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Vite in emergenza. Video inchiesta sull’Emergenza Nordafrica

a cura di Esc-Infomigrante


A 20 mesi dall’inizio dell’ennesima eccezione italiana, denominata ufficialmente “Emergenza Nordafrica”, con cui il governo italiano ha risposto allo scoppio delle Rivoluzioni Arabe e alla conseguente ridefinizione delle rotte migratorie che attraversano le coste africane, stiamo assistendo al suo “eccezionale” smantellamento, ugualmente privo di regole e altrettanto incapace di tutelare i diritti dei migranti.

La video inchiesta “Vite in emergenza” cerca di cogliere genesi e sviluppo del duplice fallimento che le misure d’urgenza hanno prodotto, dal momento stesso in cui sono state messe in pratica dalla Protezione Civile. Luoghi inadatti all’accoglienza sono stati adibiti senza regole e senza requisiti a centri per rifugiati, imponendo, di fatto, nuovi standard di accoglienza definiti decisamente al ribasso. Personale qualificato (giovane, laureato e alla disperata ricerca di lavoro/reddito), precario e sottopagato è stato reclutato “emergenzialmente” dalle cooperative vincitrici degli appalti per la gestione dei centri (appalti assegnati in circostanze non sempre troppo chiare).

Quando nei primi mesi del 2011 il fremito della rivolta inizia a percorrere la sponda Sud del Mediterraneo, i dittatori nordafricani non sono i soli a sussultare. Poche decine di kilometri più a Nord, la fortezza europea vacilla. Le prime manifestazioni di piazza mettono a rischio la tenuta di quei dittatori, vanificando l’alleanza tra la democratica Europa e i regimi del Nordafrica. In cambio di armi, soldi, riabilitazioni politiche a livello internazionale, infatti, Mubarak, Ben Alì e soprattutto Gheddafi hanno accettato di contrastare sul proprio territorio i flussi migratori irregolari.

Il governo italiano, guidato da Berlusconi, trema all’idea che possano ricominciare in maniera imponente gli sbarchi dei migranti provenienti da quella regione, vanificando gli sforzi politici e militari dell’ultimo decennio. Un mese dopo la cacciata di Ben Alì, viene dichiarato lo stato d’emergenza. È il 12 febbraio 2011. Pochi giorni dopo, iniziano gli sbarchi dei migranti tunisini. Non si tratta certo di un “esodo biblico”, come evocato dall’allora ministro degli interni Maroni: nei fatti, solo alcune migliaia di ragazzi raggiungono il territorio italiano. Per intere settimane, i tunisini vengono confinati nel limbo di Lampedusa, trasformata all’occorrenza in un’isola di permanenza temporanea. Verso la fine di marzo, quando la tensione è ormai insostenibile, il governo decide di trasferirli nei centri spuntati come funghi in diversi luoghi della penisola. L’attenzione mediatica è altissima e controllare i migranti non è cosa facile. Molti di loro sfuggono alla vigilanza delle autorità italiane, nei centri si moltiplicano le evasioni, in molti sognano di raggiungere la Francia. Per agevolare la fuoriuscita dal territorio italiano, il governo concede a chi è arrivato prima del 6 aprile un permesso di soggiorno per motivi umanitari e un titolo di viaggio. L’attenzione mediatica si concentra su Ventimiglia, dove in migliaia si dirigono per tentare di varcare il confine con la Francia. Sarkozy, però, si oppone, sospende Schengen e ristabilisce i controlli di frontiera. Ma il blocco è effimero: dopo alcuni giorni i ragazzi riescono a passare. Nel frattempo, le nuove autorità tunisine hanno ristabilito i vecchi accordi con il governo italiano, per chi è arrivato dopo il 6 aprile il destino è segnato: espulsione o rimpatrio.

Intanto in Libia, il principale paese di transito della rotta migratoria del Mediterraneo centrale, l’insurrezione popolare diventa guerra civile. Gheddafi non vuole lasciare il potere. L’importanza geopolitica del paese e la ricchezza di materie prime spingono le potenze occidentali a fornire appoggio militare ai ribelli, iniziano i bombardamenti. Oltre ad essere il principale paese di transito, tra quelli nordafricani, la Libia è anche un’importante meta di destinazione di consistenti flussi migratori provenienti dal resto del continente africano. Tantissimi cittadini stranieri vivono e lavorano nella Jamahiriya. Quando scoppia il conflitto militare, alcuni di loro vengono rimpatriati dai rispettivi stati di provenienza, altri finiscono nei campi profughi dell’UNHCR, altri ancora si trovano di fronte una sola possibilità: partire, scappare, sfidare il mare. In migliaia partono verso l’Italia, scappano da una guerra a cui le potenze occidentali hanno preso parte, contro un dittatore che loro stesse hanno sostenuto e finanziato negli ultimi anni, in cambio della guerra all’immigrazione clandestina. Sono profughi titolari di diritti stabiliti da trattati internazionali e da leggi nazionali.

Il governo italiano, nel frattempo, si appresta a varare con l’appoggio degli enti locali la seconda fase dell’emergenza. Viene progettato un nuovo piano di gestione dell’accoglienza: ogni regione deve ospitare un numero di migranti in proporzione alla propria popolazione residente, la pianificazione e la gestione diretta è affidata alla Protezione Civile, il tutto viene definito all’interno di un quadro emergenziale in deroga alla legislazione vigente. Il sistema di accoglienza attuale, costituito da SPRAR e CARA e già gravemente carente ed estremamente problematico, viene completamente escluso da questa gestione. I richiedenti asilo sono ospitati in baite sperdute, hotel abbandonati, case private, fattorie, hangar, edifici di vario genere. Strutture abbandonate e in disuso diventate magicamente “centri di accoglienza”. Eccezion fatta per pochi, pochissimi esempi virtuosi, la regola che definisce le condizioni di accoglienza è il primo principio del capitalismo: massimizzare i guadagni, abbattere i costi.

La gestione dei centri viene affidata alle cooperative con modalità differenti da regione a regione. Ogni società appaltatrice deve fornire una serie di servizi stabiliti dal contratto. Il rimborso previsto è ingente: circa 40 euro giornalieri per ogni migrante adulto ospitato e 80 per ogni minore. Scatta la gara tra le cooperative per accaparrarsi quanti più migranti possibili. Le “vite in emergenza” diventano una fonte di rendita spettacolare.

Nel Lazio, un bando regionale seleziona le cooperative cui appaltare i centri destinati agli adulti. A vincere sono i professionisti regionali dell’accoglienza. Il maggior numero dei centri viene affidato a Tre Fontane e Domus Caritatis, due cooperative che fanno capo alla potente Arciconfraternita (una società legata alla CEI), quelli restanti a Eriches 29 e ad altre ancora. Nella stragrande maggioranza dei casi, i migranti, che diventano presto “richiedenti asilo”, vengono parcheggiati in strutture lontane dalla città, molto distanti dai centri abitati della provincia e prive dei requisiti atti a garantire una quotidianità dignitosa. In questi luoghi non studiano, non lavorano, non si ambientano e vengono di fatto tagliati fuori da qualsiasi possibilità di inserimento sociale. Intanto le cooperative intascano sulla loro pelle un fiume di soldi. I corsi di italiano, quando partono, sono attivati da associazioni di volontariato o dalle parrocchie. L’assistenza sanitaria e legale ricade sulle associazioni del terzo settore già attive a Roma e in provincia: per questi soggetti il carico di lavoro aumenta esponenzialmente, in cambio, però, non ricevono alcun finanziamento. Il cibo servito in molte strutture è di pessima qualità tanto che in molti imparano presto che, piuttosto che mangiare nei centri, è meglio uscire a elemosinare o andare ad affollare le mense della Caritas. Per non parlare dell’assenza completa e generalizzata di percorsi di inserimento sociale e lavorativo: di questi non esiste traccia da nessuna parte. Su quello che accade nei centri, le autorità chiudono tutte e due gli occhi. Lo Stato, insomma, emette una serie di corposi assegni in bianco, senza chiedere in cambio quasi niente: soltanto che i migranti vengano tenuti buoni nei parcheggi creati dalle cooperative e il più possibile lontani da qualsiasi ciclone mediatico. Può capitare perfino che i soldi pubblici vengano spesi per pagare l’affitto di un edificio abusivo, come è accaduto nel centro di Anguillara (gestito dalla cooperativa Eriches 29).

Siamo ormai alla fine di marzo 2013, in un’Italia da molti punti di vista in bilico e che nomina però presidente della Camera Laura Boldrini, nota per il suo impegno in materia di migrazioni, proprio mentre si sta concludendo un’emergenza che, tra rinvii e proroghe, è durata ben due anni (altro che “eccezionalità e urgenza”!). Ufficialmente l’emergenza Nordafrica è finita il 31 dicembre, data in cui la gestione è passata dalla Protezione Civile ai comuni e alle prefetture. Tuttavia solo dal 28 febbraio i centri sono stati chiusi e migliaia di migranti sono finiti per strada con un contentino di 500 euro, funzionale soltanto a scongiurare il rischio di nuove proteste. Nel Lazio, però, i centri sono ancora aperti e chiuderanno, probabilmente, tra pochissimi giorni, verso la fine del mese. Le conseguenze della gestione dell’emergenza non cesseranno, ovviamente, con la chiusura di queste strutture. Il generale deterioramento delle condizioni di accoglienza prodotto già di fatto, nella pratica, da questa gestione emergenziale continuerà a spingere verso il basso (per non dire verso il baratro) gli standard italiani dell’accoglienza: anche in barba alla Convenzione di Ginevra, il “richiedente asilo” perde, strada facendo, quasi tutti i suoi diritti e diventa un “pacco” da trasportare e spostare dove meno disturba, e senza troppe attenzioni, su e giù per il paese.

Un caso particolarmente esplicativo del tendenziale deterioramento delle condizioni di accoglienza a causa della gestione emergenziale è quello dei centri per minori. Prima dell’emergenza, i ragazzi con meno di 18 anni transitavano dai centri per poi essere trasferiti in strutture che, pur presentando numerose problematiche, erano funzionali a tutelare la vulnerabilità di queste persone (SPRAR, case famiglie, comunità, etc.). Con l’“eccezionale afflusso di cittadini provenienti dal Nordafrica”, invece, Roma si è riempita di centri destinati ad ospitare queste persone per periodi prolungati e con un’alta concentrazione di ospiti. Si tratta, quindi, di strutture incapaci di garantire i diritti riconosciuti a soggetti vulnerabili come i ragazzi non accompagnati. E non basta! In questi giorni, questi centri sono teatro di una “caccia al finto minore” scatenata dalle forze dell’ordine. Nonostante le persone ospitate siano già state sottoposte a un esame medico che ha attestato la loro minore età, infatti, la questura pretende ora di effettuare nuovi esami, tra l’altro invasivi e nocivi alla salute dei ragazzi. Tutto questo, tra l’altro, viene svolto con procedure irregolari e intimidatorie che hanno l’unico scopo di svuotare i centri perché i soldi per la loro accoglienza, che dopo la fine ufficiale dell’emergenza sono passati a carico del comune, sono finiti. Nel caso dei centri per minori, infatti, è maggiormente problematico sbattere da un giorno all’altro gli ospiti per strada, come invece sta avvenendo nelle strutture che ospitano gli adulti.

Complessivamente, da febbraio 2011 a marzo 2013, sono transitati all’interno dell’emergenza Nordafrica oltre 64 mila cittadini stranieri. Sono stati spesi circa un miliardo e trecento milioni di euro. Questo fiume di denaro, destinato teoricamente a garantire un’accoglienza degna ai rifugiati, è servito soltanto ad alimentare gli interessi di pochi. Lo Stato ha pagato, la Protezione Civile ha agito senza vincoli, le Regioni non hanno controllato, le cooperative si sono riempite le tasche di denaro, i migranti sono rimasti intrappolati in un limbo, senza prospettive e senza futuro.

Cosa resta dunque dell’emergenza Nordafrica? Resta un fallimento generalizzato della società italiana nel suo complesso. Un fallimento in cui tutti hanno perso, tranne i soliti noti, i professionisti della speculazione sulle “vite in emergenza”, da quelle dei terremotati dell’Aquila e dell’Emilia, a quelle dei migranti in fuga dalla guerra e in cerca di condizioni di vita migliori.

Riconoscere questo fallimento è il primo passo per provare a immaginare quali condizioni di accoglienza, quali servizi, quali percorsi di inserimento lavorativo e sociale dovrebbero essere garantiti ai cittadini stranieri che arrivano in Italia. E ancora, quali soggetti andrebbero investiti di un compito così delicato come la prima accoglienza di persone provenienti da esperienze traumatiche, da condizioni difficili e da situazioni diffuse di vulnerabilità. Pensare e monitorare tutto ciò è un compito che non ammette deleghe a Istituzioni cieche e conniventi, ma che può funzionare veramente solo se viene imposto dal basso, dal bisogno comune di diritti, dignità e giustizia sociale che unisce migranti e residenti.