Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

dal Il Manifesto del 12 giugno 2003

Invisibili a Roma di Giovanna Boursier

Da via della Pisana, periferia sud est di Roma, si svolta a destra su una stradina sterrata, fino a raggiungere un prato. Fa un caldo da morire e sembra di avere le traveggole: ci sono materassi per terra, reti da letto appoggiate su cassette, abiti appesi ai pochi alberi, una sedia di velluto, due orsi di peluche sull’erba. E un’ottantina di persone che ci vengono incontro e ci guardano, stralunate e stravolte. La prima cosa che chiedono è acqua. Poi cominciano a raccontare. Sono rom rumeni, uomini, donne e bambini in fuga dal loro paese. Spiegano che in Romania dopo la caduta di Ceausescu la vita per loro è impossibile: «Là per noi non c’è più niente. Nessun futuro. Non abbiamo più lavoro e siamo perseguitati. Dal `91 sono cominciati i pogrom: assaltano e bruciano le nostre case, ci cacciano, ci ammazzano.

La polizia non interviene. Abbiamo paura per noi e i nostri figli. E per questo scappiamo. Cerchiamo un posto dove vivere». Dinu ha 39 anni, faccia scura e occhi segnati dalla stanchezza: «Siamo arrivati qualche mese fa. Quasi tutti da Craiova. Abbiamo chiesto asilo politico. Vorremmo fermarci e lavorare. Possiamo comprare e rivendere in giro, come fanno i cinesi. E suonare, anche. Siamo bravi. Prima siamo andati in un campo ma le nostre baracche sono bruciate. E comunque lì non potevamo rimanere. Allora siamo venuti qui, ci siamo messi in quel casolare. Ma sono venuti i carabinieri e ci hanno portato in questura. Ci hanno identificati e hanno detto che anche lì non potevamo stare. Così ora siamo in questo prato».

Di fronte al prato c’è il casolare, giallo e fatiscente. Sopra l’ingresso la scritta: «Vendita polli a Lire 500». «Capisci quanto è vecchio – continua Dinu – nessuno lo usava e noi potevamo metterlo a posto. Abbiamo anche fatto dei lavori e poi il proprietario ci ha accusato di averglielo rovinato. Ma cosa dobbiamo fare?». La sua è la domanda di tutti su questo prato. Un signore, l’unico del vicinato che è venuto fin qui, spiega che tutto è abbandonato da anni: «Il casolare potevano lasciarglielo, almeno per un po’. Lo avevano anche rimesso a posto. Invece niente. Mi fanno pena», e piange, «così non possono vivere».

Sono ottantacinque persone, una trentina di bambini, sette donne incinte. Tutti mostrano i documenti: alcuni hanno chiesto asilo politico, altri hanno permessi di soggiorno temporanei. Quindi in Italia possono restare, almeno fin che non saranno valutate le richieste o i permessi scadranno. Chi ha chiesto asilo politico avrebbe anche diritto a un luogo d’accoglienza e assistenza: «Qualcosa ci hanno offerto – spiega Petre, che l’italiano lo parla bene – ma solo per le donne e i bambini. E noi abbiamo paura a dividerci, vogliamo restare insieme e quindi non ci andiamo. Cercheremo un altro posto. Ci hanno detto di andare in un luogo di proprietà comunale perché magari lì ci lasciano».

Così l’altroieri, di notte, alcuni sono entrati in un ex fabbrica abbandonata, un vecchio opificio che il maresciallo Fioravanti – che della zona conosce tutto – ricorda «dai vecchi tempi, quando c’era ancora il Pci e gli scioperi duri». E’ un omone corpulento, con grandi baffi bianchi, e anche lui non sa bene cosa dire. Ai rom, che aveva già identificato al casolare, chiede di nuovo di andarsene. Spiega che il proprietario vive a Londra e che ha dovuto intervenire su richiesta di consolati e ministeri: «E’ la prassi», aggiunge. «E questo devo fare. Se mi dicono dove portarli ce li porto con i pullman. Per il resto tocca alle amministrazioni». Mentre i rom cominciano a uscire, arrivano anche i consiglieri di circoscrizione. Non parlano con i rom ma tanto al telefono. Interpellano assessori e responsabili e nessuno sa che fare. Luigi Nieri, assessore alle periferie, si preoccupa e telefona: «sto cercando di capire – dice – con i colleghi coinvolti. Mi attivo perché capisco bene che non vogliono dividersi per andare nei centri di accoglienza. Ma quello non è uno stabile comunale e non possono restare». La palla passa all’assessorato alle politiche sociali: «Cerchiamo posti nei centri di accoglienza ma solo per donne e bambini – spiega al telefono Enrico Serpieri – adesso vi facciamo sapere. Ma il problema è che il ministero dell’interno scarica su di noi i richiedenti asilo. Lo stato non attiva nulla, nemmeno risorse. E arrivano migliaia di persone ogni mese. A Roma saranno migliaia gli immigrati `invisibili’ e non c’è più posto per accoglierli. I centri sono pieni».

I posti alla fine sono tre, per tre donne e tre bambini. Poi tutto si ferma. E’ sera quando i rom decidono di tornare al loro prato. «Ci basterebbe – conclude Petre – un pezzo di terra per fare le baracche e vivere un po’ meglio. Siamo scappati dalla Romania per la stessa situazione che vedete adesso. Ma non abbiamo mai un posto dove vivere. Abbiamo diritto solo ad attraversare la strada, come mi ha detto un poliziotto. E’ una vita tragica. I cani italiani stanno meglio. Qui non c’è acqua, non possiamo lavarci, e di notte è tutto buio, con le serpi e i topi. I bambini si stanno ammalando. E anche gli adulti. Siamo andati a parlare con quelli del comune. Ci hanno detto che non gli interessa. Qualcuno ci ha suggerito di andare in un hotel. Ma come facciamo? E i carabinieri ci hanno detto che i bambini non possono stare sul prato, se no ci arrestano. Ma dove, allora?».