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A cura dell'Avv. Gianluca Vitale - ASGI

Torino – Un CPT minorile: calpestati gli interessi e i diritti dei minori

Nella delibera (due paginette) si legge che “eventi di cronaca” hanno reso evidente il fenomeno dello sfruttamento di minori stranieri in stato di abbandono. Sarebbero, secondo la delibera, prevalentemente bambini e preadolescenti marocchini e rumeni, sfruttati da adulti in attività di spaccio, furti e borseggio; bambini “che vedono continuamente negati e violati i loro diritti”. Bene ! Era ora che qualcuno trovasse il modo di riaffermare i loro diritti, di proteggerli, di lottare contro il loro sfruttamento. Ma sarà proprio così?

La “pericolosità sociale”: strategia mediatica per giustificare un carcere per bambini?

I primi dubbi vengono leggendo la prognosi fatta dalla giunta sul futuro di questi bambini: sono bambini sfruttati in fasce di età sempre più basse, per i quali s’innescano meccanismi di devianza, “in cui per il futuro si può ravvisare una crescente pericolosità sociale”.
Questa frase, buttata lì come per caso, rivela la “filosofia” del Comune, e ci fa capire il perché di certe scelte: questi bambini sfruttati sono ormai segnati, irrecuperabili; il loro destino è quello dei delinquenti (“se hai imparato da piccolo a rubare o spacciare, solo quello potrai fare da grande!”), se resteranno in Italia non potranno che essere un pericolo. La soluzione non può, allora, che essere trovata nella legge sull’immigrazione, che pur vietando l’espulsione del minorenne, ne consente il “rimpatrio assistito”: se il minore è in Italia senza la famiglia, si possono cercare i genitori nel Paese di origine e, verificato che essi siano in grado di occuparsi del figlio (sia moralmente che economicamente), si può procedere con l’ausilio dei servizi sociali al rimpatrio del minore.
Visto, però, che per il rimpatrio occorre tempo, ecco che viene creata un’apposita struttura, dove il minore è trattenuto per sessanta giorni, durante i quali egli potrà essere compiutamente identificato e munito dei documenti necessari per il rimpatrio. Proprio come il maggiorenne – non si può non pensare -, che viene trattenuto per un massimo di sessanta giorni (durante i quali sarà identificato e munito di documenti di viaggio) presso un centro di permanenza temporanea, per poi essere coattivamente espulso.
Come i maggiorenni da espellere, inoltre, i minorenni che finiranno in questa struttura non possono allontanarsi (al personale che gestirà il “servizio” si chiede infatti di “vigilare costantemente ed attivare tutte le precauzioni necessarie e possibili onde evitare l’allontanamento dalla struttura dei minori”; cfr. specifiche tecniche della struttura). Che nome può darsi ad una struttura nella quale un ragazzo è accompagnato con la forza, e dalla quale non può scappare? Ovvio: “struttura protetta a carattere sperimentale”! (Solo un maligno può pensare carcere o centro di permanenza temporanea!).

“Tutela e protezione”: in realtà, senza interventi educativi, leggi “reclusione e rimpatrio”!

Certo, nella delibera si legge anche che tale struttura deriva dalla necessità di “predisporre interventi di protezione e tutela nei confronti di questi minori” (oltre a, ovviamente, “organizzare l’eventuale rimpatrio”).
Forse, però, in realtà si dovrebbe leggere che è necessario predisporre interventi di tutela e protezione da questi minori.
Alla comunità(anche se è sempre più difficile continuare a chiamarla così, proseguendo la lettura della delibera e soprattutto delle caratteristiche tecniche della struttura) non sembra infatti essere richiesto alcun intervento di reale tutela e protezione, di recupero del minore, di lotta al suo sfruttamento.
Tra le attività, infatti, oltre alle cure sanitarie e al soddisfacimento dei bisogni primari, ci sono infatti solo “ascolto e supporto psicologico” e “attività ludico- ricreative o sportive”, oltre a – come è logico in una struttura che aiuta i minori vittima di sfruttamento – “appoggio educativo motivazionale per l’eventuale rientro in famiglia o nel paese d’origine” (certamente non per la permanenza in Italia) e “collaborazione sulle procedure istruttorie” (elencate minuziosamente e senza neppure i puntini di sospensione: “identificazione, documentazioni varie, accompagnamenti presso le Autorità Consolari, rimpatrio assistito”).
Nulla che possa far pensare anche solo all’ipotesi che il minore possa restare in Italia; ogni attività in tal senso viene negata o impedita. E’ probabilmente per questo motivo che non è previsto che il minore debba andare a scuola (alla faccia dell’obbligo scolastico), o seguire dei corsi di italiano, o apprendere un mestiere. Nel centro si faranno solo “attività ludico-ricreative o sportive” (partite di calcetto, forse sperando che alla sera i ragazzi siano abbastanza stanchi da dormire senza storie), e li si convincerà di quanto sarà bello tornare dal papà e dalla mamma. Proprio la mancanza di qualsiasi previsione di attività educative, scolastiche o culturali, ci permette di comprendere quanto la giunta comunale intenda “proteggere e tutelare” questi ragazzi.
Nonostante i ragazzi destinati ad essere portati in questa comunità siano “vittime di sfruttamento”, non pare che per loro possa ipotizzarsi il rilascio di un permesso per protezione sociale ai sensi dell’art. 18 della legge sull’immigrazione (quello che può essere rilasciato alle ragazze vittime della tratta, che denuncino gli sfruttatori oppure che si sottraggano ai propri sfruttatori ed intraprendano un percorso di integrazione sociale).
Non si immagina neppure che essi possano sottrarsi allo sfruttamento ed inserirsi nella società (lo si diceva prima, sono solo delinquenti in erba): è inutile pensare a recuperarli socialmente; bisogna solo allontanarli il più in fretta possibile (e nel frattempo impedirgli di nuocere). Per questo motivo nella delibera comunale c’è solo un passaggio relativo all’opportunità di identificare e perseguire gli adulti che si rendono responsabili del loro sfruttamento e maltrattamento, ma solo come obiettivo ulteriore rispetto al rimpatrio.
Di questo tipo di attività non c’è più traccia nella scheda relativa alle caratteristiche tecniche (neppure alla voce “collaborazione sulle procedure”).

Il rimpatrio in centri di assistenza nei paesi di origine: siamo OLTRE la Bossi-Fini! (nonché oltre la costituzione, ma questo ormai è normale…)

Il rimpatrio potrà avvenire secondo la giunta torinese non solo presso le famiglie, ma anche “in centri di assistenza nei paesi d’origine”. A volte, infatti, rimpatriare i minori potrebbe non essere possibile perché non si trovano i genitori, o proprio i genitori li hanno costretti a venire in Italia (magari vendendoli), o sono comunque inidonei. Prevedere un rimpatrio in centri di assistenza nei paesi di origine è allora l’uovo di Colombo, che consente di rimpatriare ogni minore che finisca nella comunità (si è pensato, almeno, di verificare come sono gestite queste comunità, quale sarebbe la sorte dei ragazzi ?). Questa previsione ci permette anche di capire perché, nella delibera, si parli in particolar modo di minori marocchini e rumeni: questi due paesi hanno già concluso accordi di riammissione con l’Italia, e potrebbero essere particolarmente “disponibili” a riammettere, anche in comunità, un minorenne. Per i minori rumeni o marocchini è quindi possibile prevedere, in futuro, che il Comitato minori stranieri (l’organismo centrale, composto da funzionari ministeriali, che decide del rimpatrio dei minori in stato di abbandono) istituisca una “corsia preferenziale”, che permetta di disporre il rimpatrio in soli due mesi (normalmente ne occorrono molti di più).
Se questo è ciò che la giunta ha pensato non possiamo che essere contrari.

Vengono calpestati gli interessi e i diritti dei minori (quelli che, secondo la Convenzione di New York sui diritti del minore del 1989, dovrebbero sempre essere considerati preminenti), ridotti a semplici potenziali soggetti pericolosi. Assurdamente, in quanto sfruttati, viene negata loro ogni possibilità di costruirsi un progetto di vita onesta in Italia (venendo così addirittura discriminati rispetto ai maggiorenni stranieri vittime di sfruttamento, che possono avere un permesso per protezione sociale, nonché agli altri minori stranieri soli, che hanno comunque la possibilità di avere un permesso per minore età, in alcuni casi rinnovabile anche dopo i diciotto anni). Non vengono dunque applicate quelle parti della legge sull’immigrazione che potrebbero consentire l’integrazione dei minori vittime di sfruttamento, per creare un centro di permanenza temporanea per minori che neppure la Bossi-Fini aveva immaginato.
E questo nonostante il decreto del Presidente del Consiglio n. 535 del 9.12.99 (ossia l’unico strumento che, ai sensi dell’art. 33 del testo unico sull’immigrazione, può stabilire le condizioni di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati) preveda che ai minori stranieri non accompagnati “sono garantiti i diritti relativi al soggiorno temporaneo, alle cure sanitarie, all’avviamento scolastico e alle altre provvidenze disposte dalla legislazione vigente” – e abbiamo già evidenziato che a questi minori, invece, il Comune intende negare sia il permesso temporaneo, sia l’avviamento scolastico -, e soprattutto stabilisca che “al fine di garantire l’adeguata accoglienza” il Comitato minori stranieri possa proporre al Dipartimento Affari Sociali di stipulare convenzioni con amministrazioni pubbliche “in conformità ai principi e agli obiettivi che garantiscono il superiore interesse del minore, la protezione contro ogni forma di discriminazione, il diritto del minore ad essere ascoltato”.
Tutto ciò pare assente nella delibera della giunta comunale (a proposito: dov’è la convenzione con il Dipartimento Affari Sociali, su proposta del Comitato?).

Una piena tutela dei minori vittime di sfruttamento, e una vera lotta ai loro sfruttatori, dovrebbe passare attraverso la predisposizione di progetti individuali di integrazione dei ragazzi (certo faticosi per tutte le parti coinvolte, ma spesso capaci di dare ottimi risultati), consentendo agli stessi di farsi una vita regolare in Italia, sottraendoli ai loro aguzzini. Solo quando ciò non risulti possibile, e quando un eventuale ritorno nel paese di origine sia veramente nel loro interesse (quando i minori siano scappati di casa, e sia comunque possibile e positivo un loro reinserimento nella famiglia di origine), si potrebbe procedere al rimpatrio assistito.
In questa direzione, purtroppo, non sembra andare il comune di Torino, che sceglie la comoda via di disfarsi al più presto di possibili problemi.