politica africana.

Caritas Nigeria pilota infine da diversi anni un progetto di prevenzione della tratta di esseri umani nelle comunità rurali, coinvolgendo parrocchie e Caritas diocesane nell’aumento della conoscenza del fenomeno. Contemporaneamente, contribuisce alla formazione professionale di giovani donne vulnerabili, rendendole economicamente indipendenti e diminuendo il rischio di tratta.

La Caritas ci ricorda che siamo tutti cittadini dello stesso mondo, legati non dalla religione, né dal colore della pelle. Quello che lega tutti noi è l’appartenenza al genere umano. “Restiamo umani” non è solo un motto: è e deve essere uno stile di vita, oggi e sempre.


* Clara Raffaele Addamo studia Giurisprudenza all’Università di Trento e svolge attività di volontariato presso Save the Children e il Centro Astalli di Trento