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Wij Zijn Hier: storie migranti da Amsterdam

Foto: Virginia Zoli

Sono arrivato in Olanda 12 anni fa. Sono partito dalla Somalia e passando per Istanbul ho provato a entrare in Grecia. Ma il confine con la Turchia era troppo pericoloso”, racconta Osman, che ora vive ad Amsterdam assieme ai rifugiati del collettivo Wij Zijn Hier. “Così ho preso un gommone, uno di quelli che oggi vedi sulle prime pagine dei giornali, e assieme ad altri sette ci siamo diretti a Lesbo.”

Foto: Virginia Zoli
Foto: Virginia Zoli

A riva, però, c’è la polizia. “Ci hanno sbattuto in una prigione a blocchi. Per tre mesi ho dormito in uno stanzone con centinaia di materassi e un solo bagno. Poi mi hanno rilasciato con un foglio che ordinava di lasciare la Grecia.

Da Lesvos Osman si sposta ad Atene, dove grazie all’ospitalità di alcune famiglie somale trova un tetto e un lavoro a nero. “Da Atene ho preso un aereo per Amsterdam e in Olanda ho fatto richiesta d’asilo. Ma quando hanno scoperto che mi avevano preso le impronte in Grecia hanno minacciato di deportarmi, così sono fuggito in Svezia”. E più a nord a Osman va meglio. Viene accolto: casa, un lavoro in periferia, il corso di “lingua e integrazione”.

Nel 2008, però, la Grecia viene riconosciuta dalla Corte Europea per i Diritti Umani paese non sicuro per i rifugiati e, sulla base dei Regolamenti di Dublino, l’Olanda diventa il primo paese d’arrivo per Osman. Che dalla Svezia viene rimandato ad Amsterdam. Da quel momento, dopo una serie di interviste all’Ufficio Stranieri (IND), Osman sta ancora aspettando l’accettazione della domanda d’asilo: “È la quinta volta che ci provo. Il sistema in teoria è perfetto, ma in pratica è un disastro. Ti faccio un esempio, l’IND usa una lista di domande per capire da dove vieni, ma gli ufficiali parlano olandese molto velocemente. Tu non capisci. E se anche hai un traduttore a disposizione, magari si sbaglia, o non riesce a spiegarsi, perché anche lui non conosce bene l’Olandese. Senza contare che i quiz sono fatti di domane scritte da occidentali, con una logica occidentale. Se tu chiedi a qualcuno a quanti chilometri sta la moschea più vicina, presumi che quella persona misuri in metri invece che passi. Quando parli di tempistiche, dai per scontato che le persone leggano il tempo attraverso gli oggetti. Se l’approccio è questo, basta poco per non essere creduti.”

Foto: Virginia Zoli
Foto: Virginia Zoli

Ma Osman non è l’unico, all’interno del collettivo di rifugiati Wij Zijn Hier, la cui domanda è stata rifiutata più volte. Stessa sorte è toccata ad Adam, originario del Sudan: regione del Darfur. “Sono ormai sette anni che vivo qui”, racconta, “e dopo tanti rifiuti della domanda ora vivo in strada. Senza documenti, qui, non sei un essere umano. Non puoi lavorare, non puoi studiare, non hai l’assicurazione sanitaria e così via.

Adam è un fantasma di Amsterdam: uno, assieme a Osman, dei quasi duecento migranti che non possono essere fisicamente deportati, ma a cui lo stato ha deciso di non concedere la protezione internazionale. E anche Adam, come altri compagni di viaggio, ha toccato diversi paesi europei – dalla Francia al Regno Unito – passando per il circolo vizioso dei fermi di polizia. Una volta arrivato nei Paesi Bassi, poi, il governo ha fatto di tutto per mandarlo indietro. “Mi hanno rinchiuso quattro volte in sette anni, prima a Rotterdam poi Zeist. Un mese, nove mesi, quindici giorni. Poi l’ambasciata ha finalmente riconosciuto che provengo dal Darfur e il DTV [l’ufficio rimpatri olandese, n.d.a.] non mi ha rimpatriato. Ma l’Ufficio Stranieri non vuole sentire ragioni e ancora sono senza lo status di rifugiato.”

Sembra che il governo giochi”, continua Adam, “Sanno che vengo dal Sudan. Qui hanno la corte penale internazionale e vogliono processare il presidente sudanese, ma non vogliono aiutare uno che viene dal Darfur. Cosa stanno facendo Olanda ed Europa con i rifugiati? È tutto un grande business!
Anche Khalid è arrivato in Olanda dal Darfur. Anche lui scappando da un genocidio. E anche lui, negli ultimi tredici anni, ha fatto avanti indietro tra centri di detenzione ed edifici abbandonati: “Adesso sto aspettando il verdetto della Corte Europea dei Diritti Umani, perché l’Olanda ha rifiutato la mia richiesta d’asilo. Ma ancora, dopo tanto tempo, vivo nella più totale insicurezza. Adesso sto parlando con te, qui dentro [un edificio occupato dal collettivo Wij Zijn Hier, n.d.a.], ma se esco e la polizia mi ferma finisco arrestato.

Khalid è stanco. Di una stanchezza che viene da lontano, atavica: “Sarò sincero con te. Non so più che significato abbia la vita. Non importa più da dove vengo. O almeno non importa più di dove sto andando. Vorrei solo vivere gli ultimi anni in pace, provare la sensazione di essere in una casa, al sicuro.”

Foto: Virginia Zoli
Foto: Virginia Zoli

Khalid è stanco anche dei giornalisti. Anche se nessuno, in tutti questi anni, gli ha mai chiesto di raccontare la sua storia. “Sì…I giornalisti di sistema.”, sorride, “Una volta, vicino al campo di deportazione di Ter Apel, ho chiesto a un giornalista olandese perché non filmava le famiglie e i bambini detenuti nel centro. Perché non ascoltava le loro storie. Mi ha risposto che non era compito suo. Era lì per filmare un lavoratore olandese che compiva gli anni. E anche adesso che tutti scrivono di rifugiati, mi sembra che usino parole senza capirne davvero il significato.”

E forse proprio questo è un punto cruciale del discorso sui rifugiati: manca quasi del tutto, nei giornali europei, la voce di chi ha provato sulla propria pelle guerre, fughe e, in ultimo, rifiuti. “Quando sono arrivato volevo studiare, imparare e aiutare il mondo”, Khalid incrocia le braccia, “Ma il tempo ormai è passato e ancora in Olanda rimane molto da fare. Qui sono ancora molto lontani da troppe cose.”

Sono racconti amari quelli di Osman, Adam e Khalid: storie migranti che raccontano la non accoglienza. Tre voci controcorrente rispetto alle fotografie di Amsterdam “Venezia del Nord”, città liberale dalla canna facile, patria del divertimento notturno e dei festival di musica elettronica. E sostenere i loro sguardi non sempre è facile: sembra si domandino, Osman, Adam e Khalid, quanto chi gli sta davanti possa davvero capire della vita ai margini di una delle tante metropoli europee.