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da L'Unità del 13 marzo 2002

Lampedusa, nessuna pietà per i vivi. Ma le tv non devono vedere di Enrico Fierro

Trattati come cani. I vivi e i morti. Non c’è pace né rispetto per le vittime della strage di Lampedusa.
Una strage di uomini e donne senza nome e senza neppure un numero (quanti erano su quel barcone? Da dove venivano? Quante donne e quanti bambini sono annegati in quelle acque scure?) e sulla quale la magistratura di Agrigento sta cercando di lanciare un fascio di luce.

Contraddittorie le testimonianze dei superstiti, scarsi gli indizi e solido il muro di silenzio della Marina Militare.
I pm sono alla ricerca di quel video girato dai pescatori della “Elide”, il motopeschereccio d’altura che per primo ha avvistato la barca dei disperati. Da quelle immagini, forse, potrà iniziare la ricostruzione di una verità che in pochi vogliono davvero.
Cominciamo da quelli che non ce l’hanno fatta a raggiungere il loro sogno italiano: sette uomini e cinque donne morti tra i flutti del Canale di Sicilia.
Arrivano sabato che è passata la mezzanotte a Porto Empedocle a bordo di quattro pescherecci che li hanno ripescati dal mare e messi nel ghiaccio, tra i pesci e i gamberi bianchi. Sulla banchina del porto della cittadina cara ad Andrea Camilleri la fioca luna della notte proietta una sinistra luce sulle bare portate dalla Prefettura di Agrigento, sono di legno solido, forte, certamente più tenace delle fasce fradice del barcone di quei disperati colato a picco giovedì sera. I corpi di quegli uomini e di quelle donne senza nome e senza patria sono sistemati sulle poppe di pescherecci dal nome gentile e avventuroso: «Pindaro», «Esago», «Maria Madre», «Teseo».

Sono malamente avvolti in buste di plastica verde di colore e circondati dal ghiaccio. La loro destinazione è l’ospedale di Agrigento, un’altra cella frigorifero e poi l’autopsia.

E ora i vivi. Quelli che hanno avuto «fortuna», gli undici sopravvissuti al naufragio. All’alba vengono svegliati dai carabinieri. Sono nel centro di accoglienza di Lampedusa, che ha stanzette linde e letti caldi, il reticolato che cinge un’alta cancellata e i militari di guardia. Sul pennone la bandiera italiana e quella dell’Europa. Raccattano le poche cose che la solidarietà degli isolani ha donato e vengono caricati su un «gippone» dei carabinieri. Il telo abbassato, le teste di quegli sventurati pure. Destinazione il porto di Lampedusa, dove c’è il traghetto per Porto Empedocle. Il gippone arriva di corsa e va diritto nella pancia della «Paolo Veronese», la nave della «Siremar» che fa la spola tra l’isola e il porto agrigentino.

I militari sono nervosi, vedono le telecamere e si imbufaliscono, calano i teli sulla testa di quei disgraziati perché l’occhio delle tv – c’è Rai e Mediaset – non veda. L’ordine è quello dei giorni precedenti: non fare avvicinare i giornalisti. La scena che vediamo ci ricorda la cattura di Totò Riina, eppure di fronte abbiamo solo poveri disperati. Un carabiniere – jeans e giubbotto, capelli stretti dal gel e occhiali a specchio, ma senza placca identificativa – è il più nervoso di tutti. Inveisce contro i giornalisti. Una scena pietosa. Poi arriva il comandante della stazione e l’unica sua preoccupazione è quello che manderanno in onda le televisioni. Gli chiediamo il perché di quel comportamento e lui non ha parole: «Queste sono le disposizioni che ho ricevuto».
Da chi, da quale comando non riusciamo a saperlo. Ora i superstiti della strage sono nella pancia del traghetto, a capo chino, il mare è mosso e loro balleranno per nove, dieci ore prima di arrivare a Porto Empedocle. Ad aspettarli c’è un altro centro di accoglienza, altro filo spinato e altri militari di guardia. Non potranno parlare con i giornalisti e non potranno comunicare con i loro parenti sull’altra sponda del Mediterraneo. Aspetteranno solo i magistrati della procura che vorranno sentirli come testimoni oculari di quella sciagura.

Giorgio Bisagna è un avvocato palermitano e si batte per i diritti di rifugiati e immigrati. E’ uno degli animatori del Ciss (Cooperativa internazionale Sud-Sud) una organizzazione non governativa ed è un legale di punta dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. «Il trattamento riservato ai superstiti del naufragio di Lampedusa è inumano, al di fuori di ogni legge e di ogni regola. Chiederemo alla procura di Agrigento di accertare se le procedure seguite dalle autorità italiane abbiano violato le libertà personali». L’avvocato ha preso carta e penna e scritto al prefetto di Agrigento e per conoscenza alla procura chiedendo che ai superstiti venga concesso un permesso di soggiorno temporaneo, perché, spiega, «si tratta di naufraghi ripescati in acque internazionali, non di clandestini. E in più sono testimoni di giustizia. Per loro vanno applicate le norme che impongono in questi casi un chiaro divieto di respingimento». Associazione e legali si batteranno perché non si verifichi più quello che è successo in questi giorni. E sarà una battaglia dura.
Stretti nelle buste di plastica i morti sbarcano nel loro ultimo porto, e i pescatori continuano il racconto di quella malanotte della strage. Parla Pino Asaro, comandante dell’«Esago», uno dei pescherecci giunti in zona: «Quando abbiamo sentito il pam pam (il segnale di soccorso in mare n.d.r.) eravamo a poche miglia di distanza. Siamo arrivati e ho visto il corpo di una donna galleggiare sull’acqua. Sono riuscito ad accostare e stavo per afferrarla, ma il braccio mi è sfuggito ed è scomparsa nuovamente tra i flutti. Forse era ancora viva, forse potevo salvarla». Quel tratto di Mediterraneo, un mare aperto troppo lontano dall’Africa e dalle coste italiane, è un mare di morte. «Durante le nostre battute di pesca capita spesso di trovare sull’acqua legni, bidoni e altri relitti alla deriva che segnalano il naufragio di una barca. Ma di queste tragedie nessuno sa nulla. Vascelli fantasma, inghiottiti dal mare insieme al loro carico umano». Michele Trinca è il comandante del “Teseo”, a Porto Empedocle ha sbarcato quattro cadaveri: «Nell’ultima settimana abbiamo incrociato tre-quattro di questi barconi che puntavano verso Lampedusa. Ormai è diventata quasi una formalità. Ma le rotte di provenienza dei clandestini non sono più quelle della vicina Tunisia. Arrivano sempre più da sud, dalla Libia, una zona di mare aperto dove è più difficile individuarli, ma anche dove é più difficile soccorrerli».