Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
//

Vita da rifugiato in Gran Bretagna? “Un cane non potrebbe sopportarla”

Olivia Laing, The Guardian - 24 luglio 2016

Photograph: Oli Scarff/Getty Images

traduzione di Luca Pizzocaro

R mi ha detto del suo trattamento qui, in un paese “dove hanno diritti umani”. Mi sono sentita male per la vergogna…

Se tutte le porte sono chiuse, come le apri? Questa è la domanda che mi tormenta da tutta l’estate. Come continui a lavorare per la tolleranza quando l’opinione pubblica si è spostata contro il cosmopolitismo, quando una società è diventata terrorizzata dalle differenze?

La scorsa primavera ricevetti un’email da una donna chiamata Anna, che mi chiese se mi sarebbe piaciuto collaborare con Refugee Tales, un progetto che lavora per far cessare le detenzioni a tempo indefinito dei rifugiati in Gran Bretagna. Ti accosteremo a un ex detenuto, mi disse. Lui ti racconterà la sua storia, e tu la scriverai.

Incontrai R nel foyer del King’s College. La primavera nell’aria, il Tamigi scorreva sotto la fresca e verde ombra dei platani in fondo alla strada. R sembrava malato, ma disse di voler proseguire con la nostra conversazione.

Da ragazzo, fu coinvolto nelle proteste studentesche contro le elezioni corrotte nel suo Paese. Tutti furono arrestati. Il poliziotto riconobbe il suo nome, che era lo stesso di un parente in una posizione di potere. Avvicinandolo gli disse che sarebbe stato trasferito in una prigione segreta, e che se fosse andato lì non ne sarebbe mai uscito vivo.

Due giorni dopo, furono tutti caricati su delle jeep nere. R era stato allontanato dal convoglio e fu portato in un hotel. Il suo parente era lì. “Non ti manderò in Francia” disse. “Ti manderò in un Paese dove rispettano i diritti umani”.

“Il suo caso fu trattato in tribunale 17 volte. La diciottesima volta li giudice fu clemente.”

R e io sedevamo uno di fronte all’altra in una stanza senza finestre, su sedie di plastica; una sorta di sala interrogatori. Odiavo chiedergli di raccontarmi la sua storia poiché sapevo che ne aveva già parlato parlato e parlato, che aveva recitato il suo repertorio di fatti, che in qualche modo era svanito dietro a questi.

All’inizio le cose andavano bene in Inghilterra. Un appartamento a Londra, soldi dal governo, un corso al college, una laurea. E poi un errore, uno stupido errore di valutazione. Comprò un televisore al plasma da un conoscente. L’unica cosa che seppe poi, è che la polizia venne alla sua porta. Fu arrestato, fu condannato per ricettazione. Andò in prigione, scontò la sua pena, fu rilasciato.

Fuori dal carcere, le guardie di frontiera inglesi lo stavano aspettando. Mentre stava dentro, la legge era cambiata. Se eri condannato per più di un anno, eri automaticamente soggetto a deportazione.

E allora l’incubo incominciò. Fu trattenuto in un centro di detenzione per quasi un altro anno, e quando fu rilasciato anche il mondo esterno era diventato una prigione. Doveva indossare un braccialetto e rispettare un coprifuoco; doveva presentarsi all’autorità di confine tre volte a settimana. Non poteva lavorare. Un biglietto andata e ritorno per il luogo dove doveva presentarsi per fare rapporto costava 24 sterline.

Tornò al centro di detenzione ancora una volta. Stava piangendo mentre mi diceva come era scontare una condanna indefinita, un tempo senza un termine in vista. “Signora, il suo cane non potrebbe sopportarlo” disse. Il suo caso fu trattato in tribunale 17 volte nell’arco di tre anni. La diciottesima volta il giudice fu clemente.

Fu rilasciato ma, dopo 20 anni in Gran Bretagna, non è ancora in libertà. È depresso, non gli piace stare con le persone, ha paura di loro. Qualche volta sente voci che gli dicono di uccidersi. Qualche volta pensa di sognare, che niente sia davvero reale. Ancora non può lavorare, ancora deve fare rapporto ogni settimana, ancora non ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Presto, mi disse, potrebbe cambiare. Ci siamo quasi, gli dissi, e mi rispose amaramente: “Non si tratta di ‘esserci quasi’, è metà della mia età. Due decenni e mezzo”.

Illustrazione di David Foldvari

Mi sentii male per la vergogna quando me lo disse. Vergogna per il mio Paese, vergogna per lo spreco, per il furto di tempo e talento. Vergogna: la sensazione che ha segnato quest’estate.

Due mesi dopo, presi un treno da St. Pancras, sferragliante sulle paludi del Kent. Il progetto Refugee Tales aveva organizzato la marcia da Canterbury a Londra, un pellegrinaggio tratto direttamente da Chaucer. Ogni notte uno scrittore li raggiungeva per raccontare storie di persone che vivono in silenzio, dietro le porte sbarrate dei centri di detenzione.

Fu dieci giorni dopo il referendum. Mi fermai per un drink su Faversham high street. Un uomo dalla faccia rossa, già ubriaco, stava guardando gli eventi in programma sul proprio iPhone. “Un bel gruppo di sinistroidi” disse. “Shami Chakrabarti, quella troia”.

Arrivai alla sala dell’assemblea in stato di disperazione. Chi sarebbe venuto, chi si sarebbe interessato del trattamento subìto dai rifugiati in questo clima, quando abbiamo già sbarrato le porte.

Ma la gente venne. Arrivarono persone che avevano camminato tutto il giorno. Vecchi, adolescenti, ex detenuti. Improvvisamente la stanza era piena, improvvisamente ero in un’altra Gran Bretagna: una Gran Bretagna di mosaici di bandiere e ciotole comuni di riso e legumi. Una Gran Bretagna allegramente, sinceramente impegnata nell’essere gentile.

Ho letto la storia di R. Alla fine ho parlato di come mi vergognavo del mio Paese, e di come ero tormentata dalla domanda di cosa avrebbe fatto R della sua vita. Anna sedeva di fronte a me, in prima fila, e questa forte, ostinata, infaticabile donna stava singhiozzando.

Cominciai a sentire ancora la speranza quella sera. Proprio ora sembra come se ognuno nel mondo fosse ai ferri corti, per spezzarsi in pezzi sempre più piccoli, in una instancabile crociata per qualche tipo di impossibile, folle purezza. Lo trovo terrificante, questo sogno di abitare in un mondo popolato da persone esattamente come te.

Non deve essere così. Possiamo smettere di essere cosi mortalmente spaventati degli stranieri, così pericolosamente interessati alla protezione di noi stessi.

Questo è il motivo per cui le storie sono una tale forza invisibile. Raccontando la storia di qualcuno, lo rendi reale, proprio come forzando qualcuno a stare in silenzio lo distruggi. E rendendo le persone reali devi fare spazio per loro, per rendere il mondo cosciente della loro presenza. R, per esempio, rigirando il cappellino da baseball tra le mani, dicendo “mi hanno mandato in un Paese con diritti umani”.

L’ultimo libro di Olivia Laing è La Città Solitaria: Avventure nell’Arte di Essere Soli (Canongate)