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“Talking Hands”, una video inchiesta sulle condizioni dei richiedenti asilo a Treviso

Con le mani mi racconto

Se sono sopravvissuto alla Libia, penso di poter sopravvivere anche all’Italia“.
Sono le parole che più ci hanno colpito tra le 5 video interviste realizzate da un gruppo di attivisti trevigiani del Centro sociale Django agli “ospiti” dell’ex Caserma Serena di Treviso.
Una struttura sovraffollata, pensata per poter ospitare 400 persone, nella quale ora ne vivono mille.

Talking Hands“, è un progetto di video inchiesta indipendente che si propone di indagare sulle condizioni dei rifugiati richiedenti asilo a Treviso.
Abbiamo chiesto a Fabrizio Urettini, uno degli autori di questa inchiesta di rispondere ad alcune domande.

D: Come dice uno dei ragazzi intervistati è “difficile pensare ad un futuro senza avere un presente..”
Vuoi spiegarci meglio qual’è questo presente che emerge dalle prime interviste che avete realizzato?

Tutti gli intervistati, di un’età compresa tra i 20 e 27 anni, hanno alle spalle un viaggio di una durata media di tre anni, hanno attraversato il deserto del Niger a bordo di pick-up della Nissan, un viaggio della durata di un paio di settimane attraverso vecchie rotte commerciali, il deserto è indubbiamente il primo vero trauma del loro viaggio, stipati nei cassoni in un numero compreso tra le 40 e le 50 persone può durare nella migliore delle ipotesi 6 giorni, tempo che può variare facilmente tra le due fino alle tre settimane durante le quali sono costretti a un digiuno forzato.
Attraverso il Sahara sono entrati poi in Libia, attraverso le loro testimonianze emerge uno scenario da guerra civile, prima di riuscire ad imbarcarsi la durata media del loro soggiorno in Libia è tra gli 8 mesi per i più fortunati fino ai 2 anni.
La maggior parte degli intervistati ha trascorso in Libia almeno un anno e mezzo, nel corso del quale hanno subito le peggiori violenze, dalla carcerazione per periodi anche lunghi all’essere sistematicamente rapinati, alcuni hanno cicatrici da arma da fuoco, tutti hanno “lavorato” in Libia per pagarsi poi il viaggio in Italia il cui costo in dinari corrisponde all’incirca a 600 euro.
La Libia assieme alla traversata del mediterraneo a bordo dei barconi è stata indubbiamente il secondo e probabilmente più grande trauma che si portano addosso, la frase che ho sentito dirgli più frequentemente è: se avessi saputo non sarei mai partito, ma una volta lì non puoi più tornare indietro.
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I ragazzi arrivano in Italia con uno storico decisamente pesante a livello esperienziale ed emotivo, in Italia la grande maggioranza dei migranti (78%) finisce all’interno di centri “temporanei” di accoglienza individuati dalle Prefetture, questa sistemazione si presta ad una lunga serie di problematiche: meno controlli sulla gestione e sulla qualità dei servizi offerti (e di conseguenza sulla rendicontazione delle spese), conflitti con la popolazione residente, inadeguatezza del percorso di inclusione e di assistenza legale.

All’interno di queste mega-strutture, come quella della ex Caserma Serena di Dosson di Casier di cui fanno parte gli intervistati, vivono al suo interno una popolazione di circa 1.000 abitanti, composta prevalentemente da uomini ma poi anche numerose donne e bambini.
I dati sono incerti perché assistiamo ad un balletto dei numeri e mancano delle cifre ufficiali, la struttura pensata inizialmente per 400 persone oggi ne ospita almeno il doppio.
Quello che subiscono al suo interno è una sorta di interruzione del loro vissuto esperienziale, entrano a far parte di un sistema che di fatto li disattivizza e li esclude dal contesto sociale nel quale si trovano impedendo ogni forma di scambio sociale se non tra di loro.
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Attraverso questo processo di istituzionalizzazione all’interno di un sistema formalmente amministrato, i regolamenti sono spesso a discrezione della società di gestione, i profughi di fatto subiscono una vera e propria reclusione. in questo scollamento dalla realtà i profughi entrano in una fase di attesa passiva che dura tempi lunghissimi, avviene una rottura della relazione abituale tra individuo che agisce e i suoi atti, un’irregimentazione che da un lato priva l’individuo dell’opportunità di equilibrare i suoi bisogni e i suoi obiettivi, dall’altra una violazione dell’autonomia caratteristica delle istituzioni totali.

All’interno di questo scenario fortunatamente si sviluppano forme di mutuo appoggio tra gli ospiti della struttura, una fraternizzazione che da sola però non basta a farli uscire da questa impasse.
Il progetto di interviste che si unisce a delle attività di tipo laboratoriale all’interno dell’opificio “Talking Hands” e di attività fisico-motoria all’interno della palestra popolare “Hurricane” nasce proprio dall’esigenza di farli uscire da questa spoliazione di ruolo attravesro la creazione di opportunità di occupazione in direzione di modelli più permeabili.

D: Come continuerete questo lavoro di inchiesta?
Il progetto ha l’ambizione di creare un percorso di integrazione rivolto
a richiedenti asilo e rifugiati coniugando l’attività manuale (propedeutica all’inserimento lavorativo ma anche all’espressività artistica) con il racconto della propria storia, del paese d’origine, del viaggio e delle proprie aspirazioni.
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In questo modo si intendono creare una serie di servizi – orientati all’integrazione e alla creazione di nuove opportunità di impegno e di lavoro – e spazi per l’incontro, il gioco e la motricità, con il pieno coinvolgimento dei richiedenti asilo, residenti immigrati di lungo periodo, volontari, associazioni della società civile.

L’inchiesta serve soprattutto a noi per capire meglio quello che sta accadendo, per avere gli strumenti di lettura e di analisi per combattere questo modello di accoglienza, per promuovere e soprattutto praticare altre strade possibili. Per descrivere questo lavoro mi piace citare l’immagine di Mario Tronti a proposito dell’inchiesta operaia degli anni 60′, “abbiamo acceso una lampadina” loro nelle fabbriche del “miracolo economico” noi all’interno della fabbrica dell’accoglienza, se questo lavoro viene condotto con partecipazione ed onestà intellettuale l’immagine che ne risulta non può essere sfuocata.
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Redazione

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