Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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da Il Manifesto del 27 maggio 2003

Nel recinto dei nomi inventati di Federica Sossi

Migranti, nello spazio sospeso dei centri d'accoglienza il diritto alla memoria e al racconto di sé

Porticciolo di Lampedusa, Sicilia, Italia. Lì, quest’estate, ho assistito a uno sbarco. Quaranta, o quarantadue uomini da un lato, fatti accostare e poi sedere lungo il muro del porticciolo, dopo aver ricevuto l’ordine di togliersi le cinture e i lacci delle scarpe. Quattro, cinque uomini in borghese dall’altro, manganelli, poi raggiunti da altri, anche questi in borghese, anche loro manganelli e guanti, guanti e mascherine, non parlavano con gli immigrati, davano loro ordini a gesti, con i gesti dei manganelli, parlavano tra di loro, o parlavano con i turisti, per ordinargli di non parlare con gli immigrati. Sono rimasta sino all’ultimo, poi li ho seguiti nel loro percorso, quaranta o quarantadue uomini in fila, privi di lacci, deportati verso il Centro di permanenza, fatti passare per vie un po’ periferiche, e ho parlato con uno di loro. Ho annotato il suo nome; me l’ha dato lui prima di varcare il cancello con il filo spinato che separa il Centro di permanenza dal resto dello spazio di Lampedusa, mi ha suggerito anche come si scrivesse, perché era un nome che non conoscevo e non capivo; solo giorni dopo, quando qualcuno mi ha detto che in arabo quel nome non esiste, mi è venuto in mente che assomigliava a quello di un calciatore famoso, del Milan, mi è stato detto poi. Ho scelto di iniziare con quest’immagine, parlando di lui, quel calciatore algerino dal nome simile al calciatore del Milan, di lui, probabilmente non calciatore, forse non algerino, certamente non calciatore del Milan, per provare a dire qualcosa rispetto al diritto alla memoria e al racconto di sé.

Per poter rispondere alla domanda «chi sei?» bisogna raccontare la storia della propria vita, dice Hannah Arendt.

Ad Hannah Arendt che mi racconta una storia del Novecento, o forse anche dell’Ottocento, quella storia della propria vita che i romanzieri hanno provato a dettare ai fogli bianchi sulle loro scrivanie e che i non romanzieri hanno dapprima sciolto e poi ricostruito sui lettini degli analisti, vorrei suggerire un’altra immagine. Quella di lui, il calciatore algerino, o quella di altre persone poste in una situazione simile alla sua. Non Lampedusa, non un’isola, ma un deserto, non l’Italia, ma l’Australia, e sempre all’interno di un luogo recintato: le bocche cucite con il filo dei detenuti nel Centro-Lager di Woomera. Con le bocche cucite da un filo, credo non si possa parlare, e, dunque, nemmeno raccontare. Con le bocche cucite da un filo si potrebbero fare dei gesti, a indicare o a sintetizzare qualcosa, non comunque il nome e il cognome, non il luogo di provenienza, non i figli, le figlie e le mogli o i mariti, non gli amori, non le sensazioni di fronte al mare al tramonto o alle montagne innevate, non le madri, i padri, non le parole apprese e i balbettii dell’angoscia, insomma, non la vita, la storia della propria vita.

In realtà, mi pongo semplicemente nella continuità di considerazioni fatte da Hannah Arendt in anni in cui dalle categorie inventate nel primo Novecento per rinchiudere le persone dietro a fili spinati si è passati, nell’ultimo tratto del Novecento e ora, ad un’altra categoria. Quella categoria di esseri umani a cui apparteneva anche lui, sbarcato a Lampedusa, con labbra non cucite dal filo, ma impedite a parlare, a parlare di sé. A rispondere, dunque, alla domanda «chi sei?», o obbligate a rispondere con fatti solo inventati: un nome inventato, un paese d’origine probabilmente inventato, e solo un desiderio non inventato, quello di rimanere in Italia per lavorare, il suo futuro immaginato, solo immaginato, perché al suo immediato futuro l’Italia, Lampedusa e il suo sole, la sua terra, stavano per offrire una permanenza all’interno del filo spinato.

Per nominare questi luoghi, con cui l’Italia ha disegnato all’interno del territorio del proprio stato uno spazio d’eccezione, che non rientra nel diritto penale, perché le persone trattenute non hanno commesso un reato, ma che è comunque uno spazio detentivo (…) i legislatori italiani hanno avuto una grande invenzione: anziché parlare di Centri o Spazi di detenzione, hanno preferito far ricorso al vocabolario umanitario dell’assistenza. Centri di permanenza temporanea e di assistenza, così li ha chiamati la legge e così continuano a chiamarsi. (…) La parola assistenza indica, alla lettera, che ci si occupa della vita delle persone, siamo quindi di fronte a uno spazio chiuso, in cui i detenuti sono assistiti in modo costrittivo. Siamo, dunque, sempre seguendo Hannah Arendt, al di fuori dello spazio politico. Di quello spazio relazionale, in cui gli uomini si incontrano e appaiono gli uni agli occhi degli altri, e al centro della preoccupazione del quale non c’è l’uomo, ma il mondo.

(…) Questa strana forma di detenzione – amministrativa, un ibrido tra il penale e il civile, ma anche un ibrido tra il penale e l’umanitario – diventa sempre più pervasiva all’interno degli stati-nazione come risposta degli stati al passaggio degli individui sui loro territori, è un ibrido anche tra le esigenze e le risposte abituali delle società sicuritarie o di controllo, il fatto che in esse il potere sui corpi si eserciti nel passaggio, sulla mobilità, nel fuori, all’esterno, e il modello della società disciplinare. E’ una pratica di delimitazione spaziale degli individui, uno spazio, dunque, creato da un potere che si esercita in base al modello disciplinare, ma manca in essa uno degli elementi essenziali che per Foucault caratterizzano la società disciplinare. Localizza persone, immigrati, «clandestini», irregolari, o localizza corpi, ma non individui. Nessuno sguardo su di essi, oppure, quello di un occhio che ha già decriptato i loro comportamenti non a partire dal luogo in cui esercita la propria capacità di visione, ma a partire da un sapere che gli viene dal fuori, quel sapere che nella sostanzializzazione del binomio cultura/luogo ha creato le masse etniche. Non individui, ma corpi culturali ed etnici, non individui, cioè, alla lettera, non indivisibili, perché, nonostante la chiusura dello spazio, lo sguardo che li imbriglia non crea indivisibilità ma riporta alla collettività.

«In realtà – scrive Foucault in Bisogna difendere la società – ciò che fa sì che un corpo, dei gesti, dei discorsi, dei desideri siano identificati e costituiti come individui, è già uno dei primi effetti del potere. L’individuo non è il vis-à-vis del potere, ma credo che ne sia uno degli effetti principali». Ripercorrendo alcune pagine del percorso foucaultiano che insegue e si insinua nelle diverse trame di questo intreccio di potere e sapere capace di creare gli individui, e che Foucault chiama anche società di confessione, si può azzardare che, in esso, l’ordito sia costituito da uno spazio che chiamerei spazio biografico. Da secoli, ormai, l’individuo si autentica proprio a partire da un discorso di verità il cui oggetto è se stesso – la verità di una parola obbligatoria, necessaria ed estorta, in tutte le manifestazioni della vita quotidiana – che si è ormai cristallizzato come modello di libertà. Una vita quotidiana, si potrebbe dire, attraversata e informata da un modello letterario, di cui, forse, Le confessioni di Sant’Agostino, quella continua parola di un io che strappa a se stesso frammenti di verità su di sé per donarli all’istanza di un tu, sarebbe il capolavoro indiscusso se quell’io non avesse tralasciato, relegandola all’insignificanza, una parola sull’inizio: quell’infanzia che riempirà in seguito altre pagine letterarie proprio mentre verrà indagata, scrutata e fissata da una scienza medica, la psichiatria, che diventa così potere e istanza generale di controllo sociale e giuridico.