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Ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia del 2 novembre 2000

Sport e discriminazioni - Illegittima la norma della Federazione Calcio che vieta il tesseramento in Serie C di giocatori extracomunitari

Con ricorso depositato il 27 settembre 2000 il cittadino nigeriano Prince Ikpe Ekong conveniva in giudizio ex art. 44 d.leg. 25 luglio 1998 n. 286 la Federazione italiana giuoco calcio al fine di ottenere la cessazione di un comportamento discriminatorio in proprio danno.

Esponeva di aver stipulato con la Reggiana s.p.a. un contratto di lavoro subordinato sportivo in forza del quale si era impegnato a prestare l’attività lavorativa di calciatore a far tempo dalla stagione sportiva 2000/2001 e sino alla stagione sportiva 2001/2002.
Soggiungeva che la Figc, richiesta per il tramite di Reggiana s.p.a. di procedere al tesseramento, aveva rinviato ogni decisione all’acquisizione di un parere pro veritate in ordine alla compatibilità fra le regole federali che ponevano limiti al tesseramento di calciatori extracomunitari e le norme statuali (d.leg. 286/98, cit.) e pattizie (convenzione di New York del 16 dicembre 1996) sulla condizione dello straniero.

E poiché, a detta del ricorrente, la Figc aveva già chiesto ed ottenuto due pareri pro veritate che avevano riconosciuto il diritto dei calciatori extracomunitari ad essere equiparati ai lavoratori italiani, la risposta interlocutoria di tale federazione si risolveva in un vero e proprio diniego al tesseramento cui conseguiva, stante la mancata abilitazione a svolgere l’attività agonistica, l’impossibilità di esercitare la propria attività di calciatore.

Tale diniego si basava, invero, sull’art. 40, 7° comma, delle norme organizzative interne federali (Noif) il quale, nel consentire il tesseramento di calciatori cittadini di paesi non aderenti all’Unione europea alle società calcistiche di serie A e B nella rispettiva misura di cinque e di una unità, non attribuiva tale facoltà alle squadre che, quale la Reggiana calcio, disputavano il campionato di serie C.
Ma tale norma — e la conseguente condotta serbata dalla Figc — erano contrarie sia ai principî contenuti negli art. 2, 2° comma, e 6, 1° comma, della convenzione di New York sia alla disciplina dello straniero extracomunitario in Italia di cui al d.leg. 286/98, cit. e, segnatamente, agli art. 43 e 44 che vietavano e sanzionavano ogni forma di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi; nel caso di specie esso ricorrente era stato discriminato in base alla propria nazionalità con compromissione del diritto di esercitare l’attività lavorativa.

Né assumeva rilevanza il fatto che la Figc avesse posto in essere la discriminazione (rectius: avesse emanato ed adottato le norme limitative al tesseramento di calciatori extracomunitari) nell’esercizio di un potere di natura pubblicistica ovvero di natura privatistica in quanto l’art. 44 cit. consentiva al giudice ordinario di ordinare la cessazione della condotta pregiudizievole compiuta sia dal soggetto privato che dalla pubblica amministrazione.

Sulla scorta di tali premesse il ricorrente chiedeva in via cautelare, previa declaratoria di illegittimità dell’art. 40, 7° comma, Noif e del conseguente atto di diniego, l’accertamento del diritto ad ottenere dalla Figc il tesseramento quale calciatore professionista con l’adozione dei conseguenti provvedimenti; riservava alla fase di merito la richiesta di risarcimento del danno quantificato in lire cento milioni.

La Figc, nel costituirsi in giudizio, chiedeva preliminarmente l’integrazione del contraddittorio ex art. 107 c.p.c. nei confronti della Associazione italiana calciatori, della Lega nazionale professionisti e della Lega nazionale professionisti di serie C in quanto parti dell’accordo (di limitare il tesseramento dei calciatori extracomunitari) trasfuso nella norma federale in questione.

Chiedeva altresì che il contraddittorio venisse esteso, sempre ex art. 107 c.p.c., anche al Comitato olimpico nazionale italiano in quanto ente deputato a garantire l’ordinato accesso degli sportivi stranieri nel territorio dello Stato ex art. 40 d.p.r. 394/99 attuativo del d.leg. 286/98.

La Figc si rimetteva infine a giustizia quanto alle richieste formulate in via cautelare limitandosi a contrastare la sola domanda di risarcimento del danno.

La A.C. Reggiana s.p.a., pur riconoscendo la legittimità della pretesa del proprio giocatore, si rimetteva a giustizia.

Ciò posto il giudicante osserva quanto segue.

Deve essere preliminarmente disattesa la richiesta di integrazione del contraddittorio formulata dalla Figc atteso che l’art. 107 c.p.c. non può trovare applicazione nel presente procedimento il cui oggetto precipuo è l’immediato accertamento della condotta discriminatoria e la pronta rimozione degli effetti pregiudizievoli.

Va ad ogni buon conto osservato che l’associazione calciatori e le due leghe non sono titolari di un rapporto sostanziale connesso per titolo o per oggetto a quello dedotto in giudizio avendo, se mai, un mero interesse di fatto alla soluzione della presente controversia e, segnatamente, alla tutela del posto di lavoro dei calciatori italiani ed al mantenimento dei c.d. vivai.

Anche il Coni non è titolare di alcuna situazione legittimante la chiamata in causa iussu iudicis non avendo detto ente alcuna competenza in tema di tesseramento dei calciatori che, per converso, spetta alla Figc giusta l’art. 13 dello statuto.

Irrilevante appare al riguardo il richiamo all’art. 40, 14° comma, d.p.r. 31 agosto 1999 n. 394 — il quale prevede che l’autorizzazione al lavoro è sostituita, per gli sportivi stranieri, dalla dichiarazione nominativa di assenso del Coni — posto che nel caso di specie non si discute dell’ingresso del ricorrente nel territorio dello Stato per motivi di lavoro — già da tempo avvenuto in modo del tutto legittimo — bensì del concreto esercizio dell’attività lavorativa (di calciatore).
Quanto al merito, occorre premettere che l’art. 43 d.leg. 286/98 definisce come discriminatorio «ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».

Va altresì premesso che la Figc è l’unica federazione sportiva italiana riconosciuta dal Coni per ogni aspetto riguardante il gioco del calcio in campo nazionale (cfr. art. 1, 4° comma, dello statuto nel testo approvato il 14 ottobre u.s.), che le società e le associazioni che svolgono l’attività del gioco del calcio in Italia si avvalgono di calciatori tesserati (art. 6, 1° comma) ed infine che spetta alla Figc stessa il compito di procedere, alle condizioni stabilite da proprie norme organizzative, al tesseramento dei calciatori (art. 13, 1° comma).
Ciò posto si osserva che, al di là delle giustificazioni fornite dalla Figc, il mancato tesseramento del ricorrente trova reale ed unico fondamento nel disposto dell’art. 40, 7° comma, Noif, il quale nel prevedere che solo le società di serie A e B possano tesserare giocatori extracomunitari, non consente analoga facoltà alle società di serie C fra cui la Reggiana calcio cui l’Ekong è legato giusta contratto di lavoro sportivo stipulato il 13 settembre 2000.

L’Ekong è stato quindi escluso dalla possibilità di essere tesserato dalla Figc sulla base della propria origine nazionale di nigeriano.
E tale discriminazione ha avuto l’effetto di compromettere l’esercizio di una «libertà fondamentale in campo economico» e, più in particolare, del diritto di esercitare l’attività di calciatore in Italia in quanto la Figc è l’unico soggetto riconosciuto come deputato ad organizzare il gioco del calcio nel territorio nazionale e a provvedere al tesseramento dei giocatori.

A nulla vale obiettare che l’Ekong percepisce egualmente la retribuzione dal proprio datore di lavoro in quanto chi esercita l’attività di calciatore ha un evidente interesse ad eseguire la prestazione contrattuale; è infatti notorio che solo giocando il calciatore può mettere in mostra la propria abilità e che, viceversa, periodi di forzata inattività possono comportare una perdita di valore sul mercato.
Né, al fine di escludere l’adozione dei provvedimenti conseguenti all’accertamento di siffatto comportamento discriminatorio, può essere invocata la specialità dell’ordinamento sportivo.

L’art. 43 d.leg. 286/98 — che trova fondamento (anche) nella convenzione delle Nazioni unite per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale ratificata dall’Italia con l. 1° ottobre 1975 n. 654 — assicura l’eguaglianza degli esseri umani rispetto alla legge e garantisce la parità di trattamento di fronte ai medesimi comportamenti da chiunque serbati; il principio di non discriminazione si coniuga dunque con quello di uguaglianza.

L’art. 16 l. 23 luglio 1999 n. 242, di riordino del Coni, statuisce che le federazioni sportive nazionali sono rette da norme statutarie e regolamentari sulla base «del principio di partecipazione alla attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità …».
L’autonomia dell’ordinamento sportivo non può quindi significare l’impermeabilità totale rispetto all’ordinamento statuale ove, come nel caso di specie, soggetto legittimato in via esclusiva ad abilitare l’esercizio del gioco del calcio (id est: la Figc) impedisca tale facoltà solo sulla base di un ingiustificato (rectius: vietato) elemento di differenziazione.

Tanto più che fra i compiti istituzionali della Figc rientra anche quello di promuovere «l’esclusione dal gioco del calcio di ogni forma di discriminazione sociale, di razzismo, di xenofobia e di violenza» (cfr. l’art. 2, 5° comma, dello statuto di recente approvato). E tale norma, anche alla luce della disposizione statutaria (art. 1, 1° comma) secondo cui la federazione ha lo scopo di disciplinare «l’attività del gioco del calcio e degli aspetti ad essa connessa», va interpretata estensivamente nel senso che deve essere impedita ed eventualmente rimossa anche la discriminazione relativa alle modalità di accesso al gioco del calcio.

Va quindi conclusivamente affermato che l’accertamento del comportamento discriminatorio deve comportare, in questa fase sommaria della procedura, l’adozione dei provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti pregiudizievoli.

A tal fine non assume particolare rilevanza verificare se la Figc, la cui natura di associazione con personalità giuridica di diritto privato si deve coniugare con la valenza pubblicistica di specifici aspetti dell’attività svolta ha agito nella presente vicenda nell’esercizio di un potere di natura pubblicistica o privatistica, atteso che l’art. 43, 2° comma, del menzionato decreto indica fra i comportamenti discriminatori anche quelli compiuti da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio e che l’art. 44 attribuisce (coerentemente) al giudice ordinario il compito di accertare ed eliminare tanto il comportamento discriminatorio del privato quanto quello della pubblica amministrazione.

Ciò posto e ribadito che il mancato tesseramento del ricorrente trova esclusivo fondamento nell’applicazione da parte della Figc dell’art. 40, 7° comma, Noif, occorre dichiarare in via incidentale l’illegittimità di tale norma per contrasto con il disposto di carattere imperativo di cui all’art. 43 d.leg. 286/98.

Alla declaratoria di illegittimità della norma federale consegue il diritto del ricorrente di ottenere dalla Figc il tesseramento quale calciatore professionista.

Le ulteriori questioni, fra cui l’esame della domanda risarcitoria proposta dall’Ekong, verranno trattate nella successiva fase processuale.