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Tratta degli esseri umani, uso della forza internazionale e prevenzione dei naufragi ( … dello stato di diritto)

Di Gabriella Carella, Università di Bari

Gabriella Carella, Università di Bari

Le notizie dell’ennesimo naufragio (sul quale si vedano anche gli interventi di F. De Vittor e C. Favilli, in questo Blog), causa della morte di centinaia di persone che cercano di raggiungere le nostre coste partendo dalla Libia, hanno suscitato un profondo e generalizzato cordoglio, ma, nello stesso tempo, hanno costituito stimolo alla ricerca di soluzioni. In particolare, la vicenda è servita a suscitare – come forse mai si era verificato prima d’ora – l’attenzione energica ed appassionata dei nostri organi di governo rispetto al problema della tratta degli esseri umani. E difatti, alle denunce vigorose, volte a disvelare la reale natura di un fenomeno che costituisce il nuovo schiavismo dei giorni nostri, si è accompagnato l’impegno a porre in prima linea il nostro Stato nella lotta alla tratta grazie ad un progetto di bombardamenti aerei che, affondando i barconi, porrebbero definitivamente fine ai viaggi della morte (v. anche qui).

L’acquisita sensibilità al problema da parte dei nostri politici non può che rallegrare quanti hanno a cuore la difesa dei diritti umani; tuttavia, ci sono alcuni aspetti del progetto che danno l’impressione di essere un po’ affrettati, probabilmente per l’eccesso di entusiasmo e per l’urgenza del momento. Tanto per cominciare, suscita qualche perplessità la categorica qualificazione degli scafisti quali schiavisti, dediti al turpe commercio di esseri umani. In materia di flussi irregolari di persone, infatti, sono due i reati tipici che possono essere realizzati, entrambi oggetto di cooperazione penale internazionale volta a contrastarli e regolata principalmente in due distinti Protocolli aggiuntivi alla Convenzione di Palermo del 15 dicembre 2000 sulla lotta alla criminalità organizzata: il Protocollo sulla tratta e quello sul traffico di persone o smuggling. In base alle definizioni da essi poste, si ha traffico di migranti quando vi sia un accordo tra scafista e cittadino straniero avente ad oggetto il pagamento di un corrispettivo al primo per procurare al secondo l’ingresso illegale nel territorio di uno Stato (art. 3 lett. a) del Protocollo sullo smuggling); si ha tratta, invece, quando lo spostamento avviene senza o contro la volontà del soggetto trasferito e con finalità di sfruttamento che possono essere le più varie (prostituzione, lavoro servile, prelievo di organi, ecc.) (art. 3 del Protocollo sulla tratta). Il carattere coercitivo del trasferimento (che è cosa diversa dai maltrattamenti nel corso dello spostamento) e la finalità di sfruttamento successiva al trasporto, che contraddistinguono la sola tratta, ne fanno un illecito di particolare gravità rispetto al traffico di migranti: quest’ultimo costituisce solo violazione delle leggi che disciplinano le condizioni di ingresso nel territorio dello Stato e costituisce prevalentemente, nei vari ordinamenti, un illecito amministrativo (a cui possono accompagnarsi, ma in modo autonomo, reati di maltrattamento o di altro tipo); la tratta, invece, è un reato contro la persona e non può che avere rilievo penale. Solo qualificando il fenomeno dei flussi dalla Libia come tratta di persone appare politicamente – prima ancora che giuridicamente – proponibile l’idea dei bombardamenti di barconi, sia perché solo in questo caso si avrebbe una violazione dei diritti umani (e la prassi internazionale recente mostra una certa inclinazione degli Stati a difendere tali diritti ricorrendo alla forza armata), sia perché, visto che le persone vengono spostate senza il loro consenso, non ci sarebbe da parte di queste ultime né il desiderio, né la necessità di abbandonare la Libia. Diversamente, se si trattasse di traffico di migranti, non solo sarebbe irragionevole reagire con bombardamenti ad un illecito sostanzialmente amministrativo, ma potrebbe risultare poco accettabile per l’opinione pubblica di uno Stato democratico privare dei mezzi per la salvezza persone che sono disposte a tutto pur di abbandonare un luogo ove, evidentemente, si sentono in pericolo. Al di là dei possibili effetti propagandistici sull’opinione pubblica, però, la disciplina della tratta (e, a maggior ragione, del traffico di esseri umani) non viene in soccorso delle vigorose iniziative proposte. Consideriamo anzitutto il Protocollo sulla tratta, unitamente alla Convenzione di Palermo che ne integra il contenuto, atti che, in quanto ratificati sia dalla Libia che dall’Italia, sono applicabili nel caso di specie. L’art. 11, par. 6 della Convenzione di Palermo chiarisce che la tratta è un reato che ha rilievo solo nell’ordinamento interno statale e che in base a questo va punita. Si legge infatti: “Nulla di quanto contenuto nella presente Convenzione inficia il principio in base al quale la descrizione dei reati determinati ai sensi della presente Convenzione e delle difese giuridiche applicabili o altri princìpi giuridici che controllano la liceità della condotta è riservato al diritto interno di uno Stato Parte e che tali reati sono perseguiti e puniti ai sensi di detto diritto”. Coerentemente, l’art. 12, con riguardo ai beni utilizzati per commettere il reato di tratta, prevede solo l’applicazione della confisca e del sequestro disciplinati dall’ordinamento interno; per il caso in cui detti beni si trovino all’estero, l’art. 13 dispone che venga inviata alle autorità competenti dello Stato territoriale una richiesta di confisca perché essa venga eseguita. Se le autorità dello Stato territoriale non possono o non vogliono collaborare, viene in rilievo quanto disposto dall’art. 4, comma 2, ai sensi del quale “Nulla nella presente Convenzione legittima uno Stato Parte ad intraprendere nel territorio di un altro Stato l’esercizio della giurisdizione e di funzioni che sono riservate esclusivamente alle autorità di quell’altro Stato dal suo diritto interno”. Rileva altresì, nel caso che ci riguarda, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, adottata a Montego Bay il 12 dicembre 1982, che contiene la disciplina dei poteri esercitabili da uno Stato nei confronti di navi straniere, in funzione della zona di mare in cui esse si trovino. L’art. 99 di tale Convenzione è intitolato “Divieto di trasporto degli schiavi”, ma si limita a disporre l’obbligo degli Stati di adottare misure efficaci per prevenire e perseguire il trasporto degli schiavi a bordo delle navi battenti la propria bandiera. Nessuna deroga, invece, è posta alle norme che sottopongono le navi ai poteri dello Stato costiero, quando si trovino nei porti e ai poteri dello Stato di bandiera, quando esercitino la libertà di navigazione. Non solo quindi non si prevede in alcun caso il ricorso alla forza armata, ma, per di più, anche l’applicazione di poteri coercitivi di diritto interno (visita, sequestro, confisca) è assolutamente esclusa nei porti e nelle acque territoriali di un altro Stato, nonché sulle navi battenti bandiera straniera in alto mare. Analoga disciplina è posta con riguardo al traffico di persone cui sono applicabili gli stessi articoli 11, par. 6, 12, 13 e 4, par. 2 richiamati sopra; inoltre, l’art. 8 del citato Protocollo sullo smuggling stabilisce espressamente che, se uno Stato ha ragionevoli motivi per dubitare che una nave di altro Stato sia coinvolta nel traffico di migranti, ne dà comunicazione allo Stato di bandiera perché prenda le opportune misure. Solo se lo Stato di bandiera dà la sua autorizzazione, la nave può essere fermata e ispezionata o possono essere adottate altre misure che, però, non includono la distruzione.

Quale che sia l’illecito ricostruibile, quindi, non si rinvengono disposizioni che autorizzino il ricorso alla forza militare contro gli scafisti e/o i loro beni, né potrebbe essere diversamente. Difatti, il carattere esclusivamente interno dell’attività repressiva della tratta e del traffico è coerente alla natura di illeciti transnazionali ad essi riconoscibile. Si tratta di reati interni (riciclaggio, corruzione internazionale, traffico di rifiuti e di armi, cybercrimes, ecc.) che, per il fatto di svolgersi tra i territori di più Stati, necessitano della cooperazione internazionale, ma solo per favorire l’esercizio della giurisdizione penale statale, attraverso il ricorso a forme di collaborazione quali l’estradizione e le rogatorie internazionali, non certo per sostituire la giurisdizione penale statale con la coercizione internazionale. Nessuno pensa che per reprimere l’esportazione illegale di capitali all’estero si potrebbero bombardare le banche della Svizzera o di qualsiasi altro Stato in cui i predetti capitali possano essere depositati, anziché perseguire la cooperazione giudiziaria e di polizia. D’altra parte, persino nel caso di crimini internazionali degli individui (genocidio, crimini di guerra, ecc.) la responsabilità internazionale di questi non comporta l’applicazione nei loro confronti della forza militare, ma si sostanzia nell’assoggettamento al giudizio di tribunali internazionali, oltre che dei tribunali interni, competenti anche sulla base del criterio della giurisdizione universale. “Vi è quindi una incommensurabilità radicale e insanabile tra uso della forza internazionale e prevenzione e punizione degli illeciti individuali dovuta al fatto che il ricorso alla forza costituirebbe un aggiramento di tutte le garanzie su cui è costruito lo Stato di diritto”: principio di legalità del reato e della sanzione, tutela giurisdizionale, principi di personalità e colpevolezza e molto altro ancora. In parole povere, il bombardamento dei barconi, come misura volta ad eliminare gli strumenti della commissione di un grave reato, costituisce applicazione agli individui, proprietari dei barconi stessi, di una sanzione senza processo e senza condanna. Nell’ipotesi, non del tutto eliminabile, in cui i bombardamenti causassero vittime, si tratterebbe di privazione arbitraria della vita, senza processo e senza condanna.

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