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Un anno di “accoglienza” nel CIE di Gradisca

Ripercorriamo un anno di ipocrisie istituzionali e di accoglienza emergenziale in Friuli Venezia Giulia a partire dal "CARA improvvisato"

Il 10 gennaio 2015, una quarantina di cittadini goriziani e non, molti dei quali volontari che da mesi offrivano pasti caldi e vestiti ai richiedenti asilo in strada, si sono ritrovati davanti alla Prefettura di Gorizia per protestare contro l’inerzia dell’istituzione. Ai tempi, i richiedenti asilo in strada erano circa 40. Durante le feste natalizie, il volontariato si era impegnato al massimo per offrire, tra sedi associative e parrocchie, un riparo dal freddo ai richiedenti asilo in arrivo in città.
La fine delle vacanze e la ripresa delle attività nelle varie sedi improvvisate a dormitori segnava l’inizio di una ennesima fase di crisi: “stasera dove li mettiamo a dormire?” era più o meno la domanda che serpeggiava tra i partecipanti della fiaccolata davanti alla Prefettura.
La risposta, l’allora Prefetto Zappalorto, la diede in maniera sommessa, senza azzardarsi a confrontarsi in prima persona con le persone che da mesi stavano garantendo ai richiedenti asilo fuori accoglienza quello che teoricamente avrebbe dovuto garantire l’istituzione di cui era a capo. Quella sera, a “sorpresa”, il CIE di Gradisca, chiuso dal novembre 2013 in seguito agli incendi che lo avevano reso inutilizzabile, veniva riaperto per “accogliere” i richiedenti asilo in strada a Gorizia.
Una decisione calata dall’alto, senza il preavviso degli enti locali che in Regione si sono quasi unanimemente dichiarati contrari a qualsiasi riutilizzo del mostro di Gradisca. Una decisione che ha soddisfatto più di qualcuno quella sera in piazza, con il laconico riconoscimento che “almeno non saranno più in strada“. Una decisione che, precisava l’allora Prefetto, rappresentava una soluzione assolutamente “temporanea” della durata massima di una settimana.

Da allora il CIE di Gradisca è sempre rimasto in funzione come CARA. Esistono ancora le gabbie, la struttura è rimasta quella di una prigione, ma le porte sono aperte.
Come lo è stato fino alla chiusura del Novembre 2013, il CIE di Gradisca continua a rappresentare una ferita aperta nella storia delle politiche migratorie imposte dal Ministero dell’Interno a questa regione. Sembra che del CIE di Gradisca questo territorio non riesca proprio a liberarsi.
Non è servito un processo (tutt’ora in corso) in cui i vertici dell’ente che più a lungo ha gestito il CARA/CIE di Gradisca sono accusati di truffa ai danni dello Stato (e la stessa ex vice-prefetto è accusata di falso ideologico in atti pubblici), non è servita una recente inchiesta sulle fatture gonfiate da parte del consorzio trapanese, non è servita la perizia dell’Azienda Sanitaria che nel 2013 certificava le numerose ‘anomalie’ che rendevano l’ambiente del CIE inabitabile.
Non è servita la recente segnalazione inviata alla Prefettura di Gorizia da Tenda per la Pace e i Diritti, la Campagna LasciateCIEntrare e l’associazione Cittadinanzattiva relativa ai pocket-money a base di arachidi e sigarette una tantum che chiaramente non rispettavano la convenzione in vigore tra ente gestore e Prefettura (segnalazione cui peraltro la Prefettura di Gorizia non ha mai risposto).
Non è servito l’avvio di una ulteriore inchiesta della Procura di Gorizia relativa all’ultimo periodo di gestione della struttura da parte del consorzio trapanese per una serie di fatture ‘forse’ gonfiate.
Da metà ottobre gli “ospiti” del complesso CARA/CIE sono saliti a circa 400: l’esondazione del fiume Isonzo ha imposto lo sgombero degli accampamenti-vergogna in cui decine di richiedenti asilo vivevano per settimane prima di entrare nel sistema dell’accoglienza. I richiedenti asilo sono stati immediatamente trasferiti al CIE, dove per giorni sono mancati anche i materassi: “ma almeno non dormono in strada“. Nonostante il Comune di Gradisca si sia sempre dichiarato favorevole ad una chiusura del CARA per avviare un sistema di accoglienza diffusa più a misura di città, nonostante siano note le criticità legate alla struttura, la popolazione del CARA è invece aumentata, simbolo grottesco di una Regione che invece insiste nel propagandarsi come “modello di accoglienza”.

Di coloro che il 10 gennaio si trovavano a protestare per la mancata accoglienza dei richiedenti asilo davanti alla Prefettura di Gorizia, la gran parte continua a garantire la prima accoglienza che invece le Istituzioni non sembrano intenzionate a fornire.
A dicembre un esposto di circa sessanta pagine che fotografa la situazione dell’accoglienza in Provincia a partire dalla fine del 2013 ai giorni nostri è stato depositato presso la Procura di Gorizia. Testimonianze, richieste di accesso agli atti senza risposte, report e segnalazioni sulle condizioni dei richiedenti asilo “non accolti” costituiscono il corposo materiale in allegato all’esposto. Pesanti le ipotesi di reato, inclusa quella di omicidio colposo per la morte di Taimur, richiedente asilo pakistano annegato nel fiume Isonzo, il 7 agosto scorso.
I firmatari sono Tenda per la Pace e i Diritti, il Forum per Gorizia e il Coordinamento Welcome Refugees FVG, insieme ad una serie di singoli. Nessuno dei volontari o delle associazioni che da oltre un anno e mezzo lavorano per la prima accoglienza ha firmato. Sorprendenti le dichiarazioni a mezzo stampa: il direttore della Caritas diocesana, Don Paolo Zuttion, ha definito l’esposto “un fulmine a ciel sereno”, prendendo implicitamente le distanze da qualsiasi iniziativa di questo tipo: “Non penso che possano esserci ritorsioni. A intuito non vedo come [l’esposto] possa favorirci o sfavorirci“. Bejza Kudic, dell’associazione “Insieme con Voi”, ha invece dichiarato che la sua associazione non era a conoscenza dell’esposto, mentre lei personalmente invece era stata informata (una delle testimonianze più rilevanti alla base dell’esposto è proprio la sua). Sembra quindi che, rispetto a quel lontano 10 gennaio in cui con una fiaccolata si voleva simbolicamente attaccare l’inerzia della Prefettura di Gorizia, i toni di coloro che quotidianamente assistono i richiedenti asilo in città si siano decisamente smorzati. Assuefazione o timore di “ritorsioni”?
Non è chiaro, anche se forse da coloro che, più di tutti nell’ultimo anno e mezzo hanno vissuto e sono stati testimoni dell’inerzia della Prefettura e dell’intransigenza razzista del Comune, ci si aspettava probabilmente una presa di posizione più netta e meno titubante.

Ad oggi, l’unica vera novità è stato l’intervento di Medici Senza Frontiere, cui mesi fa era stata segnalata la gravità della situazione dei richiedenti asilo in strada. Un intervento ostacolato apertamente da Comune e Prefettura, ma accolto invece con favore dai volontari goriziani.
I richiedenti asilo fuori dal sistema di accoglienza istituzionale sono oggi circa 60, gli arrivi – per quanto rallentati dall’inverno – sono costanti. L’ennesima serie di pullman ha “salvato” la città dal suo gravoso “carico” e il 7 gennaio un centinaio di richiedenti asilo sono stati trasferiti verso ignote strutture in Campania e Puglia.
E’ un film che si ripete: quando le presenze di richiedenti asilo fuori accoglienza superano il “livello di guardia” e il Sindaco Romoli ricomincia a lamentarsi perché di stranieri nella sua città ce ne sono già troppi, arrivano i pullman organizzati dal Ministero dell’Interno a riportare, per breve tempo, il sereno. Una sorta di gioco dell’oca in cui le pedine da spostare in giro per la penisola sono “solo” esseri umani: cosa importa se in città hanno vissuto anche per mesi, hanno stretto dei legami e per un breve momento hanno pensato di ricostruire la propria vita proprio a partire da Gorizia?

Finché il mostro di Gradisca continuerà ad essere in funzione come “CARA improvvisato”, sarà chiaro che il Friuli Venezia Giulia ha perso la sua (dichiarata) battaglia per l’accoglienza diffusa e che continuerà ad essere ostaggio di una politica emergenziale e basata sull’inerzia, in cui si preferisce investire in appalti milionari per la gestione di mega-strutture (altro caso “simbolo” è la tendopoli che a Udine accoglie più di 300 richiedenti asilo) o aspettare l’ennesimo “provvidenziale” trasferimento, invece di spingere i Comuni ad impegnarsi concretamente per l’accoglienza diffusa, confidando infine in un rafforzamento del controllo ai confini con Slovenia ed Austria, per scongiurare “l’invasione” che non c’è.
Il 6 gennaio il Presidente della Provincia di Gorizia, accompagnato da assessori e Sindaci di altri comuni del territorio, si è recato in delegazione a Dragogna, confine sloveno-croato dove da qualche settimana è stato allestito l’ennesimo muro della vergogna della Fortezza Europa: una rete di filo spinato “protegge” infatti i confini della Slovenia dalla temuta “invasione”. “Non è questa l’Europa che vogliamo” ha dichiarato Gherghetta, Presidente della Provincia, davanti al filo spinato di Dragogna, su cui sono stati deposti dei fiori dai presenti.
Ripensando alle gabbie e al filo spinato del CIE di Gradisca, che oggi “accoglie'” decine di persone, vien da pensare che neanche questa è l’Europa che vogliamo. Eppure, nessuno ha portato dei fiori davanti a quel muro. L’indignazione si preferisce riservarla alle segreganti e respingenti politiche altrui.

Approfondimenti:
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